A leggere l'intervista a Manuela Dviri di Clara Sereni, pubblicata dall'UNITA' del 22 settembre 2006 sembra che uno dei principali problemi di Israele siano i suoi sostenitori, ebrei e non ebrei, in occidente.
A non sembra che siano satti i fatti a smentire le nobili speranze di Manuela Dviri e di chi condivide le sue posizioni politiche: Israele ha avviato trattative con l'Olp, e in cambio non ha avuto pace ma terrore, si è ritirata unilateralmente da Gaza e dal Libano, e in cambio non ha avuto pace ma terrore.
E costretto, nuovamente, a combattere per difendersi. Si può davvero credere che a danneggiarla siano coloro che affermano che ne ha il diritto?
Ecco il testo:
Gli occhi, già normalmente bellissimi ed espressivi, adesso mandano lampi. Manuela Dviri, più che triste, mi sembra arrabbiata.
Israeliana nata e vissuta fino a vent'anni in Italia, Manuela Dviri è diventata attivista per la pace dopo aver perduto nel 1998, nella striscia di sicurezza, in Libano, un figlio amatissimo. Il suo progetto «Saving children», gestito dal centro Peres per la Pace, ha salvato più di tremila vite palestinesi bambine, curate negli ospedali israeliani quando e se in quelli palestinesi le strutture non erano all'altezza. Ma c'è anche la formazione di personale medico, la condivisione di strumenti e di competenze: salvare un bambino vuol dire tessere relazioni, imparare che l'altro non è soltanto il tuo nemico, collaborare , conoscersi.
La sua ostinazione a raccogliere attorno al progetto aiuti ed affiancamenti, a partire da quelli di molti Enti locali italiani (Umbria, Toscana, Marche, Emilia Romagna, Lazio), dà frutti che travalicano le previsioni, e consente il dispiegarsi delle diplomazie parallele, quelle nate dal basso, forse alla fine le più efficaci nella complessa geografia mediorientale. Riconoscendo il valore di quel che fa, le hanno anche conferito numerosi premi e riconoscimenti. Dunque dovrebbe essere contenta, ma visibilmente non lo è.
Perché sei così arrabbiata, Manuela?
«Ogni tanto non ne posso più. La situazione in Israele, in questa fragile tregua dopo la guerra, è molto preoccupante, i pericoli tanti (dalla classe dirigente che è in bilico e sotto inchiesta all'esercito che chiede rivincita, ai rapporti con il mondo arabo e con i vicini palestinesi), ma continuo a sentir dire dagli ebrei della diaspora che io, per esempio, non la capisco mica bene, la situazione di Israele. Che sono pacifista perché mica li conosco, gli arabi: penso che ci si possa fidare di loro, e invece...Il piccolo dettaglio, quello che periodicamente mi manda fuori dalla grazia di Dio, è che io in Israele ci vivo, e loro no. Che io conosco questa realtà e pago per le decisioni prese dal governo del mio paese e loro no. Pensano (suppongo in buona fede) che schierarsi acriticamente a favore dello Stato di Israele sia il modo migliore per salvaguardarne non solo l'esistenza, ma la purezza, il suo continuare ad essere uno Stato speciale, un luogo dello spirito e non uno Stato come tutti gli altri, con i pregi e i difetti di tanti altri. Criticano me, criticano molti altri attivisti israeliani (ma non i politici o i capi di stato , quelli no…), criticano tutti coloro che cercano di aiutare criticamente il Paese ad uscire da una situazione di stallo e di rischio, così si sentono a posto con la coscienza, magari anche raccogliendo fondi per progetti, che spesso sono anche fuori dal tempo e dalla realtà di Israele oggi».
Cosa dovrebbero fare, secondo te, gli ebrei italiani, e in generale gli ebrei della Diaspora?
«Hai presente quei genitori che, chiamati dagli insegnanti per segnalare un problema serio, concreto (una balbuzie, una dislessia), difendono a corpo morto il proprio figlio, adducendo ogni serie di motivazioni, anziché affrontare il problema vero e tentare di risolverlo? Ecco, bisognerebbe che si smettesse di fare così, di trovare scusanti per ogni errore o problema. A noi israeliani non serve che ci si trinceri ogni volta dietro la Shoah, che pure resta un segno tragico e incancellabile della nostra storia. A noi israeliani serve che ci si aiuti a capire fino in fondo la realtà in cui viviamo e che determiniamo, e cosa possiamo fare per uscire dal cul-de-sac in cui ci troviamo. E, per tutti, è necessario che lo si capisca in fretta: prima che l'Iran si doti dell'atomica, prima che i fondamentalismi di ogni tipo trovino armi (non solo militari) ben peggiori delle attuali.
Un esempio fra tanti: la situazione di Gaza. Una situazione che è ben poco definire drammatica, e scandalosa. I cori della Diaspora vanno nella direzione di ignorarla. E io mi chiedo, e lasciamo per il momento da parte la questione morale, cos'è più utile, per Israele, che si lasci imputridire la situazione nella Striscia fino all'esplosione, che ci riempirà tutti di fango, o non invece cominciare noi ad affrontare il problema, intervenendo fin d'ora per il miglioramento delle condizioni di vita a Gaza?
Sia da parte israeliana che palestinese si insiste continuamente sulla rivendicazione delle proprie sofferenze, come se la questione di due popoli e due Stati potesse essere risolta pesando su una bilancia il dolore degli uni piuttosto che quello degli altri. Come pensi che se ne possa uscire?
«Anche nella vita quotidiana, e per problemi ben minori di quelli di cui stiamo parlando, la propria sofferenza è immancabilmente più "importante" di quella altrui. Per non dire che se si lega il diritto alla terra a un'investitura divina, l'unica conseguenze può essere l'acuirsi dei contrasti religiosi. Dunque non è in questa direzione che può muoversi la speranza.
Ci vuole la politica: quella dal basso, fatta di progetti di cooperazione che aiutano a conoscersi, a misurarsi attorno ai problemi e non alle ideologie. E la politica "alta", quella dei dirigenti politici e delle diplomazie».
Sui progetti di cooperazione capisco come gli ebrei della Diaspora, e non solo loro, possano dare il proprio contributo. Ma sulla politica alta?
«Tutti abbiamo imparato quanto l'opinione pubblica pesi sulle grandi decisioni. Certo, se la gran parte dell'ebraismo internazionale si schiera con Bush e la sua guerra preventiva, con l'idea che questo sia il modo migliore per salvaguardare Israele, è ben difficile che quel peso sia positivo. Ma si può cambiare. Si può aiutare Israele proponendo nuove idee, e creative, per la risoluzione del conflitto, l'abbiamo visto anche ultimamente, con l'importante intervento dell'Italia nella sua mediazione tra le parti. Tutto è possibile, ma bisogna provarci, non solo commuoversi e soffrire per noi. Si può aiutare Israele cercando di conoscerlo meglio, seguendo più da vicino, ricordandogli come è nato, uno Stato compiutamente laico, forte di un progetto che ha prodotto risultati eccezionali (la rivitalizzazione della lingua ebraica, ad esempio, la costruzione stessa di un paese così straordinario e unico in meno di sessant'anni) ma che va sempre più smarrendosi nelle secche di problemi tipici di tutte o quasi le economie post-capitaliste, più qualche altro "piccolo" dramma in sovrannumero. La fine del mito onnipotente di Tzahal come esercito perennemente vincitore, che produce un netto senso di lutto non solo in Israele, può essere l'occasione per aiutarci a capire fino in fondo che non c'è vita per noi - vita fisica e vita comunque degna di essere vissuta - senza pace.
Israele resta, in Medio Oriente, l'unico Stato con strutture compiutamente democratiche, e di questo tutti gli ebrei vanno giustamente fieri. Ma se qualcuno ci aiutasse a studiare fino in fondo quanto la nostra democrazia, come quella di altri Paesi, si sia deteriorata in tanti anni di guerra, credo che questo sarebbe molto più utile delle pacche sulle spalle, inevitabilmente complici, che così di frequente ci rifilano.
Io personalmente non so che farmene di pacche sulle spalle. Voglio e devo pensare al futuro dei miei figli e dei miei nipoti. Voglio vivere in un Paese in cui tzedakà, giustizia, torni ad essere una parola-chiave: per tutti quelli che vivono al suo interno - arabi-israeliani inclusi -, e per tutti quelli che, all'estero, lo sentono come parte della propria identità».
E' chiaro per altro che l'intervista a Manuela Dviri s'inquadra all'interno di una linea editoriale del'UNITA' a sostegno della politica estera dell'attuale governo, politica che si vorrebbe presentare come favorevole anche agli interessi di Israele, ignorando deliberatamente la volontà di annientamento pervicacemente dichiarata da Hamas e Hezbollah.
Di seguito, l'articolo di Umberto De Giovannageli "D'Alema: inizia una fase nuova"
Missione compiuta. Impegni rispettati. E ora il rilancio di una iniziativa per una pace globale in Medio Oriente. Dall’Irak al Libano, dalla Palestina al «dossier iraniano». È la nuova sfida della diplomazia italiana. «L’assunzione oggi (ieri,ndr.) da parte irachena della responsabilità della sicurezza nella provincia del Dhi Qar costituisce una pietra miliare per il governo e il popolo iracheno nel processo di costruzione di un Iraq sovrano, democratico, federale e unito». Così da New York, Massimo D’Alema. La fine di «Antica Babilonia» è anche l’inizio di una nuova fase dell’impegno italiano in Iraq.
«Si apre oggi - osserva il il titolare della Farnesina - una fase nuovo dell’impegno italiano per la ricostruzione dell’Iraq, alla quale l’Italia intende continuare a contribuire fattivamente nel contesto delle iniziative assunte dalla Comunità internazionale per favorire il consolidamento della democrazia e la piena stabilizzazione del paese». Questo impegno è stato ribadito dal ministro degli Esteri italiano sia al Presidente Talebani che al suo omologo iracheno Zebari in occasione degli incontri avuti a New York a margine della 61/a Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ma un «nuovo volto» del Medio Oriente può essere plasmato solo se si affronta con la stessa unità e determinazione che l’Europa, in partnership con gli Usa, ha messo in campo nel Libano. È la convinzione che anima D’Alema. Nel piatto della bilancia degli avvenimenti positivi all’Assemblea dell’Onu c’è, rileva il vicepremier italiano, il rafforzamento del sostegno politico internazionale al presidente dell’Anp Abu Mazen e ai suoi sforzi per arrivare alla costruzione di un nuovo governo di unità nazionale palestinese. D’Alema resta convinto che la questione palestinese sia «il nodo centrale» della più grande crisi di tutto il Medio Oriente e ripete che i governi arabi moderati, come Egitto e Giordania, continuano a ripetere che questo nodo può avere «effetti destabilizzanti» in tutta la regione. «È evidente - annota D’Alema - che bisogna fare dei progressi e che lo “statu quo” nella questione israelo-palestinese non è una situazione accettabile anche per effetti di destabilizzazione che può avere e perchè è il nodo centrale della crisi di tutto il Medio Oriente...». Come europei, «Stiamo anche cercando - sottolinea il ministro - di concretizzare aiuti finanziari più robusti rispetto a quelli già attivati e poniamo l’esigenza di rompere l’assedio cui è sottoposta Gaza». Per D’Alema, «dobbiamo cercare di aiutare i palestinesi e nel contempo incoraggiare un processo politico attraverso cui i palestinesi si aiutino da soli, uscendo dalla condizione di un governo che ha contribuito all’isolamento».
Gli effetti delle consultazioni di New York si misureranno nelle prossime settimane, ma da New York Abu Mazen «torna nei Territori con un mandato rinnovato per realizzare un governo di unità nazionale», rileva D’Alema. Dalla Palestina all’Iran. L’altro severo banco di prova dell’efficacia della strategia del «dialogo critico» rilanciata dall’Italia. Sul dossier del nucleare iraniano si è entrati ormai in una fase che «è quella delle decisioni». Bisogna fare «ogni sforzo» per aprire davvero il negoziato ma il tempo «non è infinito», è una questione di «settimane e non di mesi». La fase cruciale delle decisioni è dunque arrivata per la Comunità internazionale, avverte D’Alema. L’Italia si è esposta come forse nessun altro Paese per tenere vivo il dialogo con Teheran e continua a insistere affinché si battano tutte le strade possibili. In questo momento la Comunità internazionale è unita nel dare ancora del tempo a Javier Solana, il negoziatore europeo che ha un mandato anche di Usa, Cina e Russia, per provare ad aprirsi al negoziato. Ma il mandato di Solana ha ancora «un tempo ragionevole, non infinito», dice D’Alema. Questione di settimane, non di mesi. Poi, se non si approderà ad una soluzione positiva, inevitabilmente il dossier iraniano tornerà al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e si aprirà un capitolo completamente diverso dall’attuale. D’altro canto già oggi, spiega il titolare della Farnesina, ci sono negoziati per cominciare a valutare quale, eventualmente, potrebbe essere la natura delle misure che il Consiglio di Sicurezza potrebbe adottare. Ma dal dibattito sull’Iran, emerge comunque un fatto positivo che il ministro degli Esteri sottolinea: si è tornati al dialogo classico del multilateralismo e gli stessi Stati Uniti hanno scelto la via del diritto internazionale. «Gli Stati Uniti parlano di sanzioni», che si collocano appunto nel terreno del diritto internazionale, e non di azioni militari od unilaterali. E anche questo è un risultato positivo, incoraggiante, per la nuova politica estera italiana.
L'UNITA' poi disinforma sull'Iran. Un articolo a pagina 11 s'intitola "L'Iran:bene l'incontro con Prodi, noi non vogliamo l'atomica". Solo leggendo l'articolo si capisce che il regime non ha fatto nessuna concessione alla comunità internazionale.
Particolarmente aggressiva e maligna è poi la disinformazione antisraeliana sulla home page del sito del quotidiano. Un articolo è intitolato "Israele rifiuta la tregua con Hamas".
Leggendo l'articolo, aggirando reticenze e manipolazioni, si capisce che Hamas ha nuovamente rifiutato di riconoscere Israele, proponendo una "tregua decennale", che ovviamente dovrebbe servirle ad acquisire una base territoriale e a preparare una nuova guerra. Israele non ha "rifiutato qualsiasi tregua", ha chiesto il riconoscimento del suo diritto ad esistere. E' evidente che la parte contraria alla pace e al riconoscimento della controparte non è Israele, ma Hamas.
L'UNITA', però, si sforza di far credere il contrario.
Sono questi gli amici dei quali Israele avrebbe bisogno?
Ecco il testo:
Nessuna trattativa, nessun riconoscimento, comunque, in ogni caso e a nessun costo. Sembra questa ancora la posizione del governo di Tel Aviv nei confronti di Hamas, il movimento integralista islamico che ha vinto le elezioni palestinesi.
Israele non sembra più disposto a fidarsi neppure del presidente Abu Mazen che ieri all´Onu ha garantito, impegnandosi davanti all´intera comunità internazionale, che il prossimo governo di unità nazionale con Hamas riconoscerà il diritto ad esistere dello Stato ebraico e rinuncerà alla violenza. Il governo, non Hamas direttamente come movimento politico organizzato. Una mediazione, se si vuole un escamotage: perché impegnandosi a sostenere il governo con la maggioranza assoluta dei seggi di fatto Hamas accetta di sostenere questa linea. Che Hamas non sia disposto a riconoscere direttamente Israele lo ha ribadito anche il primo ministro Ismail Haniyeh durante un discorso in una moschea di Gaza nel venerdì di preghiera dei musulmani. «Per quel che mi riguarda, non ho intenzione di guidare alcun governo che riconosca Israele», ha dichiarato. «Siamo disposti a permettere la creazione di uno Stato palestinese entro in confini del 1967 ma in cambio di una tregua e non del riconoscimento», ha concluso il premier.
E una tregua, di durata decennale, è la proposta che è stata ufficializzata da Hamas a Israele. Una proposta rigettata però dallo Stato ebraico.«È una proposta che non ci interessa, quel che esigiamo da qualsiasi governo palestinese per poter riprendere un dialogo è che rispetti le condizioni poste dalla comunità internazionale», ha spiegato il portavoce del governo israeliano, Avi Pazner, precisando che tali condizioni sono «il riconoscimento dello Stato ebraico, la fine delle violenze e il rispetto degli accordi precedentemente firmati dall'Autorità Nazionale palestinese». Cioè gli accordi Oslo. Sono queste le condizioni che ha ribadito il Quartetto – il gruppo di contatto nato proprio per monitorare il processo di pace dopo Oslo – pur considerando positivamente la nascita di un governo di unità nazionale tra i due gruppi politici più rappresentativi, Fatah e Hamas. Tre condizioni che Abu Mazen si è impegnato a garantire ma non Haniyeh.
Del resto il presidente dell'Anp non ha chiesto ad Hamas di sottoscrivere il riconoscimento dello Stato ebraico, ma solo di rispettare gli accordi firmati dall'Olp, compresi quelli di Oslo, che però a loro volta riconoscono l'esistenza di Israele.
Il primo ministro israeliano, Ehud Olmert sembra invece ancora fidarsi di Abu Mazen – uno dei sottoscrittori degli accordi insieme al suo predecessore Arafat - per quanto riguarda la questione dei prigionieri. Il primo ministro israeliano si è detto pronto a negoziare un eventuale scambio di prigionieri palestinesi al presidente palestinese. «Ho detto al presidente egiziano Hosni Mubarak che sono pronto al rilascio (dei prigionieri) ad Abu Mazen», ha affermato Olmert, escludendo ogni possibilità di trattativa con Hamas.
In questo scenario politico da venerdì sera, in concomitanza con l´inizio delle feste per il capodanno ebraico, le forze di sicurezza israeliane hanno sigillato la Cisgiordania. Per tre giorni, fino a lunedì mattina, nessun palestinese potrà entrare in territorio israeliano. Resteranno chiusi anche i varchi di frontiera tra Israele e la Striscia di Gaza. Saranno autorizzati solo medici, religiosi, insegnanti e agricoltori con documenti in regola. Mentre va ancora avanti, da oltre tre mesi, un assedio a Gaza che ha già messo in ginocchio la popolazione palestinese della Striscia.
Anche per le ong è divenuto quasi impossibile operare nei Territori. Hina Jilani, rappresentante speciale del segretario generale dell'Onu Kofi Annan per i difensori dei diritti umani ha criticato oggi Israele per la poca tolleranza mostrata nei confronti dei volontari che operano nei territori palestinesi. «Ho ricevuto informazioni attendibili di gravi attacchi, anche di uccisioni, subite da attivisti dei diritti umani», ha dichiarato Jilani riferendo al Consiglio dell'Onu per I Diritti Umani.
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