Un appello antisraeliano
e una puntuale risposta da parte di chi non l'ha firmato
Testata:
Data: 03/10/2006
Pagina: 1
Autore: Angelo D'Orsi
Titolo: Facciamo sentire la nostra voce!

Il sito Historia Magistra si presenta così:

 
Dal Manifesto di Fondazione dell'Associazione Historia Magistra
La volontà di non rimanere invischiati nelle parole e di contribuire in prima persona alla riaffermazione del ruolo della Storia, ci ha trovati d’accordo nel progetto di fondazione di una scuola storica ispirata ai valori del rigore metodologico e dell’impegno civile che animano l’insegnamento del professor Angelo d’Orsi, sotto la cui guida la maggior parte di noi ha compiuto o sta compiendo il suo apprendistato di “storico”, presso l’Università degli Studi di Torino. Da questa idea è nata ora “HISTORIA MAGISTRA. Associazione culturale per il Diritto alla Storia” - sotto la presidenza del prof. Angelo d’Orsi - che intende con varie iniziative (convegni, seminari, attività di ricerca e discussione, pubblicazioni, incontri con docenti della Scuola Media Superiore…) dar corpo ai propositi espressi nel Manifesto.

In questi giorni il sito pubblica un apppello antisraeliano, diffuso dal professor Angelo D'Orsi dell'Università di Torino,  ispirato dalle vicende della guerra contro Hezbollah.
Lo riproduciamo insieme alla risposta critica della professoressa Daniela Santus, anch'essa docente all'Università di Torino (in grassetto corsivo)

 

 Gli appelli degli intellettuali sono un rito. E rischiano di passare inosservati, specie quando esprimano punti di vista estranei all’opinione prevalente. Eppure mai come oggi, noi sottoscritti, docenti di varie sedi universitarie, donne e uomini impegnati nel “mestiere” di intellettuali, riteniamo sia un dovere, prima che un diritto, “dire la nostra”, invitando tutti coloro che esercitano la nostra stessa professione, e che dovrebbero promuovere il dubbio e segnalare la complessità e la problematicità degli eventi, contro la disinformazione e la menzogna, a ridestarsi dal letargo, o a gridare sui tetti le parole che, molti, a mezza voce dicono tra di loro. Ci riferiamo a quella che pudicamente, e ipocritamente, è stata chiamata “la guerra del Libano” e che invece va definita con il nome che le compete: l’aggressione israeliana al Libano.

 

Mi pare un dato inconfutabile che sia stato Hizbullah a cercare lo scontro. Lo stesso Nasrallah ha confermato, rallegrandosene, l'aggressione.

Certo all'inizio potrebbe aver pensato all'ennesimo ricatto nei confronti d'Israele. L’ultima volta che Nasrallah ha tentato di imporre col ricatto uno scambio di prigionieri, infatti, fu nel 2004: Israele allora accettò di scarcerare centinaia di detenuti in cambio del sequestrato “uomo d’affari” Elhanan Tennenbaum e dei corpi di tre soldati (sequestrati e uccisi nell’ottobre 2000).

Per cui è possibile ipotizzare che il capo degli Hizbullah abbia potuto immaginare un analogo scenario, dal suo punto di vista glorioso, nel momento in cui prendeva in ostaggio i due soldati israeliani, catturati con un attacco a freddo in territorio israeliano. Ma pare a Voi, cari colleghi, corretto questo modo di agire? Purtroppo per lui (o per fortuna, visto che ora si vanta del successo!) ne è seguita una reazione israeliana del tutto diversa, per quanto imprevedibile potesse essere da parte di un governo in cui siede come ministro della difesa il pacifista e laburista (di origine marocchina) Amir Peretz.

 

Le motivazioni che i governanti e i militari d’Israele forniscono, accettate acriticamente dai media e politici europei, sono che la guerra sia una risposta all’attacco degli Hezbollah: ma una incursione militare con la cattura di due soldati (tuttavia i dubbi sulla natura vera, “preventiva”, e concertata con Washington, dell’attacco israeliano, si fanno ogni giorno più corposi, sulla base di rivelazioni e documenti inquietanti), può, sul piano del diritto prima ancora che su quello etico, dare luogo a una risposta come quella cui il mondo ha assistito inerte? L’azione svolta per oltre un mese – le armi tacciono da pochi giorni, ma non del tutto, e non siamo sicuri che il loro silenzio perdurerà, e Israele non è apparsa finora intenzionata a un rispetto assoluto della tregua – dalle truppe di Tel Aviv, 
(Perchè Tel Aviv? La capitale d'Israele è Gerusalemme...Sarebbe come dire le truppe di Milano, piuttosto che di Roma!!!)
ha provocato oltre un migliaio di morti, la gran parte civili, di cui moltissimi bambini, ha devastato un Paese, al quale da tempo immemorabile gli israeliani recano danni e lutti, distruggendone infrastrutture, edifici civili, strade, fabbriche, ospedali, e preziose testimonianze storiche e artistiche. Si è trattata di una sia pur limitata “guerra totale”:

(sintatticamente non regge: una guerra non può essere "totale" e "limitata" al tempo stesso...suggerisco la lettura di Von Klausevitz)

ai civili, al territorio, all’ambiente, nella quale le forze armate israeliane hanno dispiegato una potenza terribile, facendo ricorso anche ad armi illegali, contro un Paese, multietnico e multireligioso, quale il Libano, che non ha neppure la possibilità materiale di difendersi.

 

Chiediamoci il perchè il Libano non ha la possibilità materiale di difendersi e vive ostaggio di Hizbullah e Siria...

 

Nel 1971 terroristi palestinesi con base in Libano uccisero 61 civili israeliani.

 
Nel 1975-76 l’IDF (Israel Defense Forces) riuscì in larga misura a sigillare il confine israeliano-libanese e la costa israeliana settentrionale  alle incursioni dell’OLP. Anche lo scoppio della guerra civile libanese (tra cristiani e musulmani!!!), nel 1975, fu di ostacolo ai terroristi (conflitto che si trascinò sino al 1990 e che fece più di 100mila morti).

 
Nei primi anni di guerra, i palestinesi subirono una serie di sconfitte. A Beirut due campi profughi furono conquistati dai cristiani, che massacrarono buona parte degli abitanti.

 
 Ma a parte qualche battuta di arresto, lo Stato palestinese nello Stato libanese andava consolidandosi e possedeva persino un esercito di 90.000 uomini. Possedeva un proprio sistema fiscale, una forza di polizia, un sistema giudiziario, scuole e ospedali.

 
Tra il 1977 e l’81 l’OLP continuò le sue incursioni nel nord d’Israele con artiglieria e razzi: in quel periodo nacque l’alleanza israelo-cristiana. Nel maggio 1977 era stato eletto, in Israele, Menachem Begin: i cristiani maroniti avevano appena chiesto aiuto a Israele.

 
Begin avrà certamente pensato al fatto che, per millenni, i cristiani avevano oppresso e ucciso gli ebrei. Ma ora che una comunità cristiana chiedeva aiuto proprio agli ebrei – dopo che l’Europa le aveva voltato le spalle – Begin cedette alla tentazione di mostrare al mondo che il suo popolo avrebbe fatto per i cristiani libanesi minacciati di genocidio quello che l’Europa e gli Stati Uniti non avevano fatto per gli ebrei durante la Shoah.

 
I siriani, che si erano a loro volta inseriti nel conflitto, bombardavano i villaggi maroniti e i quartieri cristiani di Beirut Est uccidendo centinaia di civili. Durante e dopo ogni strage, i cristiani libanesi chiedevano aiuto a Gerusalemme e Israele incominciò a inviare armi e ad addestrare ufficiali e sottufficiali falangisti.

 
Il 3 giugno 1981 Begin, alla Knesset, affermò che “la sicurezza e la sopravvivenza dei cristiani in Libano” erano un “interesse vitale per Israele” e che se i  cristiani fossero stati ancora “attaccati dall’aviazione siriana” Israele sarebbe intervenuta “in loro difesa”.

 

Nel frattempo l’OLP continuava ad attaccare, nel Libano meridionale, le città israeliane della Galilea.

 
Il 6 giugno 1983 gli israeliani entrarono in Libano. Gli obiettivi di Ariel Sharon erano quelli di sconfiggere l’OLP ed espellere dal Libano meridionale quel che ne restava; cacciare i siriani ed installare a Beirut un governo filoisraeliano. L’operazione venne chiamata Pace in Galilea.

 
A seguito di scontri e bombardamenti aerei, Arafat decise di lasciare il Libano. Il 21 agosto 1982 cominciò l’evacuazione. Una forza multinazionale composta da 800 americani, 800 francesi, 400 italiani e 300 uomini dell’esercito libanese si schierò a protezione della ritirata. Una parte delle truppe dell’OLP, le brigate dell’Esercito Palestinese e i resti dell’85^ brigata siriana lasciarono la città su autocarri diretti in Siria e alla Bekaa: le truppe dell’OLP in ritirata poterono portare con sé le armi leggere.

 
Negli 11 giorni dell’evacuazione, 14.398 palestinesi e siriani lasciarono Beirut, ma si schierarono indisturbati nel Libano settentrionale. I dirigenti OLP si distribuirono tra Siria, Algeria, Yemen del Nord e del Sud, Iraq, Giordania e Sudan: il quartier generale fu trasferito in Tunisia.

 
Beshir Gemayel venne eletto Presidente della Repubblica del Libano.

 
Alle 16.10 del 14 settembre 1982 un agente siriano fece detonare una potente carica esplosiva: morirono il Presidente Gemayel e un’altra dozzina di persone.

 

Sharon incontrò i comandanti falangisti Fadi Frem e Khobeika per coordinare l’eliminazione dei terroristi. Il mattino seguente le IDF completarono la conquista di Beirut Ovest.

 

Il 16 settembre 1982 intorno alle 18.00, 150 uomini di Khobeika entrarono nei campi profughi di Sabra e Chatila, attraversando indisturbati – e pare facilitati – le linee israeliane. Nella notte tra il 16 e il 17 settembre la notizia della carneficina giunse in alcuni quartieri generali israeliani, ma fu considerata un’esagerazione e non vennero presi provvedimenti. E infatti il pomeriggio del 17 settembre si incontrarono generali delle IDF, Khobeika e altri ufficiali cristiani per discutere sulla lotta al terrorismo come se niente fosse accaduto.

Nei giorni seguenti la Falange cristiana negò di avere alcuna responsabilità e trovò un insperato appoggio da parte dei leaders islamici e dell’OLP. La colpa venne fatta cadere surrettiziamente su Israele.

 

Il 21 settembre venne eletto Amin Gemayel. Israele, in seguito a pressioni americane, si ritirò dal Libano, mantenendo soltanto una fascia di sicurezza.

 

Il disimpegno israeliano fu seguito da un peggioramento del conflitto: siriani e suoi alleati ricominciarono a cannoneggiare Beirut Est; i Drusi massacrarono centinaia di cristiani e costrinsero gli altri ad andarsene. I cristiani considerarono l’espulsione dalle loro case come diretta conseguenza del “tradimento” d’Israele che si era ritirato.

 

Da quel momento il Libano è uno Stato fantoccio.


Le stesse parole usate dai rappresentanti del potere israeliano – tra le quali spicca la parola “rappresaglia”, e la frase del capo del governo Olmert, “non chiederemo scusa a nessuno” – confermano il carattere punitivo, “esemplare” di questa guerra non dichiarata, che si aggiunge a innumerevoli atti compiuti dai governanti di Tel Aviv in spregio a reiterate risoluzioni dell’Onu (oltre 70, rimaste tutte disattese!), e alle norme del diritto internazionale.

 

Chiedo ai colleghi di giurisprudenza: il diritto internazionale non vieta anche l'uso di scudi umani? Pare che Hizbullah ne abbia fatto uso a piene mani...soprattutto a Qana!

 

 Questa guerra insomma è il più recente, ma temiamo non l’ultimo, atto di una politica fondata sull’arroganza di un esercito potentissimo, spalleggiato dalle amministrazioni e dalla quasi totalità dei centri di potere finanziario e mediatico statunitensi, e di gran parte dei Paesi occidentali.

Davanti a tale scempio della legalità, della giustizia, e della morale, le voci di dissenso nella comunità intellettuale sono state poche e sommesse. Perché? Perché su di noi – che ci professiamo democratici (molti dei firmatari si dichiarano senza esitazione “di sinistra”), antirazzisti, amici del dialogo tra i popoli, le religioni, le culture, come le nostre biografie intellettuali e politiche dimostrano – grava il peso di un ricatto: chi critica Israele, ci si dice, ne vuole la distruzione, chi condanna la sua politica è marchiato come antisemita. Ebbene, noi che ci siamo battuti contro fascismo, militarismo, razzismo (in specie l’antisemitismo), e ogni forma di ingiustizia e di illegalità, contro le disuguaglianze, contro la prepotenza dei forti, e dalla parte dei deboli, oggi diciamo basta.

Oggi dobbiamo avere il coraggio di essere impopolari, dichiarando a tutte lettere che la politica israeliana, e alle sue spalle quella statunitense (con il sostegno permanente dell’alleato-subordinato britannico e l’afasia complice della quasi totalità dei governanti europei, anche se molti dei firmatari di questo Appello apprezzano, pur dubitando del risultato, e, almeno in riferimento a certe forze politiche, delle stesse intenzioni, lo sforzo del governo italiano di allontanarsi dall’assoluta subordinazione a Washington e dalla totale adesione alle tesi di Tel Aviv), costituiscono un rischio permanente per la pace mondiale: non l’unico, certo, ma uno dei principali, accanto all’opera di formazioni fondamentaliste che, inventandosi un “dovere religioso”, seminano odio e morte, giocano, spesso, a favore della politica statunitense e di quella israeliana, animate a loro volta da altrettali integralismi, ai quali troppo poco si bada nel dibattito giornalistico e politico. Difficile accettare che si possa bollare col marchio del “terrorismo” le legittime forme di resistenza a forze occupanti, o ad aggressioni esterne.

 

Come no! Più di mille civili israeliani straziati tra il 2000 e il 2005, per non contare tutti quelli assassinati, smembrati, fatti a pezzi nel periodo del cosiddetto processo di pace sono soltanto un'inezia! E infatti non meritano neanche una parola, o meglio, gli attentatori-resistenti meritano la vostra approvazione. Bella resistenza andare a farsi esplodere accanto a uno scuolabus, o in un centro commerciale, o al mercato, o nelle scuole...

Così, la paura degli uni genera odio, l’odio suscita paura, in una spirale mostruosa, a cui l’esportazione della democrazia con i bombardamenti e l’imposizione di regimi fantoccio, serve a far scorrere altro sangue, in una precarietà istituzionale che si rivela in tutta la sua fragilità, come gli inferni iracheno ed afgano dimostrano.

Ma non possiamo dimenticare che la politica d’Israele si fonda sulla pulizia etnica e sull'apartheid di fatto nei confronti dei Palestinesi, del resto per decenni dimenticati dagli stessi cosiddetti “regimi arabi moderati”.

 

Pulizia etnica? Apartheid? Quando si lanciano accuse così pesanti occorre fornire le prove, altrimenti il tutto sa solo di propaganda anti-israeliana.

 

 La costruzione di un muro invalicabile

 (a parte il fatto che ci sono i varchi e di conseguenza è errato parlare di invalicabilità, a parte il fatto che il muro è lungo solo 8 km e per il resto si tratta di una recinzione, a parte il fatto che la Corte Suprema valuta il tracciato e a volte impone modifiche proprio nel rispetto delle esigenze palestinesi...mai sentito parlare del perchè è stato necessario costruire la barriera difensiva? Sapete che il progetto è stato fortemente voluto dai pacifisti israeliani proprio in quanto misura di protezione passiva e non invasiva? il passaggio dei terroristi non vi dice nulla? E dire che un sindaco di sinistra ha costruito un muro all'interno di una città italiana per molto meno!!!)

nell'esiguo territorio concesso ai Palestinesi, la deliberata destrutturazione della già misera economia dei Territori, le azioni "mirate" volte a uccidere – o a catturare, contro ogni legge – i loro leader politici, anche quelli democraticamente eletti e legittimamente in carica, e la totale noncuranza della possibilità di sopravvivenza di un intero popolo, fanno di quella che ci viene instancabilmente presentata come “la sola democrazia del Medio Oriente”, una potenza imperialista, che è pronta a rischiare, in nome della sua “sicurezza nazionale”, lo scatenamento di un terzo conflitto mondiale.

Come non rendersi conto che tale politica, accompagnata da una campagna diffamatoria e di odio contro il mondo arabo e musulmano, rappresentato ormai, nel coro di molti politici, intellettuali e giornali occidentali, come “islamo-fascista” (un’autentica bestialità sul piano storico e politologico), (questo è vero, la dizione più corretta sarebbe ISLAMO-NAZISTI, infatti il gran muftì di Gerusalemme, ai tempi della seconda guerra mondiale, creò un battaglione di SS islamiche)
scatena
modalità sempre più aspre di conflitto, eccita le forme più atroci di terrorismo dall’altra parte, suscitando un risentimento non solo antiebraico, e antiamericano, ma antioccidentale, di cui tutti siamo e saremo soggetti a pagare conseguenze pesantissime?

Noi affermiamo che essere dalla parte della verità e della giustizia, significa innanzi tutto essere dalla parte dello Stato di diritto all’interno, e della legalità sul piano internazionale. Israele, nella sua politica, in cui la democrazia vacilla e il peso degli apparati militari diventa ogni giorno più forte, non deve più contare sul nostro silenzio. Noi chiediamo a tutti i nostri colleghi di esprimersi, di levare le loro voci, e di avviare una campagna di informazione autentica verso i loro allievi, verso il pubblico che legge i loro scritti o ascolta le loro conferenze e lezioni.

 

Lo farò. In modo differente dal Vostro, certo, ma sempre rispettoso della verità e sempre citando le fonti delle mie informazioni...

 

Chiediamo ai giovani studiosi, agli operatori della comunicazione (giornalismo, editoria…), ai ricercatori del mondo extrauniversitario, agli studiosi in formazione, di mobilitarsi, accanto a noi, con noi.

Posto che per noi non è in discussione l’esistenza dello Stato d’Israele, che va accettata e riconosciuta dai suoi confinanti e dagli altri Paesi circumvicini, i principali punti di questa campagna dovranno essere sei (con un settimo punto rivolto al mondo italiano):

 
Alcune righe più sotto vi contraddicete, infatti auspicate la nascita di UN unico stato per ebrei e palestinesi, ben sapendo che la demografia è dalla parte dei palestinesi e che gli ebrei diverrebbero una minoranza. Israele altro non sarebbe che un ulteriore stato islamico nella regione...Volete forse ripristinare la dhimma?


·         Primo: Spiegare che Israele deve accettare tutte le risoluzioni dell’Onu, ritirarsi entro i confini del 1967, in particolare rinunciando alla pretesa di fare di Gerusalemme la sua “capitale unica, eterna e indivisibile”, e consentendo a quella città plurimillenaria di ritornare ad essere un luogo d’incontro e di convivenza di popoli, culture e religioni.

Nel 2000 Ehud Barak, allora Primo Ministro d'Israele - su sollecitazione del Presidente Clinton - aveva accettato la suddivisione di Gerusalemme, ma Arafat rifiutò. Tuttavia, da quando Gerusalemme è capitale d'Israele, è luogo d'incontro e di convivenza di popoli, culture, religioni. Così non fu quando Gerusalemme cadde parzialmente sotto occupazione giordana: tra il '49 e il '67. Chiedere di ritornare ai confini del '67 significa chiedere anche che la città vecchia di Gerusalemme, compresi i luoghi più sacri dell'ebraismo, tornino in mano islamica e che agli ebrei, proprio come allora, venga impedito l'accesso. Non considerare le conseguenze della richiesta di ritorno ai vecchi "confini" è per lo meno politicamente scorretto.

·         Secondo: Affermare con altrettanta chiarezza che ai Palestinesi sia data la possibilità immediata di costruire un proprio Stato, indipendente e libero, con confini certi, ed esterni allo Stato israeliano, internazionalmente riconosciuto e non un piccolo protettorato di Israele.

Difficile far accettare ai palestinesi ciò che loro stessi non vogliono. Il desiderio palestinese è quello di uno Stato di Palestina dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Non uno stato palestinese accanto a uno stato israeliano, ma al posto di uno stato israeliano.

“Gli accordi di Oslo erano un cavallo di Troia” ha sostenuto, Faysal al-Husseini, quando era ministro dell'Autorità Palestinese, al quotidiano egiziano Al-Arabi il 24-5-2001, “l'obiettivo strategico è la liberazione della Palestina dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo]”. A conforto di tale affermazione si possono inoltre consultare i siti palestinesi e filo-palestinesi dai quali si evince, cartografia alla mano, come la “Palestina occupata” ricopra - secondo tale impostazione - in realtà non soltanto i territori pre-'67 e neppure quelli del '47, bensì l'intero Stato d'Israele e come la creazione di uno Stato Palestinese non sia, almeno secondo quei siti, progettata come uno Stato “al fianco di Israele”, bensì “al posto di Israele” (http://www16.brinkster.com/mypalestine/maps.htm;http://www.middleeastuk.com/com/welfare.htm; http://www.gaza.net; http://www.planet.edu/walawad/view/main.htm).

E che il riconoscimento dell’esistenza di Israele da parte di chi finora nella Regione non l’ha concesso, è subordinato alla creazione dello Stato palestinese.

Lo stato palestinese avrebbe potuto nascere nel 1948, ma non è stato voluto dagli stati arabi; avrebbe potuto nascere all'indomani della prima guerra arabo-israeliana e fino al 1967, ma non è stato voluto da Egitto e Giordania (che occupavano quei territori); avrebbe potuto nascere nel 2000, ma non è stato voluto da Arafat che ha preferito spendere l'arma del terrorismo per ottenere di più...avrebbe persino potuto incominciare ad esistere a Gaza dopo lo sgombero di tutti i coloni nell'estate di un anno fa, ma non è stato voluto da chi ha continuato a credere che il terrorismo pagasse di più.

La maggior parte degli israeliani oggi è convinta, e giustamente, che senza spartizione del territorio l’esistenza futura d’Israele è a rischio. Hizbullah e Hamas hanno attaccato la capacità di Israele di districarsi dall’occupazione. E, almeno per il momento, ci sono riusciti.


Molti si sono scandalizzati quando il primo ministro israeliano Ehud Olmert, nel bel mezzo dei combattimenti in Libano, ha dichiarato che questa guerra doveva aprire la strada al suo piano di convergenza (concentrare gli insediamenti di Cisgiordania in pochi grandi blocchi a ridosso della Linea Verde). Forse non era pratico dirlo, ma il concetto era serio. Se Israele avesse ottenuto una netta vittoria, se fosse riuscito a eliminare la minaccia dei missili, avrebbe aperto la strada all’attuazione del piano di ritiro unilaterale dal primo Ministro definito, appunto, “convergenza”.


Gli israeliani non sono abituati a pensare ai loro nemici in questi termini, ma è un fatto che questa volta gli estremisti islamici non combattevano "contro" l’occupazione: combattevano piuttosto per perpetuare l’occupazione.


Basta ricapitolare la sequenza dei fatti: Israele firmò gli Accordi di Oslo nel settembre 1993 perché la maggior parte degli israeliani era giunta alla conclusione che l’occupazione metteva in pericolo il futuro del paese. Arafat, nel 2000, fece naufragare la spartizione del territorio. Gli israeliani ne dedussero che non c’era modo di porre fine all’occupazione attraverso un accordo e si mossero per porvi fine lo stesso, ma senza accordo. E’ così che è nato il concetto di "ritiro unilaterale". 

 

Ora gli estremisti islamici hanno trovato il modo di impedire anche questa strada verso la spartizione. Su entrambi i fronti dove Israele si è ritirato unilateralmente (sud del Libano e striscia di Gaza), hanno iniziato a tormentarlo coi lanci di missili e razzi, costringendolo a invadere di nuovo proprio le aree da cui si era ritirato. Non appare strano?


Sia la sinistra che la destra israeliane, a quanto pare, non hanno compreso le intenzioni palestinesi e quest’ultimo round di violenze ne é l’amara conferma. La sinistra credeva che i palestinesi avessero optato per la pace e per la spartizione della terra e che fossero pronti a rinunciare al sogno di tutta la Palestina , una Palestina “liberata” da ogni presenza ebraica. Il che si è rivelato non vero.
La destra credeva che i palestinesi non avrebbero mai rinunciato al sogno di “liberare” tutta la Palestina , il che si è rivelato vero. Ma non ha capito la loro tattica. I falchi della destra, infatti, erano convinti che i palestinesi perseguissero una tattica “a fette di salame”: se gli si darà un piccolo stato in Cisgiordania e Gaza, lo useranno per continuare a combattere e ottenere tutto il resto. Questa valutazione si è rivelata errata
.


Gli estremisti palestinesi sono invece convinti, come è convinta la sinistra israeliana già da parecchi anni, che l’occupazione metta a rischio l’esistenza stessa di Israele: perché lo isola a livello internazionale, lo lacera all’interno, lo espone al terrorismo, unisce gli arabi contro di esso e, infine, perché porterà al crollo dello stato ebraico in una maggioranza araba fra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano. Sulla base di queste (esatte) valutazioni, gli estremisti palestinesi agiscono coerentemente per impedire la spartizione. La spartizione li priverebbe delle più efficaci armi a loro disposizione contro Israele.

 

Anche Arafat lo aveva capito bene, e per questo nel 2000 fece saltare l’accordo offertogli dall’allora primo ministro israeliano Ehud Barak a Camp David e a Taba. Hamas e Hizbullah lo capirono ancora prima di Arafat e si attivarono per bloccare il processo di pace e impedire la spartizione territoriale fin dai primi anni ’90. Ai loro occhi la Conferenza di Madrid del 1991 fu l’inizio di una china pericolosa e pertanto misero in campo tutti i mezzi che potevano per impedire qualunque progresso del processo di Oslo (“l’Accordo del Tradimento”, nel linguaggio di Hamas). Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah, non esitò a invocare l’assassinio di Arafat quando questi si avviò sulla strada della spartizione (allora nessuno sapeva che non sarebbe mai arrivato ad attuarla veramente).


A quanto pare, sia Hamas che Hizbullah sono attori politici assai realisti, quando si tratta di definire la tattica. I loro obiettivi millenaristici saranno anche illusori, ma i mezzi che usano contro Israele sono perfettamente razionali. Entrambi sapevano che attacchi missilistici dalle aree che Israele aveva sgomberato avrebbero bloccato ulteriori futuri ritiri. Entrambi capivano bene ciò che Ehud Olmert aveva spiegato in modo così eloquente agli israeliani prima delle elezioni: che la sopravvivenza di Israele dipende da confini stabili internazionalmente riconosciuti in un territorio dove gli ebrei siano una chiara maggioranza. Il che significa porre fine all’occupazione.


Sulla base di questa logica Hamas e Hizbullah hanno deliberatamente puntato a ostacolare il ritiro unilaterale, per impedire che finisse l’occupazione e per bloccare la strada di Israele verso confini stabili e internazionalmente riconosciuti. Sotto questo aspetto, la loro recente campagna missilistica è stato un successo. Se Israele avesse vinto questa guerra, ora la strada sarebbe aperta verso la fine dell’occupazione. Ma non è andata così.

 

  ·         Terzo: Chiedere con vigore che il Libano eserciti pienamente la sovranità sul proprio territorio, contro le pretese di ingombranti tutele di Paesi quali l’Iran, la Siria e Israele: a quest’ultimo deve essere impedita la prosecuzione di furti d’acqua sul territorio libanese, e deve essere imposto, dopo il ritiro del blocco aeronavale del Paese, un risarcimento, almeno parziale, dei costi necessari per la ricostruzione.

 Se non sbaglio sono stati i libanesi a decidere di deviare le acque del fiume Wazzani, arrivando a sottrarre da 3,5 mmc fino a 11 mmc d'acqua all'anno al lago di Tiberiade, minacciando seriamente la stabilità al confine israelo-libanese. Questa è stata chiaramente un'azione attuata allo scopo di creare un precedente per futuri tentativi di bloccare le risorse idriche israeliane, soprattutto dopo che Israele - ottemperando alla risoluzione 425 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU - aveva ritirato le proprie forze dal Libano meridionale nel 2000.  "Abbiamo proposto al primo ministro libanese Rafik Hariri un progetto di sviluppo che riguarda tutti gli aspetti socio-economici del Libano meridionale, compreso l'uso razionale delle acque nel lungo periodo - aveva spiegato Patrick Renauld, rappresentante della UE a Beirut - Infatti, quand'anche Israele finisse per tollerare la sottrazione fino a 11 milioni di metri cubi d'acqua all'anno prevista con questa stazione di pompaggio sul Wazzani, se non si interviene in modo razionale prima o poi il problema è destinato a ripresentarsi negli stessi termini" (Jerusalem Post,15-10-02, p.2).

 

·         Quarto: Sostenere che la forza di interposizione sia davvero tale, forza di pace, e non un esercito volto a continuare la guerra, magari con il fine di “disarmare i nemici di Israele”;

 

Non c'è problema su questo punto. Ormai tutti siamo al corrente del fatto - ce l'ha illustrato Guido Olimpio sul Corriere - che le forze UNIFIL stazionavano a meno di 20 m dall'ingresso di un bunker Hizbullah dal quale partivano missili contro Israele e che sul sito ONU venivano registrati i movimenti di Tsahal a tutto beneficio di Hizbullah...e poi il nostro Ministro D'Alema l'ha detto chiaramente: "Non disarmeremo Hizbullah". Anche il Primo Ministro Siniora l'ha detto chiaramente: "Non disarmeremo Hizbullah" e - ovviamente - l'ha detto anche Nasrallah: "Noi, non ci disarmeremo...anzi il nostro potenziale militare è accresciuto"...

 

che sia dispiegata anche nel territorio israeliano, e non solo libanese, in particolare in quel minuscolo abbozzo di Stato che è la Striscia di Gaza, a difendere i Palestinesi, da quotidiane incursioni, violenze e uccisioni “mirate” da parte degli Israeliani; e che, infine, sia accompagnata e seguita da concrete azioni costruttive, da condursi non con gli eserciti e le armi.

·         Quinto: Invitare, e ove possibile, fornire strumenti di studio per far conoscere meglio la vicenda storica di quella regione, la sua fisionomia geografica ed economica, le sue componenti etniche e religiose, fuori da ogni pregiudizio o di “conoscenza” per sentito dire.

Su questo concordo.

·         Sesto: Richiedere la convocazione, al più presto, di una grande, vera conferenza internazionale che riporti non solo la pace nella regione, ma assicuri una stabilità nella giustizia per tutti i popoli che vi vivono, all’insegna della possibile, necessaria convivenza di culture e religioni.

Anche su questo concordo

·         Settimo (specificamente rivolto al mondo italiano): Denunciare l’accordo di collaborazione militare tra Italia e Israele (legge 94/2005) che rende complice lo Stato italiano di crimini di guerra.

Questo mi pare invece delirante.

La campagna, a cui noi firmatari di questo Appello ci impegnamo, dovrà essere incessante, dovrà continuare anche se questa ultima guerra davvero si fermasse definitivamente; non possiamo aspettare la prossima, per agire. E del resto la Palestina è ormai da sempre sotto le fiamme della guerra. Dobbiamo continuare a far sentire la nostra voce, in nome non solo del dovere professionale e morale di tutti noi, ma anche, e soprattutto, dell’universale e ormai irrinunciabile bisogno di pace sulla Terra.

Angelo d’Orsi, professore di Storia del pensiero politico, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Torino

Post scriptum 9 settembre 2006

Questo appello ha avuto diverse redazioni, anche sulla base dello sviluppo degli eventi e delle sollecitazioni di alcuni dei firmatari. E ha avuto, a prescindere dalla stessa volontà dell’estensore, una notevole circolazione sulla Rete, in alcune delle sue versioni, con traduzioni in francese e in castigliano, traduzioni effettuate, spontaneamente, da colleghi. La presente versione è, con minime modifiche, quella accettata da tutti, recante la data 20 agosto 2006.

Occorre aggiungere, tuttavia, almeno un elemento importante, certo non da tutti condiviso, ma che l’estensore e promotore dell’iniziativa, personalmente, ritiene degno di essere preso in considerazione. Ossia, il fatto che sia giusto ricordare che la nascita dello Stato di Israele, mentre tentava la riparazione di un torto e dava esito a un’antica aspirazione di molti Ebrei, creava una drammatica ferita non soltanto territoriale nel Medio Oriente, i cui esiti sono sotto i nostri occhi; e, per quanto, oggi, almeno apparentemente, utopiche, non andrebbero lasciate cadere le idee di una possibile convivenza di ebrei e palestinesi, e di tutti i cittadini di qualsiasi etnia o religione, in un solo Stato che garantisca pari diritti a tutte le comunità.

 
Come dicevo più sopra, una simile ipotesi equivale a chiedere la cancellazione dello Stato d'Israele.


Vale la pena di segnalare una lettera indirizzata a un quotidiano «di sinistra», e non pubblicata, di un ebreo italiano

(senza nome e cognome si può dire qualsiasi cosa: è come se io un giorno mi mettessi a citare - un cattolico italiano - e gli facessi dire una bizzarria su un "quotidiano di centro"...ma dov'è la correttezza scientifica?),

 che, commentando questa guerra, ha concluso: «…basta leggere Anna Frank, Etty Hillesum o Franz Kafka e poi pensare allo “Stato ebraico” di Israele per rendersi conto dell'abisso che ormai separa la grande tradizione culturale dell'ebraismo da questa entità statale che pretende di rappresentarla ed esaurirla». Forse anche su ciò Ebrei di Israele ed Ebrei di tutto il mondo, e le Comunità organizzate che li rappresentano, dovrebbero meditare, smettendo di schierarsi acriticamente con i governanti israeliani, e rinunciando alla tentazione di esserne i portavoce.

 
Non tutti gli ebrei sono al fianco d'Israele! Ci sono quelli che attendono il Messia e sostengono che sino a quando non verrà lo Stato d'Israele non ha diritto di esistere! Un ebreo non è diverso da un cattolico o da un buddhista o da un islamico: ognuno di noi pensa con la sua testa. E poi non siamo una realtà omogenea: ci sono ebrei religiosi e ebrei non religiosi, ci sono ebrei ortodossi e ebrei riformati, ebrei bruni e ebrei biondi...Sapete: non siamo una "razza"!!! E non credo nessuno si senta portavoce dello Stato, ma lo Stato d'Israele è una garanzia contro un'eventuale nuova Shoah.


Perciò l’adesione a questo Appello di Ebrei costituisce un particolare motivo di soddisfazione e di speranza.

 

Soddisfazione e speranza per chi? 

 

NON vi fornisco la mia adesione, ritenendo che il documento da Voi presentato costituisca un incoraggiamento al fraintendimento e alla confusione dei giovani cui Vi rivolgete in qualità di docenti.

 

E da questo Appello, il suo promotore, si augura possano cominciare a partire iniziative di discussione di analisi comuni nelle sedi universitarie, e in altri luoghi di confronto culturale, che consentano di far ripartire uno sforzo di analisi il più possibile pacato e sereno, pronto a raccogliere le ragioni degli altri, ma, sempre, teso alla ricerca della verità. Un augurio che è un invito a tutti i colleghi e le colleghe perché mettano in cantiere, all’interno delle loro strutture, iniziative di tal genere, dandone comunicazione a tutti. E un annuncio che presto presso l’Università di Torino si darà vita a un primo momento di confronto e di studio.

 
Perchè ci sia reale confronto occorre che siano rappresentate entrambe le parti: spero quindi che chiamerete anche rappresentanti dello Stato d'Israele.

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail al sito Historia Magistra e ai promotori dell'appello
associazionehistoriamagistra@gmail.com ; campagnaperlaverita@gmail.com