Da Il FOGLIO del 26 agosto 2006:
La rivoluzione islamica nei manifesti khomeinisti è l’anatomia di un regime raccontata attraverso i suoi slogan di propaganda politica. La manipolazione e l’inganno sono, nell’era delle folle e della piazza, un linguaggio di comunicazione e, al tempo stesso, il ritratto di un sistema di potere che fa leva soprattutto sull’emotività delle masse. In Iran, dopo la destituzione dello Scià e la salita al potere dell’ayatollah Khomeini, i poster della rivoluzione hanno incarnato, da subito, le tre linee guida dell’attuale regime iraniano: antioccidentalismo, integralismo religioso e dialettica amico/nemico. Un libro, “Ondate rivoluzionarie, l’arte del manifesto politico”, scritto dal politologo statunitense Jeffrey T. Schnapp e pubblicato dalla casa editrice Skira ne traccia la storia iconografica, confrontandola con i linguaggi politici delle democrazie occidentali e dei totalitarismi europei che hanno segnato il Ventesimo secolo. Punto di partenza è il pugno di Allah, il primo manifesto celebrativo della rivoluzione khomeinista che compare per la prima volta sui muri di Teheran nel febbraio del 1980. Il titolo è emblematico: “Il pugno, in nome di Dio misericordioso”. La semantica delle immagini è didascalica: la mano chiusa (citazione delle rivoluzioni comuniste i cui regimi saranno, fin quasi al loro crollo, sostenitori del regime iraniano in chiave anti- Usa), attaccata saldamente al braccio, per esprimere la forza di un rivolta che non accetta mediazioni. I volti anonimi della folla, ritratti in fotografia dentro al pugno, sono tutti di uomini, delle donne neanche l’ombra. In questo caso i segni grafici sono premonitori di quella che sarà la politica del regime: riduzione dei diritti (a partire da quelli delle donne) e imposizione, autoritaria, di una rigida ortodossia religiosa. Pochi mesi dopo la pubblicazione di questo manifesto politico l’apparizione in pubblico di una donna, con la testa scoperta, sarebbe stata considerata addirittura un crimine e non solo un peccato. Non manca poi la celebrazione del profeta esiliato: è il poster che magnifica il ritorno in Iran e la conquista del potere da parte dell’ayatollah Khomeini. Il concetto è espresso dal richiamo al versetto coranico: “La verità è giunta e la falsità è fugata” (Sura 17, 81), riportata sia in arabo sia in inglese, perché il messaggio della rivoluzione fosse chiaro anche (e soprattutto) all’estero. Di seguito, una scritta in persiano: “Congratulazioni a tutti i musulmani e ai popoli oppressi del mondo, ai fratelli e alle sorelle iraniani, nel primo anniversario della Rivoluzione islamica, 11 febbraio 1980”. Il linguaggio punta già, in maniera diretta, ad internazionalizzare l’idea e la volontà dell’Islam che non deve rimanere chiusa nei confini dell’Iran. Il Bene (Khomeini, rientrato trionfante dall’esilio francese) ed il Male (lo Scià, in fuga, ed i suoi amici occidentali) sono già ben definiti: l’ayatollah e la religione coranica rappresentano la Verità. La pubblicazione del poster segnerà, in Iran, anche l’inizio di un obbligo: cominciare ogni frase con le parole “Nel nome di Allah, generoso e La rivoluzione islamica nei manifesti khomeinisti è l’anatomia di un regime raccontata attraverso i suoi slogan di propaganda politica. La manipolazione e l’inganno sono, nell’era delle folle e della piazza, un linguaggio di comunicazione e, al tempo stesso, il ritratto di un sistema di potere che fa leva soprattutto sull’emotività delle masse. In Iran, dopo la destituzione dello Scià e la salita al potere dell’ayatollah Khomeini, i poster della rivoluzione hanno incarnato, da subito, le tre linee guida dell’attuale regime iraniano: antioccidentalismo, integralismo religioso e dialettica amico/nemico. Un libro, “Ondate rivoluzionarie, l’arte del manifesto politico”, scritto dal politologo statunitense Jeffrey T. Schnapp e pubblicato dalla casa editrice Skira ne traccia la storia iconografica, confrontandola con i linguaggi politici delle democrazie occidentali e dei totalitarismi europei che hanno segnato il Ventesimo secolo. Punto di partenza è il pugno di Allah, il primo manifesto celebrativo della rivoluzione khomeinista che compare per la prima volta sui muri di Teheran nel febbraio del 1980. Il titolo è emblematico: “Il pugno, in nome di Dio misericordioso”. La semantica delle immagini è didascalica: la mano chiusa (citazione delle rivoluzioni comuniste i cui regimi saranno, fin quasi al loro crollo, sostenitori del regime iraniano in chiave anti- Usa), attaccata saldamente al braccio, per esprimere la forza di un rivolta che non accetta mediazioni. I volti anonimi della folla, ritratti in fotografia dentro al pugno, sono tutti di uomini, delle donne neanche l’ombra. In questo caso i segni grafici sono premonitori di quella che sarà la politica del regime: riduzione dei diritti (a partire da quelli delle donne) e imposizione, autoritaria, di una rigida ortodossia religiosa. Pochi mesi dopo la pubblicazione di questo manifesto politico l’apparizione in pubblico di una donna, con la testa scoperta, sarebbe stata considerata addirittura un crimine e non solo un peccato. Non manca poi la celebrazione del profeta esiliato: è il poster che magnifica il ritorno in Iran e la conquista del potere da parte dell’ayatollah Khomeini. Il concetto è espresso dal richiamo al versetto coranico: “La verità è giunta e la falsità è fugata” (Sura 17, 81), riportata sia in arabo sia in inglese, perché il messaggio della rivoluzione fosse chiaro anche (e soprattutto) all’estero. Di seguito, una scritta in persiano: “Congratulazioni a tutti i musulmani e ai popoli oppressi del mondo, ai fratelli e alle sorelle iraniani, nel primo anniversario della Rivoluzione islamica, 11 febbraio 1980”. Il linguaggio punta già, in maniera diretta, ad internazionalizzare l’idea e la volontà dell’Islam che non deve rimanere chiusa nei confini dell’Iran. Il Bene (Khomeini, rientrato trionfante dall’esilio francese) ed il Male (lo Scià, in fuga, ed i suoi amici occidentali) sono già ben definiti: l’ayatollah e la religione coranica rappresentano la Verità. La pubblicazione del poster segnerà, in Iran, anche l’inizio di un obbligo: cominciare ogni frase con le parole “Nel nome di Allah, generoso e misericordioso”, versetto che è stampato a caratteri cubitali sul manifesto. Quella dell’accostamento tra il corpo umano, Dio e il carattere ineluttabile della rivoluzione resterà una costante nella pubblicistica celebrativa del regime. Nel 1979, pochi mesi dopo la sua salita al potere, il Partito islamico rivoluzionario commissionerà la realizzazione di un’immagine di propaganda, una sorta di promemoria per il futuro. Due dita a forma di V, in segno di vittoria, su un fondale nerissimo e con dietro un sole artificialmente rosso, ad evocare il sangue ma anche a richiamare il futuro. Le parole, a corredo, saranno poche e telegrafiche: “Congratulazioni per la vittoria, Partito islamico rivoluzionario”. Pochi mesi, e quel partito rivelerà la sua missione concreta: un vero e proprio braccio armato per ottenere e mantenere l’egemonia del clero su ogni sfaccettatura della vita, della politica, del commercio e della cultura islamici. Ci sarà un futuro ma c’è anche un passato. Come in ogni mito che si rispetti, la rivoluzione islamica, salita al potere, si trova a dover fare i conti con la costruzione, ad uso del popolo, della propria storia. Cosa c’era prima della conquista del potere? Com’è stata la vita di Khomeini esiliato? Quali sono stati i nemici? La linea elementare da seguire sarà quella del sacrificio e dell’eroismo, nel nome di Allah misericordioso. Il protagonista sarà ancora una volta lui, l’ayatollah Khomeini. La data di inizio del viaggio rivoluzionario a ritroso viene identificata nel 3 giugno 1963 e verrà ricordata, nei libri di storia ufficiale, come la prova generale della Rivoluzione islamica. Quel giorno l’Ayatollah pronuncia uno dei discorsi più accesi e feroci contro gli Stati Uniti e lo Scià, al seminario Faziye della città di Qom. Forse non a caso l’evento coincise con il giorno più importante del calendario sciita, in cui si commemorava la brutale uccisione di Hussein, il terzo Imam, e di settantadue suoi discepoli ad opera degli uomini del califfo Yazid. Ogni anno, dal 680, gli sciiti ricordano la morte di Hussein con grande partecipazione emotiva, rivivendo insieme la battaglia che introdusse nella religione sciita l’esaltazione del martirio e l’idea che i giusti, come Hussein, siano membri di una minoranza perseguitata che chiede giustizia. Nel 1963, la feroce opposizione all’allora recente legge che garantiva ai militari americani l’immunità dalle azioni penali dei tribunali iraniani catapultò al centro della politica del paese l’ayatollah Khomeini, che due giorni dopo la sua arringa venne arrestato. Subito i suoi seguaci scesero in strada ma l’insurrezione venne repressa dalla forze armate iraniane e non si seppe mai il numero dei morti di quella giornata. I gruppi religiosi, in assenza di stime ufficiali (quelle ufficiose, fornite da ambienti vicini al governo dello Scià, parlavano di un centinaio di persone), puntarono forte sulla propaganda della strage e cominciarono a parlare di migliaia e migliaia di sciiti uccisi dai soldati. La riproposizione dell’immagine del giusto Hussein (che dava un’identità di martirio al movimento rivoluzionario) consentì, insieme alla conta dei cadaveri presunti, a Khomeini di tener vivo il ricordo di quell’insurrezione di giugno sino al 1979, anno della Rivoluzione islamica. Un ricordo che, il regime degli Ayatollah, non dimenticherà di celebrare una volta al potere. E lo farà, per l’ennesima volta, attraverso un manifesto. L’immagine scelta raffigura una mano insanguinata, violata dalle ferite ma sicura che scrive su un muro, con il proprio sangue, la data del 3 giugno 1963. E’ il sangue dei martiri che tiene acceso il ricordo dei vivi. E’ il mito preistorico di una rivoluzione religiosa che ha tutti gli ingredienti per perpetuarsi e per proporsi come modello al mondo islamico: c’è la strage degli sciiti, c’è il profeta Hussein (un’ossessione che si riaffaccia sempre), c’è l’eroe Khomeini, c’è il nemico americano e occidentale. Il poster commemorativo, finanziato dal Partito della Repubblica Islamica materializza anche la celebrazione del potere clericale sull’Iran. In quel partito, infatti, tra i fondatori figurano Ali Khamenei, attuale leader spirituale del paese, e Akbar Hashemi Rafsanjani, l’ex presidente. La propaganda, poi, non dimentica di celebrare i diseredati dell’Islam. E’ un altro aspetto dell’ideologia khomeinista, soprattutto nei mesi precedenti e successivi alla presa del potere: quello che tenta di legare la miseria delle masse arabe, la loro povertà, all’idea necessaria di rivoluzione religiosa (un modello, questo, in parte mutuato dalle rivoluzioni comuniste). E’ il caso del manifesto “L’organizzazione dei diseredati per la rivoluzione islamica”, del 1979. Alcuni concetti essenziali dell’islamismo – e questo manifesto ben li rappresenta – sono ritenuti retaggio di idee pre-islamiche, in particolare la dottrina del Messia e del suo ritorno. In contrasto con il credo dei musulmani sunniti, gli sciiti sono convinti che il profeta Maometto avesse scelto il suo successore Alì e ritengono che Dio avesse comandato a quest’ultimo di guidare la società islamica insieme ai suoi 11 discendenti. Gli sciiti ritengono che il dodicesimo Imam, Mohammad al Mahdi (il messia) si stia celando e riapparirà, un giorno, per realizzare la promessa di un paradiso in terra. Il rosso nel manifesto sui diseredati è un esplicito riferimento al sangue dei martiri e i rivoluzionari iraniani sono presentati quali precursori della riscossa globale dell’Islam. In alto si legge il versetto: “Non c’è altro dio che Allah” e al centro, “Gloria alla bandiera del governo dell’imam Mahdi”. In sintesi, il messaggio del manifesto è: la rivoluzione iraniana aprirà la strada al ritorno del Messia e all’istituzione di un governo islamico mondiale che riscatterà i diseredati musulmani. L’unità del popolo islamico è un carattere che fa capolino anche in un manifesto degli anni Ottanta. La sua spiegazione è nel titolo: “La potenza di una nazione ridestata vince sugli eserciti di tutte le superpotenze. Firmato, Imam Khomeini”. Il periodo è quello della guerra tra Iran e Iraq. La grafica è ancora una volta caratterizzata da una mano insanguinata (il riferimento è, anche in quest’occasione, al martirio di Karbala), con in sottoimpressione degli uomini che si lanciano contro missili e carri armati. Una simbologia scelta dai propagandisti per raffigurare la supremazia della fede islamica sulle sofisticate armi occidentali. I colori del manifesto, blu, bianco e rosso, sono esplicito riferimento alla bandiera degli Stati Uniti, il nemico da abbattere. Segni, simboli, fotografie, slogan: la storia dei manifesti politici khomeinisti trova il suo contrappasso, semantico e pratico, nel linguaggio dei poster delle democrazie moderne. L’opinione pubblica, puro contorno nella rivoluzione di Allah, diventa, nelle propagande occidentali, destinatario finale di messaggi, anch’essi certo manipolatori e persuasivi, ma che hanno lo scopo di ottenere il consenso ad una proposta politica. La partecipazione alla vita della nazione, in questo caso, non passa attraverso la catarsi di un profeta ma attraverso il voto elettorale. Ecco, allora, che i manifesti rappresentano, letteralmente e materialmente, un ponte fra la sfera pubblica, costituita dalle comunicazioni di massa, e gli spazi pubblici che sono il teatro vero della politica. Siamo nel linguaggio della politica di massa ma con possibilità di scelta finale. Gustave Le Bon, il sociologo delle folle, descriveva l’irrazionalità delle masse in poche righe: “Qualsiasi idea venga suggerita alle folle può avere un’effettiva influenza a patto che assuma una forma assoluta, costante e semplice. Allora le idee si presentano sotto forma di immagini, e per le masse sono accessibili solo sotto tale aspetto. Queste idee sotto forma di immagini non sono collegate da alcun legame logico di analogia o consequenzialità, e possono prendere l’una il posto dell’altra, come le diapositive della lanterna magica, che l’operatore preleva dall’alloggiamento in cui erano collocate una sopra l’altra”. Anche per queste ragioni le democrazie hanno bisogno di fornire alle proprie opinioni pubbliche qualcosa di più, dei resoconti concreti sul loro operato. E’ il caso del manifesto sulle “Donne-impiegato” (Titolo del poster, “Women office works”) comparso negli anni Trenta negli Stati Uniti. Innanzitutto il committente, l’ufficio per le donne: si trattava di un ente fondato nel 1920 con lo scopo di analizzare e rappresentare le esigenze delle donne lavoratrici e, nel corso degli anni, pubblicare sintesi sul ruolo femminile nei vari campi professionali. Scopo dell’associazione: ottenere una reale parità per le donne nei luoghi di lavoro. Rispetto al regime khomeinista, nelle democrazie il committente di un manifesto politico non è soltanto il partito politico (magari unico) al potere ma sono soggetti diversi, sindacati, associazioni e altri ancora. Secondo aspetto: il linguaggio, pur restando propagandistico, fornisce numeri statistici rilevati da ricerche condotte sul campo. Negli Usa questa campagna sul lavoro femminile ebbe un successo notevole, arrivando addirittura ad innescare, in alcuni stati del paese, un aumento dell’occupazione femminile. La prova che, quando ha del genio, la comunicazione riesce a consegnare alla storia i suoi eroi (del bene e del male) con pochi tratti. Napoleone è l’esilio in una mano crociata sul petto, Adolf Hitler è il nazismo in una mano tesa davanti alla folla plaudente, Winston Churchill è la vittoria in due dita ed un sigaro, De Gaulle il ritorno in due braccia. Simboli e potere. L’ayatollah Khomeini è l’Islam che avanza, nascosto nella barba grigia del suo profeta contemporaneo, e nei versetti coranici propagandati sui manifesti della Rivoluzione: “Non c’è altro dio che Allah, gloria al governo dell’imam”.
Di seguito, un articolo di Carlo Panella sul rapporto tra il gran muftì di Gerusalemme ,primo leader del movimento nazionale palestinese , e il nazifascismo.
Ecco il testo: