Mohamed el Baradei, il direttore generale dell'Aiea che nulla ha ottenuto dall'Iran circa l'arricchimento dell'uranio, ma che continua a sostenere la politica del negoziato a oltranza, ci rassicura, intervistato da Umberto De Giovannangeli per L'UNITA' del 2 ottobre 2006 sul fatto che l'Iran non costuisce una "minaccia imminente".
Alle ottomistiche previsioni tecniche, smentite da altre fonti, sulle capacità del regime degli ayatollah di dotarsi di armi nucleari , El Baradei unisce considerazioni polìtiche che non si discostano dai più consueti luoghi comuni sul Medio Oriente: dalla necessità di togliere a Israele le armi nucleari a quella di risolvere la questione palestinese.
In realtà, a rendere necessario l'arsenale israeliano e insolubile la "questione palestinese", sono il rifiuto dell'esistenza di Israele, la minaccia militare di stati come l'Iran e quella terroristica.
Per contro, la soluzione del problema palestinese e il disarmo (nucleare o convenzionale) di Israele non risolverebbero tutti gli altri problemi del Medio Oriente dialaniato da lotte intestine e violenze che nulla hanno a che vedere con il conflitto israelo-palestinese.
Ecco il testo dell'intervista:
«Vi è tempo sufficiente, un lungo tempo davanti a noi per poter portare avanti un serio negoziato con Teheran. L'Iran non rappresenta una minaccia imminente contro cui agire con lo strumento delle sanzioni». Parole chiare, valutazioni impegnative, tanto più importanti perché a pronunciarle è l'uomo che dal 1997 ricopre l'incarico di Direttore Generale dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (Aiea): Mohamed El Baradei, a cui lo scorso anno è stato assegnato, insieme alla Aiea, il Premio Nobel per la Pace. «L'unica strada per risolvere il contenzioso con l'Iran - sottolinea El Baradei - è quello del negoziato politico. L'Unione Europea sta facendo grandi passi in questa direzione e io ne sono felicissimo, anche perché gli Stati Uniti si sono associati a questo processo negoziale».
A Bari, dove venerdì scorso ha ricevuto la laurea honoris causa dalla prestigiosa Libera Università Mediterranea (Lum) «Jean Monnet», della quale l'ex vice segretario dell'Onu Pino Arlacchi è il responsabile delle Relazioni internazionali, Mohamed El Baradei ha rilasciato questa intervista a l'Unità. Il Direttore generale dell'Aiea plaude al ruolo dell'Italia nella crisi iraniana: «L'Italia sostiene l'esigenza del dialogo ed è impegnata nel tentativo di coinvolgere l'Iran in un processo di stabilizzazione del Medio Oriente - rileva - . Per questo riterrei importante il suo ingresso nel "club dei 5+1”. Non si tratta solo di un riconoscimento per ciò che l'Italia sta facendo ma di un investimento su un futuro di cooperazione».
L'Iran rivendica il diritto di sviluppare il nucleare per uso civile. La Comunità internazionale teme il riarmo nucleare di Teheran. Come stanno le cose?
«Questa è una questione che ha a che fare con la pace e con la guerra. E tutte le questioni di pace e di guerra hanno bisogno di una grande attenzione nella valutazione, che riesca a distinguere tra i fatti e tutto ciò che in qualche modo fa fiorire delle leggende attorno al fatto. Noi abbiamo appreso tanto riguardo all'Iran, sappiamo che hanno messo a punto la capacità scientifica di arricchire uranio, che come sappiamo può poi essere trasformata in una capacità di produrre armi, ma non abbiamo visto le fabbriche che possano produrre queste armi. E questa è la grande differenza tra le due cose: le conoscenze da una parte, e la capacità industriale di produrle dall'altra. Quindi questa è una questione relativa sostanzialmente alle intenzioni future. Ora la nostra Agenzia non può leggere il futuro, fare una prognosi. Ma se noi vogliamo conoscere le future intenzioni di un Paese dobbiamo conoscere la sua mente e il suo cuore, e solo attraverso un rapporto partecipato e attento di dialogo con quel Paese che riusciremo a capire perché potrebbe voler costruire armi: forse perché si sente insicuro o forse perché vuole farsi portatore di una ideologia. Ciò che conta è che noi riusciamo a capire che non basta affrontare solo i sintomi; i sintomi non sono sufficienti per trovare una soluzione, ecco perché dobbiamo tornare al tavolo del negoziato, per cercare di comprendere e valutare l'intera situazione. In realtà ci troviamo di fronte a un cinquantennio di astio e di rancori che hanno segnato i rapporti tra l'Iran e gli Stati Uniti. Basti pensare al 1953, dopo le elezioni in Iran, quando fu rovesciato con un colpo di stato il governo riformista di Mohammed Mossadeq, oppure alla grave crisi degli ostaggi americani del 1979; tutto questo ha sedimentato un clima di ostilità in questi cinquant'anni che certo non si potrà dissipare nel giro di tre mesi. Ciò che conta è che noi riteniamo che l'Iran non costituisca una minaccia imminente e quindi c'è tutto il tempo necessario per cercare di mettere a punto un grande, organico, e complessivo pacchetto negoziale, e ciò che conta è anche che l'Unione Europea abbia preso l'iniziativa e che gli Usa si siano uniti perché soltanto in questo modo potremmo fare strada ai negoziati. La crisi, per essere dissipata, ha bisogno di una "diplomazia creativa" e non di diktat».
Quali ricadute geopolitiche positive potrebbe avere una soluzione diplomatica del contenzioso nucleare con l'Iran?
«Una soluzione della crisi iraniana può fornire un contributo importante alla soluzione dei problemi del Medio Oriente, dell'Afghanistan. Ma questo può avvenire solo con un grande "scambio" tra l'Europa, l'Iran e gli Stati Uniti. Uno scambio basato sulla tecnologia, sull'investimento nel futuro in modo da permettere di superare i vecchi risentimenti. L'Iran si lamenta ancora oggi colpo di stato del 1953 con Mossadeq, gli Stati Uniti hanno ancora oggi la ferita aperta degli ostaggi. Ogni Paese ha motivi di rivalsa: bisogna superare questa situazione e arrivare al dialogo e alla diplomazia, non c'è altra soluzione possibile all'orizzonte, non c'è altra alternativa».
C'è chi sostiene che l'alternativa sono le sanzioni.
«Non lo credo, o almeno non penso che questa sia oggi, allo stato dei fatti, la strada da imboccare. Resto convinto che il dialogo e la diplomazia possano funzionare. Il fatto che Ali Larijani (il capo negoziatore iraniano, ndr.) e Javier Solana (l'Alto rappresentante Ue per la politica estera e la sicurezza,ndr.) si siano incontrati e abbiano deciso di farlo ancora significa che il negoziato continua e questo è motivo di ottimismo».
L'Iran insiste nel suo diritto al nucleare per usi civili. Come replica l'Aiea?
«Il punto dirimente, per noi, l'unico problema che abbiamo con loro, è che si sottopongano alle nostre ispezioni e accettino il protocollo internazionale, che è molto forte. Tutti i servizi segreti occidentali la pensano allo stesso modo, compresi gli americani. Ci vogliono oltre quattro anni perché l'Iran possa dotarsi della capacità industriale di produrre l'arma nucleare. Possiamo anche andare avanti ancora per un anno o due con attacchi e recriminazioni, ma alla fine bisognerà comunque sedersi al tavolo del negoziato e decidere che cosa si vuole fare e trovare un accordo. Gli unici casi in cui è necessario un intervento internazionale immediato sono dove vi sono civili innocenti che muoiono, come nel Darfur, lì sì che dobbiamo muoverci e fare, ma in Iran, lo ripeto, non siamo di fronte a una minaccia di pericolo imminente».
Da più parti si teme che vi siano Stati, tra cui l'Iran, che possano forni di armi di distruzione di massa ai gruppi terroristi.
«Ho molti dubbi che vi sia anche un solo Paese che abbia interesse a fornire "bombe sporche" ai gruppi terroristici. Non si tratta, comunque, di armi nucleari ma di ordigni convenzionali che producono un po' di radioattività.
Gli Stati possono acquisire tecnologie nucleari e tecniche che servano a realizzare "bombe sporche" perché gli servono per difendersi o acquisire uno status, ma non credo che vi sia un solo Stato, un solo governo che voglia offrire questa chance distruttiva ai gruppi del terrore».
Molto si parla della crisi iraniana, di meno di quella che investe la Corea del Nord.
«È vero, e ciò è un errore, perché la Corea del Nord è un problema molto più acuto di quello dell'Iran. Io continuo a sostenere che è sbagliato vedere l'Iran, la Corea come fatti separati, dobbiamo guardare al Trattato di non proliferazione del 1970 e cercare di rafforzarlo e impedire che questo Trattato venga distrutto. Dobbiamo avere una visione complessiva, globale dei problemi se vogliamo ricercare una soluzione adeguata. La sicurezza dell'uomo non è più individuale: qualunque insicurezza che nasca in qualunque parte del mondo, prima o poi ci minaccerà e apparirà all'orizzonte come incombente per tutti noi. Ecco perché non dobbiamo concentrarci solo sulla nostra sicurezza ma sulla sicurezza globale».
Tra i Paesi del «club nucleare» c'è anche Israele.
«Il problema di Israele è che nel cuore di una regione segnata da guerre e tensioni che possono essere risolte solo attraverso il rilancio del processo di pace e non certo attraverso il riarmo, convenzionale e nucleare, che aggrava il problema e non ne favorisce certo la soluzione».
Professor El Baradei, un mondo senza armi nucleari è un sogno destinato a restare tale?
«Io credo ancora che un mondo senza armi nucleari sia possibile e che questo sia uno scopo, un obiettivo per il quale noi dobbiamo continuare a lavorare se vogliamo evitare di autodistruggerci, perché noi abbiamo inventato l'arma nucleare e quindi noi dobbiamo cercare di elaborare un nuovo sistema di sicurezza che non dipenda dalle armi nucleari. Oggi abbiamo 8-9 Paesi che detengono armamenti nucleari e questo è contrario alle affermazioni fatte nel 1970 dai cinque Paesi che detenevano il potere nucleare secondo, affermazioni che indicavano la loro volontà, non praticata, di avviarsi verso un disarmo. I
l problema è che questo processo non è andato avanti con la speditezza necessaria e nel frattempo altri 3 o 4 Paesi hanno costruito un loro arsenale nucleare. Certo, non si è avverata la fosca "profezia" di John Fitzgerald Kennedy che aveva previsto che 35 Paesi avrebbero finito per detenere il potere nucleare, tuttavia ci troviamo di fronte al fatto che 9 Paesi circa hanno questo potere. Il mondo si trova di fronte a un bivio: o si rassegna, e questo ci dà nel futuro poche possibilità di sopravvivere, perché se proliferano a dismisura le armi nucleari, aumenta enormemente il rischio che anche solo accidentalmente ci siano incidenti nucleari. L'altra strada, quella che auspico, per cui mi batto, è che il mondo decida di fare tutti gli sforzi necessari per eliminare il problema nucleare e cercare di costruire un sistema di sicurezza che non dipenda esclusivamente dall'energia nucleare e che invece si fondi sulla integrazione, sulla condivisione dei valori comuni all'umanità. Il fatto che si pensi che possano continuare ad esistere due mondi divisi e separati in cui una parte - quella che possiede il potere nucleare - dica all'altra che non può averlo, non è un mondo sostenibile».
Lei è egiziano, ed ha svolto ruoli importanti nella diplomazia del suo Paese. Oggi il Medio Oriente è attraversato da conflitti e tensioni ma anche da speranze di pace. Come in Libano.
«Il problema libanese è un "sintomo", l'importante è andare alla radice delle cause principali che rendono il Medio Oriente un'area di crisi e conflitti continui tra Israele e il mondo arabo.
E alla base di questa situazione c'è l'occupazione dei territori palestinesi che dura da quasi quarant'anni. Sappiamo anche che nella regione cresce la polarizzazione e che sono andati al governo i duri, i falchi. Un vera svolta di pace in Medio Oriente passa innanzitutto per una soluzione del problema palestinese, e l'unica soluzione è la costituzione di uno Stato indipendente che viva pacificamente fianco a fianco con Israele. Se faremo questo, il conflitto arabo-israeliano sparirà, lasciando semmai solo minimi strascichi futuri. Oggi, purtroppo stiamo assistendo nel mondo arabo ad un mare montante di rabbia, di umiliazione, e sono queste poi i fattori che portano l'estremismo a prosperare. La speranza è che si trovi una soluzione al problema palestinese perché da lì può discendere una soluzione globale per l'intero Medio Oriente».
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