La paura che domina la società israeliana in conseguenza della minaccia iraniana e della "sconfitta" in Libano è cattiva consigliera, porta al governo l'"estremista di destra" Avigdor Lieberman e blocca l'avvio di trattative con la Siria di Assad ( che aspettava gli israeliani a braccia aperte, par di capire...)
L'analisi di Anna Momigliano pubblicata sul RIFORMISTA del 25 ottobre 2006 dipende dal falso presupposto che Israele abbia un'interlocutore con il quale trattare.
Chi, esattamente?
La Siria che sostiene il terrorismo di Hamas e recapita a Hezbollah le armi di Teheran?
Abu Mazen che ancora non è venuto a capo della lotta per il potere nell'Autorità palestinese?
Ecco il testo:
Dalla guerra in Libano, catastrofe politica per Gerusalemme e catastrofe umanitaria per Beirut, poteva uscire qualcosa di buono, soprattutto in Israele. Così, evidentemente, non è stato, e l’entrata dell’estrema destra nel governo di Gerusalemme ne è la prova più lampante.
A un certo punto, subito dopo il cessate il fuoco, ci avevano creduto in molti: il mito della superiorità militare di Tsahal è caduto, si diceva, la Siria è ritornata prepotentemente sulla scena delle relazioni internazionali, e Israele dovrà decidersi a intavolare negoziati con il regime di Sadat. È il famoso parallelo con la Guerra del Kippur - quando Israele, mossa a più miti consigli da una vittoria di Pirro con tre eserciti arabi, firmò la storica pace con l’Egitto - divenuto quasi un mantra per analisti e commentatori. Ora, si pensava, è il momento di aprire i negoziati con la Siria: l’ipotesi non sembrava poi così peregrina, perché se c’è una cosa che la campagna libanese ha dimostrato è che la via delle armi non è più sicura per garantire la sicurezza, e per un certo momento i fatti sembravano confermare questa prospettiva: negli ambienti vicini al governo israeliano si cominciava a prendere in considerazione la restituzione del Golan, se la Siria si fosse impegnata a interrompere il sostegno a Hezbollah e Hamas; dal canto suo, lo stesso Bashir el Assad, tra una provocazione e l’altra, lanciava qualche segnale mentre aperture esplicite a Damasco provenivano dal ministro della Difesa Amir Peretz, dal ministro della Sicurezza Avi Dichter e, con toni assai più tiepidi, dal vicepremier Shimon Peres. Gli elementi per pensare a un cambiamento di rotta sul dossier siriano, che è evidentemente al centro della contesa tra Gerusalemme e Hezbollah, c’erano tutti.
Più della teoria, però, conta la pratica. E i fatti parlano chiaro: la sconfitta morale non ha mosso Israele a più miti consigli, né ha aperto la strada per un ricambio politico costruttivo. Al contrario, sentendosi sotto pressione, il premier Ehud Olmert ha deciso di aprire le porte ad Avigdor Lieberman - neoministro con un portafoglio che è tutto un programma, Minacce strategiche - e alla sua formazione ultra nazionalista “Yisrael Beitenu”, che fin dal periodo elettorale rappresentava lo spauracchio più temuto nelle consultazioni per la formazione della coalizione di governo: a metà strada tra l’estrema destra di stampo europeo e l’ala più oltranzista del Likud, “Yisrael Beitenu” ha fatto proprie idee impresentabili (come il «trasferimento», di fatto la deportazione, degli arabi israeliani), flirta con l’ebraismo ultra-ortodosso nonostante rappresenti la comunità russa che è tutto fuorché ortodossa.
“Yisrael Beitenu” è insomma la scheggia impazzita della destra israeliana, e il suo ingresso nel governo rischia di dividere le due principali anime della coalizione, Labour e Kadima. Poco entusiasta della mossa di Olmert, il leader laburista Peretz ha incontrato ieri il primo ministro per chiedere chiarimenti e il comitato centrale del partito si riunirà la prossima settimana per decidere sul da farsi. Nessuno, almeno a breve termine vuole fare cadere il governo in un periodo di incertezze, e tanto più quando non si scorge alcuna alternativa all’attuale formazione se non una coalizione guidata dalla destra “tradizionale” del Likud. Ma è vero anche che il Labour è messo alle corde, che la coalizione con Lieberman costerebbe l’ultimo residuo di credibilità.
Una cosa, per ora, sembra chiara: un governo di “unità nazionale” (termine che rischia di essere fuorviante) formato da Kadima, Labour, estrema destra e dagli ultraortodossi di Shas difficilmente potrà aprire i negoziati con la Siria. Si dirà che, come la storia insegna, in Israele la destra ha gioco facile a fare la pace molto più della sinistra, che leader come Ariel Sharon, Yitzhak Rabin e Menachem Begin si trovavano con un governo di minoranza quando hanno compiuto passi storici. Ma questa volta non c’è nessun Rabin e nessun Begin: al governo c’è Ehud Olmert, che si è già rivelato una guida debole e inefficace. Difficilmente questo governo avrà la capacità o la volontà di scelte radicali, e la decisione di includere Lieberman sembra dettata da un unico fattore: la paura.
Ed è forse il “fattore paura” l’elemento che gli analisti hanno finora sottovalutato. Tutto, in Israele, dagli equilibri della Knesset all’opinione pubblica, è condizionato dal senso di profonda insicurezza: una paura profonda che, sotto molti aspetti, va al di là del senso di vulnerabilità generato dalla guerra del Kippur, che genera dubbi sulla sopravvivenza stessa dello Stato ebraico, e che trova la sua incarnazione in una potenza molto vicina, l’Iran. Anche l’ascesa dell’estrema destra in questi giorni non va confusa con il consolidamento della destra storica negli anni Settanta, che portò alla pace dell’Egitto: visto da sinistra, il Likud può non piacere, ma rimane un partito dalle solide credenziali pragmatiste, mentre la formazione di Lieberman racchiude in sé alcuni elementi irrazionali dell’ideologia völkisch. Chi sperava che «la lezione libanese» avrebbe convinto Israele ad abbandonare la via militare per garantire la propria sicurezza, si è dovuto sbagliare. La paura è sempre cattiva consigliera.
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