Per u.d.g. è ora di fermare Israele
ma l'ora di fermare il terrorismo non viene mai
Testata:
Data: 04/11/2006
Pagina: 11
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Forza di pace, se non ora quando?
"Se non ora quando", si chiede, riecheggiando un titolo di Primo Levi, Umberto De Giovannageli sull'UNITA' del 4 novembre 2006 a proposito dell'ipotesi di inviare una forza internazionale a Gaza.
Si potrebbe rispondere che, volendo davvero evitare l'inevitabile reazione israeliana, la comunità internazionale avrebbe potuto preoccuparsi prima di bloccare il continuo lancio di razzi kassam dalla Striscia di Gaza, il contrabbando di armi attraverso i tunnel al confine con l'Egitto, l'ascesa del potere di Hamas dopo lo smantellamento delle colonie e il ritiro dell'esercito...
Di seguito, l'articolo con alcune ulteriori osservazioni:
Se non ora, quando? Quando dagli ospedali senza più plasma e macchinari funzionanti usciranno le foto di corpicini senza vita? O quando, la rabbia degli «ingabbiati» sfornerà un nuovo esercito di «shahid» nelle mani degli emissari di Hezbollah o di Al Qaeda? Quando, se non ora la Comunità internazionale dovrebbe dare segno di sé nell'inferno di Gaza? Le notizie che giungono dalla Striscia insanguinata raccontano di una «guerra dimenticata» che solo nelle ultime 72 ore ha provocato quasi quaranta morti e un centinaio di feriti. Racconta di una moschea in cui avevano cercato riparo miliziani dell'intifada, presa d'assalto dai soldati israeliani.
Racconta di donne, forse usate come scudo umano,
Su questo punto, non c'è nessun forse: Hamas e le partecipanti al corteo hanno pronunciato chiare rivendicazionisu cui gli assaltatori di Beit Hanun hanno aperto il fuoco. Racconta di razzi Qassam che ricominciano a bersagliare le città di confine israeliane.
I razzi kassam non hanno affatto "ricominciato" a bersagliare le città di confine israeliane. I lanci non sono mai cessati. Le operazioni attuali sono state decise appunto per fermarli. Perciò gli "assalitori di Beit Hanun" sono in realtà i difensori di Sderot La potenza delle armi maschera l'impotenza della politica. Il sinistro crepitio dei kalashnikov piega gli appelli rivolti dal moderato Abu Mazen all'Europa perché agisca. A Gaza come in Sud Libano. Con unità e determinazione. «Fermate il massacro di Beit Hanun», ripete il rais palestinese.
Fermatelo prima che la miccia accesa a Gaza faccia saltare la polveriera mediorientale. Fermatelo se credete realmente che la pace in Medio Oriente passa inevitabilmente per una equa soluzione alla questione palestinese. Un messaggio, quello lanciato dal presidente palestinese, che in Italia ha orecchie attente e ricettive. Nella società, tra le organizzazioni non governative, nel sindacato, nell'associazionismo che in questi tragici anni di odio e di sangue, hanno continuato a praticare la solidarietà concreto verso il popolo palestinese, convinti che il modo migliore per essere anche dalla parte di Israele è quella di realizzare sul campo «ponti» di dialogo capaci di incrinare i «muri» della diffidenza (e dell'apartheid). Di ciò sarà espressione la manifestazione nazionale per la giustizia e la pace in Medio Oriente del prossimo 18 novembre a Milano.
Tutti costoro hanno mai seriamente (cioè accettando la possibilità di rotture politiche) cercato di convincere i loro interlocutori palestinesi della necessità di abbandonare la via del terrorismo?
Se lo avessero fatto, già ai tempi di Arafat, avrebbero dato il contributo alla pace ( e all'indipendenza palstinese) che rivendicano e che non hanno in realtà mai dato.Ma il messaggio che giunge dalla martoriata Striscia trova attenzione anche nel governo italiano. Nel presidente del Consiglio, nel ministro degli Esteri. Più volte, Massimo D'Alema ha rilanciato la proposta di una forza di osservatori internazionali nella Striscia di Gaza. Una presenza sul terreno a garanzia della sicurezza di due popoli. Una forza di interposizione diversa da quella dislocata nel Sud Libano, ma non per questo meno significativa. Soprattutto sul piano politico. Perché questa forza ridarebbe speranza agli «ingabbiati di Gaza», potrebbe aprire uno spiraglio al dialogo, darebbe corpo alla volontà di rilanciare il processo di pace. Una «forza della speranza» in un luogo in cui la speranza non alberga più da tanto, troppo tempo. Se non ora, quando? A chiederlo è anche l'Israele del dialogo, che continua a contestare e contrastare la (tragica) illusione che esista una scorciatoia militare alla soluzione del «problema» palestinese.
È l'Israele di David Grossman, degli eredi di Yitzhak Rabin. L'Israele che è percorso da un brivido di orrore e da un fremito di sdegno quando sente il neoministro Avigdor Lieberman esaltare il "modello-Putin" e fare di Gaza la Cecenia del Medio Oriente. Una forza di interposizione per far volare le "colombe" e tarpare le ali ai falchi.
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