135 premi nobel ed ex capi di stato hanno firmato un appello per "risolvere" il conflitto mediorentale in base al principio "terra in cambio di pace", che in passato quando è stato applicato non ha affatto portato alla pace, ma ad offensivie terroristiche senza precedenti contro Israele.
L 'UNITA', che nessuna lezione ha tratto dalla storia, è naturalmente entusiasta.
Ecco l'articolo di Umberto De Giovannangeli:
EX CAPI DI STATO come Jimmy Carter, Mikhail Gorbaciov. Ex primi ministri, come il britannico John Major. Otto premi Nobel per la pace, tra i quali l’iraniana Shirin Ebadi e l’arcivescovo sudafricano anglicano Desmond Tutu. Centotrentacinque perso-
nalità politiche (tra cui l’ex segretario generale dell’Onu Boutros Ghali), religiose (tra gli altri il Dalai Lama), intellettuali unite nel chiedere - in una lettera aperta pubblicata ieri dal Financial Times - una soluzione rapida al conflitto in Medio Oriente. Una presa di posizione importante, per l’autorevolezza dei suoi estensori, e per la chiarezza della strategia negoziale evocata. «Tutte le parti sono perdenti in questo conflitto tranne gli estremisti nel mondo, che prosperano attraverso la rabbia che continuano a scatenare», afferma la lettera. «Ogni giorno che passa affonda un po’ di più la prospettiva di una soluzione pacifica e duratura», aggiunge. «Finchè il conflitto durerà, provocherà instabilità e violenza nella regione e al di fuori», prosegue l’appello, secondo cui gli obiettivi da raggiungere «devono essere la sicurezza e il riconoscimento pieno dello Stato di Israele all’interno di frontiere riconosciute, la fine dell’occupazione per il popolo palestinese, con uno Stato sovrano, indipendente e realizzabile, e la restituzione alla Siria del suo territorio perduto».
L’appello dei «135» incrocia la gravissima crisi in atto in Palestina. Una crisi che rischia di sfociare in una sanguinosa guerra civile. Sul piano diplomatico, quella di ieri è stata la giornata di Condoleezza Rice. La segretaria di Stato Usa ha prima incontrato a Ramallah il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen, e in serata ha avuto una cena di lavoro a Gerusalemme con il premier israeliano Ehud Olmert. Qualsiasi nuovo governo palestinese che sarà formato in futuro dovrà riconoscere gli accordi già sottoscritti dall’Olp, ribadisce il rais nella conferenza stampa tenuta con Rice. Con la responsabile della diplomazia statunitense, Abu Mazen ha fatto il punto sul tentativo di formare un governo di unità nazionale palestinese, di «come le trattative siano deragliate», come pure «degli avvenimenti degli ultimi giorni». In scontri fra miliziani armati di Hamas e del Fatah undici palestinesi sono stati uccisi da domenica. Al presidente dell’Anp, Rice ha ribadito l’obiettivo di una futura soluzione in Medio Oriente che porti alla creazione di «due Stati democratici, Israele e la Palestina, che vivano in pace uno accanto all’altro». Nella conferenza stampa congiunta con il leader dell’Anp, la segretaria di Stato Usa ha auspicato la formazione nei Territori di un nuovo governo «in grado di rispondere alle esigenze del popolo palestinese e di rispettare i principi definiti dal Quartetto». Questo, ha aggiunto, al fine di «gettare le basi di un movimento verso l’obiettivo che auspichiamo tutti, una soluzione basata su due Stati democratici, Israele e la Palestina, che vivano in pace uno accanto all’altro». Sulla possibilità di un vertice tra Abu Mazen e Ehud Olmert, Rice si è mostrata (moderatamente) ottimista: «Non ci vorrà molto», dice. «Al presidente Abu Mazen - sottolinea Rice - ho detto che siamo molto preoccupati, naturalmente, per le condizioni umanitarie nei Territori palestinesi. Gli ho assicurato - conclude - che raddoppieremo gli sforzi per migliorare le condizioni del popolo palestinese». Condizioni che si aggravano di giorno in giorno, soprattutto nella Striscia di Gaza.
A pagina 12 un articolo di Gabriel Bertinetto presenta la controversia tra Iran e comunità internazionale come un problema che non riguarda minimamente la prospettiva di un regime totalitario e antisemita in possesso di armi di distruzione di massa.
Il titolo è pieno di ammirazione per Ahmadinejad e gli ayatollah: "Nucleare, l'Europa non piega l'Iran"
IL TEMPO DEL DIALOGO È SCADUTO. Javier Solana, negoziatore europeo nel contenzioso nucleare con Teheran, prende atto che la controparte rifiuta di sottostare all’unica condizione posta dalla comunità internazionale, e non interrompe l’arricchimen-
to dell’uranio nei suoi impianti. «Nel momento in cui vi parlo -dice Solana intervenendo al Parlamento di Straburgo- l’Iran non ha preso alcun impegno per la sospensione». Le sei grandi potenze coinvolte nelle trattative (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania) «hanno seguito due strade -spiega Solana-: il dialogo oppure il trasferimento del dossier al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Ma il dialogo non può continuare in eterno. A questo punto tocca agli iraniani decidere se quel tempo è terminato. Se è così, noi dovremo cominciare a percorrere la seconda strada, vale a dire il rinvio della questione al Consiglio di sicurezza».
La lunga, tortuosa, snervante iniziativa diplomatica che per un mese ha avuto per protagonisti il responsabile della politica estera europea Solana e il rappresentante della Repubblica islamica, Ali Larijani, è dunque arrivata a un punto morto. «Abbiamo raggiunto una posizione comune su alcuni temi, ma non sulla questione chiave», afferma Solana. Non sono bastati gli incentivi economici offerti a Teheran purché escludesse dal proprio programma atomico le tecnologie giudicate sospette, in quanto applicabili anche alla fabbricazione di ordigni e non solo alla produzione di energia per usi civili.
Ancora ieri il presidente Ahmnadinejad, in un comizio tenuto a Nazarabad, ha ripetuto che il suo Paese «non intende indietreggiare di un pollice su ciò che riguarda i propri legittimi diritti, e proseguirà il suo cammino con gloria». In un successivo comizio a Hashtgherd, il capo di Stato ha rincarato la dose, scagliandosi contro coloro che chiedono di rinunciare all’arricchimento dell’uranio, perché «sono ostili allo sviluppo del popolo iraniano, e non vogliono che l’Iran diventi un modello per gli altri popoli». Anzi, in un crescendo di enfasi retorica, si è spinto sino a proclamare che «non vogliono i nostri progressi perché sanno che diventeremmo la più grande potenza mondiale».
Gli Stati Uniti, che da tempo premono per il varo di sanzioni contro il regime degli ayatollah, prendono atto delle conclusioni cui è giunto Solana, e attraverso il segretario di stato Condoleezza Rice, propongono la fine delle trattative. Parlando a conclusione di un incontro col presidente palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas) a Ramallah, la Rice ha detto che «siamo giunti a un punto nel quale gli iraniani devono compiere le loro scelte e la comunità internazionale agire di conseguenza». Condoleezza Rice ha ricordato che la risoluzione 1696 del Consiglio di sicurezza dell'Onu sul contenzioso nucleare iraniano fa espresso riferimento al Capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite che dà all'Onu ampi potere di azione, in special modo quello di imporre sanzioni nei confronti di Stati ritenuti una minaccia alla pace. Nella prossima riunione dei «5+1» «penso che la logica imponga che si metta fine a questi interminabili negoziati. È ciò che dovremo fare».
A pagina 26 l'ineffabile Pino Arlacchi ci spiega che il vero pericolo non è l'Iran, ma la prospettiva che qualcuno intervenga per fermarne la corsa all'atomica,
L'alternatvia proposta da Arlacchi consiste nel sostegno al regime nella speranza di "ridare fiato" in Iran all'economia e alla "democrazia" (sic! come si faccia a pensare di poter promuovere la democrazia finanziando i dittatori è un mistero), riavviando il "dialogo" e ottenendo la sospensione del programma nucleare e del sostegno alla "destabilizzazione" regionale.
Arlacchi aveva elaborato una strategia simile con il regime dei talebani in Aghanistan, quando si occupava di lotta alla droga all'Onu.L'obbiettivo era ottenere la lotta alla coltivazione e all'esportazione dell'oppio, senza considerare altri problemi, quali che fossero (dal sostegno al terrorismo alla violazione dei diritti umani, fino alla distruzione del patrimonio artistico del paese).
Di lì a poco, dall'Afghanistan sarebbe partita l'offensiva terroristica di Al Qaeda.
Questo si può dire delle idee di Arlacchi su come affrontare le crisi internazionali e i rapporti con il mondo islamico: prima dell'11 settembre erano sbagliate, ma potevano ingannare qualcuno. Dopo, sono state drammaticamente confutate dalla storia. Chi ci crede vuole essere ingannato.
Ecco l'articolo:
Lo sbocco finale della crisi iraniana non dipende solo dalle mosse diplomatiche degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. La posizione iraniana diventa ogni giorno più forte, e per capire cosa succede occorre togliersi i paraocchi dell’informazione «embedded», integrata nella politica estera. La prima cosa da tenere in conto è lo scenario più ampio. La partita iraniana non è una partita a tre (Europa-Usa-Iran), e non c'è in gioco solo l’arricchimento dell’uranio. Negli ultimi mesi lo scenario è cambiato. Lo stato della sicurezza ai confini dell’Iran - in Afghanistan, in Iraq e in Pakistan - si è nettamente deteriorato. La provincia di Anbar, a ovest di Baghdad è ormai fuori del controllo americano e del governo iracheno. La provincia di Diyala, nel nordest, viene ormai chiamata la «repubblica talebana», dove le milizie sunnite dominano incontrastate. Le morti civili irachene avvengono con una frequenza senza precedenti, e le perdite tra le truppe americane continuano a salire: in soli 5 giorni, dal 15 al 19 settembre, per esempio, ci sono stati 200 feriti in combattimento. In Afghanistan i Talebani ed altre formazioni paramilitari controllano ora larghe parti del sud e del sudest. Il loro successo militare è superiore alle loro stesse aspettative, e la Nato fa il loro gioco, aumentando i bombardamenti e le vittime civili. Se avete dei dubbi, leggete la storia di copertina dell’edizione internazionale di Newsweek di questa settimana: «Come stiamo perdendo l’Afghanistan: la nascita dell’Jihadistan».
Il peggioramento della situazione in Afghanistan e in Iraq ha attirato l’attenzione dei media, ed ha quasi nascosto lo sviluppo più importante degli ultimi tempi: la capitolazione del governo pakistano di fronte ai gruppi paramilitari del Waziristan, la zona dove probabilmente si nasconde Bin Laden, e dove d'ora in poi governeranno le milizie, dato l’«accordo di pace» stipulato da Musharraf con loro all' inizio di settembre. Accordo che prevede il rilascio di 2500 «combattenti» dalle prigioni pakistane e la cessione di quel territorio all’estremismo islamico. Bush ha dovuto digerire questa sconfitta, che ha annullato in un paio di settimane tutto quanto guadagnato in Pakistan nei 5 anni precedenti.
La ritirata americana è dovuta al legame obbligato con Musharraf. Il suo crollo ad opera del fondamentalismo, sia che avvenga per via democratica tramite elezioni, che per via violenta tramite colpo di stato o assassinio, realizzerebbe lo scenario più catastrofico. Quello di un paese di 160 milioni di abitanti, dotato di armi atomiche e in guerra contro un altro paese, che cade in mano a gruppi estremisti anti-occidentali. L’intelligence americano ha già elaborato i piani di distruzione aerea degli impianti atomici pakistani nel «worst case scenario», ma ciò non è di grande consolazione. Ciò che è certo è che tutti i piani neo-cons per il Medio Oriente sono falliti. L’idea di trasformare l'Iraq e l' Afghanistan del dopoguerra in due stati-clienti, dove mantenere 6 grandi basi militari, 4 in Iraq e 2 in Afghanistan con 30mila uomini in tutto, allo scopo di far fiorire la democrazia, si è rivelata errata. Come quella, in contrasto con la prima, di stabilizzare il Pakistan tramite la dittatura soft di Musharraf.
La consapevolezza di un grande fallimento si sta insinuando nella politica interna americana. Il nervosismo aumenta a vista d’occhio. La comunità dell’intelligence ha messo le mani avanti, con il rapporto sull’Iraq che dice con durezza ciò che il resto del mondo dice dal 2003. I democratici stanno rialzando la testa, e Clinton con la sua intervista del 22 settembre ha ritirato il sostegno dato a Bush dopo l’11 settembre. Una sconfitta alle elezioni di novembre, con la perdita della maggioranza alla Camera dei rappresentanti, darebbe un colpo fortissimo all’amministrazione Bush e condizionerebbe non poco le presidenziali del 2008. Date queste circostanze, la tentazione di mettere in piedi una vasta operazione diversiva sta diventando molto intensa tra i duri del governo Bush e dell’estrema destra americana. E non è impossibile che sia proprio l’Iran a fornire l’obiettivo.
Il regime di Teheran, d'altra parte, si sente rafforzato dai successi degli Hezbollah in Libano ed ha colto al volo l’occasione fornitagli dai falchi americani quando hanno trasformato in un dossier internazionale un modesto contenzioso con l’Agenzia Atomica a proposito di ispezioni sui programmi di arricchimento dell’uranio. Gli Ayatollah si sono ricompattati all’interno, emarginando ulteriormente i riformisti. Il governo di Teheran si è proposto inoltre al Terzo Mondo, tramite una sofisticata diplomazia, come la vittima della prepotenza multilaterale che applica due pesi e due misure concedendo ad una decina di paesi ciò che non viene permesso all’Iran.
C’è ben poco, in effetti, che il Consiglio di Sicurezza possa fare a proposito del nucleare iraniano. Quando l’Agenzia Atomica di Vienna dichiara che questo non è, allo stato, una minaccia, e che l’Iran non possiede alcuna struttura industriale per l’arricchimento dell’uranio ma solo conoscenze e potenzialità, la strada delle sanzioni è sbarrata.
E con essa è sbarrata anche quella di un confronto militare facile, a basso costo. Si profilano così due strade per la crisi iraniana. La prima è il suo graduale rientro a seguito di una trattativa basata su quello che vari analisti chiamano il «grande scambio» tra la tecnologia, gli investimenti e la cooperazione euro-americana da una parte, e la rinuncia al nucleare e al sostegno all’eversione regionale da parte dell’Iran dall’altro.
Un vasto pacchetto di misure che ridarebbe fiato all’economia e, si spera, alla democrazia della Persia riprendendo il dialogo con l’Occidente dei tempi di Katami e di Clinton. Questa è l' idea dell’Unione Europea, e del governo Prodi in particolare.
L’altra strada è quella di un aumento artificiale della tensione nei rapporti con Teheran, attraverso la creazione di una sensazione di crisi a ridosso delle elezioni dei primi di novembre. E forse anche dopo. Alcuni recenti movimenti di naviglio militare, purtroppo, fanno pensare che c'è qualcuno che vuole mantenere aperta questa opzione. E varie voci di un possibile attacco aereo alle presunte postazioni nucleari iraniane, in parallelo ad un blocco navale «preventivo» dello Stretto di Hormuz, (nel senso di impedire agli iraniani la posa delle mine), vanno nella stessa direzione.
Questo scenario è molto rischioso. Non tanto per la sua realizzabilità effettiva, che è bassa. Quanto per il fatto che nel Medio Oriente ci sono anche altri giocatori in campo, e che non è facile controllare l’esito di tutti i bluff.
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