Medio Oriente: tutti i conflitti che non hanno per "madre" la crisi israelo-palestinese
l'analisi di Anna Momigliano
Testata:
Data: 19/09/2006
Pagina: 4
Autore: Anna Momigliano
Titolo: E' caos in Medio Oriente: non solo Israele e Palestina
Da Il RIFORMISTA del 19 settembre 2006:

«La madre di tutti i conflitti». Così, sempre più spesso, si sente descrivere il conflitto israelo-palestinese in un mantra che, riprodotto nei saggi e sulle pagine dei giornali, offre un’unica matrice ai disordini che stanno sconvolgendo l’intera regione mediorientale. Sarà. Ma se è plausibile che il conflitto arabo-israeliano porta in sé una carica ideologica che è in grado di innescarne altri, ridurre la destabilizzazione della regione alle tensioni arabo-israeliane è un’ingenuità nella migliore delle ipotesi, se non una forzatura ideologica. Il quadro della regione parla da sé: l’Iraq è sull’orlo della guerra civile; in Iran, benché il governo centrale mantenga un controllo maggiore, le forze indipendentiste non sono certo sopite; la violenza etnica è tornata a farsi sentire in Turchia; in Libano, dopo un momento di relativa coesione sotto i bombardamenti israeliani, le profonde divisioni tribali e religiose sono tornate in superficie; mentre il regime siriano non trova altra strada se non mantenere “manu militari” il controllo del paese nelle mani della minoranza sciita, ricordando per certi versi l’equilibrio precario dell’Iraq baathista. In altre parole, se proprio una «madre di tutti i conflitti» va ricercata nella situazione mediorientale, questa va rintracciata piuttosto nelle tensioni etniche e religiose che destabilizzano la regione ignorando i confini degli stati nazionali. Riprodurre il caotico insieme delle tensioni etniche e degli irredentismi sarebbe impraticabile, eppure è possibile offrire la panoramica di alcune questioni specifiche, che contribuisca al quadro generale della regione.

La questione curda. L’indipendentismo curdo ha attirato recentemente l’attenzione dei media europei dopo gli attentati delle ultime settimane, attribuiti dalle autorità locali al Pkk, sul territorio turco. La scorsa settimana, poco prima che l’ultimo degli attentati mietesse vittime a Istanbul, i rispettivi governi avevano organizzato un vertice trilateral tra Turchia, Iraq e Stati Uniti d’America per organizzare un fronte comune davanti all’irredentismo curdo. Non è un mistero che, prima dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003, la Turchia si fosse fermamente opposta all’intervento militare contro Saddam Hussein proprio a causa dei timori che la “liberazione” dei curdi iracheni dal regime baathista potesse innescare un rinvigorito irredentismo nei curdi della regione, e in particolare sul territorio turco.
Quello che non tutti sanno è che la creazione di un governariato regionale nel Kurdistan iracheno, che gode di uno stato di semi autonomia e che anche per questo riesce a godere di un’economia più dinamica rispetto al resto del paese, ha inciso molto sul consolidamento del movimento indipendentista dei curdi iraniani. A lungo perseguitati dagli ayatollah, e a fronte di un controllo relativamente efficace da parte del governo centrale (persiano-sciita), dopo il 2003 gli irredentisti curdi iraniani hanno trasferito le loro basi oltre confine, ospiti dei loro fratelli nel Kurdistan iracheno: nel corso del 2005 e del 2006 si sono svolti diversi scontri, a colpi di artiglieria, tra l’esercito regolare di Teheran e le guerriglie curde oltre il confine iracheno, in particolare coi militanti del Pjak.

Il ruolo degli Usa. Pjak sta per Partito per una vita libera del Kurdistan (in curdo: Partiya Jiyana Azad a Kurdistane), ed è una formazione indipendentista d’ispirazione marxista che in molti considerano la cellula iraniana del più noto Pkk, attivo soprattutto in Turchia, in misura minore in Iraq, e considerato come un’organizzazione terrorista dagli Stati Uniti. Ironia della sorte, sono in molti gli analisti ad essere convinti che il rinvigorimento dell’irredentismo curdo in Iran (e in particolare quello del Pjak) sia in parte dovuto al sostegno di Washington ai movimenti indipendentisti iraniani, considerati un’arma potente contro il regime degli ayatollah, in mano all’etnia persiana sciita che costituisce la maggioranza risicata del paese. Ad aprile, il legislatore americano Dennis J. Kunichi (democratico dell’Ohio) aveva inviato una lettera aperta al presidente Bush in cui chiedeva conto del sostegno militare ed economico a gruppi come il Pjak. Lo stesso mese il settimanale Economist (15/4/06) aveva riportato le accuse degli ambienti governativi turchi ed iraniani sullo stesso argomento.

Il fattore turcomanno. Sta di fatto che, per una ragione o per l’altra, le azioni dell’irredentismo curdo in Iran si sono moltiplicate negli ultimi due anni. Le recenti attività del Pjak includono gli attacchi contro l’esercito iraniano (nell’ultimo anno oltre una trentina le vittime), e il rapimento di quattro membri della Guardia rivoluzionaria iraniana nella provincia dell’Azerbaijan orientale. È in questa regione dalla complessa composizione che l’irredentismo curdo si combina con l’irredentismo azero, meno organizzato di quello curdo e che si ispira, a seconda dei gruppi, alla riunione della provincia azera dell’Iran al confinante stato dell’Azerbaijan, oppure al mito pan-turanico del “grande Turkestan” che trova sostenitori tra gli eredi del popolo turcomanno dall’Anatolia alle province occidentali della Cina. Nonostante il movimento del Grande Turkestan non trovi particolari simpatie negli Stati Uniti - soprattutto nel suo capitolo cinese, accusato di essere legato ad Al-Qaeda, tanto che 12 dei suoi militanti, arrestati in un campo d’addestramento afgano, sono stati rinchiusi a Guantanamo - pare che gli azeri iraniani godano del sostegno della Casa Bianca. Il (presunto) sostegno del governo americano alle minoranze etniche iraniane, considerato da alcuni pericoloso perché potrebbe scatenare uno scenario di guerra settaria sul modello iracheno, ha ricevuto molta attenzione dalla stampa Usa: se n’è occupato Seymur Hersh sul New York Times (10/4/2006), e Guy Dinmore sul Financial Times (23/2/2006). Dinmore scrive di sostegno attivo dell’intelligence militare ai movimenti curdi e azeri, ma riporta anche di una frattura tra il Dipartimento di Stato, che vedrebbe di buon occhio la destabilizzazione iraniana, e il Pentagono, più cauto.

Tra incudine e martello. Un’altra etnia dispersa che sta facendo sentire il proprio peso nella destabilizzazione della regione è quella degli Ahwaz, meglio noti come “arabi iraniani”. Si tratta di una popolazione arabofona, prevalentemente sunnita, originaria della regione iraniana del Khuzestan: accusati di collaborazionismo durante la guerra Iran-Iraq, gli arabi iraniani sono violentemente repressi dagli ayatollah, come hanno ripetutamente denunciato Amnesty International e Human Rights Watch. Molti di loro sono fuggiti in Siria e in Iraq, dove negli anni Novanta i due regimi baathisti sostenevano il movimento indipendentista Ahwaz: Saddam Hussein regalò terre e abitazioni ai profughi, mentre Assad padre sponsorizzò la creazione del Fronte democratico popolare degli arabi Ahwazi, gruppo irredentista accusato dalle autorità iraniane di una serie di attentati bombaroli, e il consolidamento della Rinascita araba Ahwazi, gruppo armato un tempo basato a Damasco e di molti altri. Da allora, però, le cose si sono capovolte: deposto Saddam, gli Ahwazi iracheni hanno perso le proprie terre ed, ammassati in campi profughi, sono diventati il bersaglio ideale delle milizie sciite: sunniti, anti-iraniani, e deboli. In Siria, poi, il regime di Assad junior ha rinvigorito la sua repressione dei cosiddetti “gruppi salafiti”, anche se non è difficile intravedere dietro la repressione del “fanatismo religioso” le motivazioni etniche di un regime in mano alla minoranza sciita, che si regge sulle relazioni claniche e deve per forza di cose tenere sotto controllo i gruppi sunniti, indipendentemente dal grado di fanatismo: una prova ne è l’arresto di Abdallah Al-Mansouri, a Damasco lo scorso maggio. Leader dell’Organizzazione per la liberazione Ahwaz, Mansouri era stato bollato come “salafita” dalle autorità siriane, ma la sua Organizzazione non dichiara alcuna affiliazione religiosa. Tornare in patria per gli arabi iraniani è però la peggiore delle ipotesi: tra l’aprile e il giugno del 2005 una serie di proteste nella regione del Khuzestan sono state represse nel sangue, mentre i separatisti arabi risposero con degli attentati dinamitardi contro gli uffici governativi. Secondo fonti arabo-iraniane, nei giorni della protesta l’esercito di Teheran ricorse anche all’impiego diretto di milizie Hezbollah, affiancate alla canonica Guardia rivoluzionaria. Quando, qualche giorno fa, il quotidiano panarabo Ashraq al-awsat (21/8/06) dedicò un’inchiesta alle «proteste spontanee in Iran contro il sostegno finanziario ad Hezbollah», i media occidentali che ripresero l’articolo di Ali Nouri Zadeh dimenticarono di riportare che le proteste principali si sono svolte tra gli arabi iraniani del Khuzestan, dove la memoria delle pallottole Hezbollah era ancora viva.

Sciiti e sunniti. Il che ci porta a un altro elemento: l’equilibrio tra sciiti e sunniti che sta diventando il vero fil rouge degli scontri e delle tensioni mediorientali. In Iraq, dove le vicende della violenza etnica e la portata degli squadroni della morte di ambo le parti sono ormai cosa nota. Eppure, a sentire analisti di tutto rispetto come Joshua Landis, le tensioni (non troppo) sopite tra sunniti e sciiti sono anche l’elemento che mantiene in piedi il regime baathista della dinastia Assad. Membri della minoranza sciita alawita (una setta che traccia le sue origini all’undicesimo imam e che si è distaccata dallo sciismo maggioritario nel IX secolo), Bashar padre e figlio si sono scontrati con i jihadisti “salafiti” a cominciare dagli anni Ottanta, mantenendo un delicato equilibrio in un paese al 65% sunnita e un regime che rappresenta l’antitesi di quello baathista in Iraq. Proprio al tempo della rivoluzione dei cedri il prof. Landhis, docente alla Oklahoma University e studioso Fullbright a Damasco, firmò un editoriale sul New York Times (17/9/05) in cui invitava l’amministrazione alla cautela prima di considerare il «regime change». Tracciando, in caso di destabilizzazione del governo Assad, uno scenario assai simile a quello che oggi sta prendendo piede in Iraq: «Il regime di Assad è tutto fuorché democratico, ma neppure i suoi peggiori nemici vorrebbero vederlo al collasso, perché le animosità religiose e l’odio etnico potrebbero dilaniare il paese molto facilmente». Nel 2003, quando alcuni analisti presentarono lo scenario di una guerra tra sunniti e sciiti alla vigilia di Enduring Freedom, furono bollati come “pessimisti”. Bollare oggi come pessimista chi paventa l’estensione del conflitto tra sunniti e sciiti nei paesi confinanti sarebbe un’ingenuità imperdonabile.

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