Una domanda infantile
posta dal direttore Antonio Padellaro
Testata:
Data: 19/08/2006
Pagina: 1
Autore: Antonio Padellaro
Titolo: Se un figlio muore

Sulla prima pagina dell'UNITA' del 19 agosto 2006 scrive un fondo, che prende spunto dalla morte di Uri Grossman, figlio dello scrittore David , nella guerra contro Hezbollah per spiegarci che la guerra è brutta  e i guerraffondai orribbili.
Padellaro non prende in considerazion l'ipotesi che tra l'amare la guerra e il prendere atto che qualcuno ci ha dichiarato guerra c'è una bella differenza.
Eppure, è proprio la considerazione dell'esperienza israeliana, dell'umanità e dell'amore per la vita che i soldati di una nazione aggredita e minacciata nella sua stessa esistenza riescono a conservare, che potrebbe consentirgli di cogliere questa differenza.
A rendere questa distinzione al di fuori della sua portata è però la totale incomprensione della natura del fondamentalismo jihadista, esemplificata dal fraintendimento totale degli scopi e dell'idelogia di Hezbollah.
A proposito del quale Padellaro, sulla prima pagina di un quotidiano nazionale, riesce a porre una domanda che oseremmo definire di assoluto infantilismo:

 Esistono tra gli intellettuali Hezbollah (il partito di Dio, così ci dicono, finanzia copiosamente l'istruzione e la cultura) scrittori e giornalisti animati dalla stessa «compassione» riguardo alle sofferenze del popolo israeliano così come gli scrittori e giornalisti israeliani lo sono nei riguardi delle sofferenze delle popolazioni arabe? 

Padellaro non sa che per Hezbollah Israele deve essere distrutto e gli ebrei sono creature diaboliche che verranno sterminate nel giorno del giudizio?  Non sa che esso non ha nessuna pietà nemmeno per le "popolazioni arabe" che non esista ad utilizzare come scudi umani e che  vorrebbe inquadrate totalmente in un esercito suicida ?
E che l'"istruzione" e la "cultura" che diffonde hanno per coronamento e per scopo reale proprio  questo  culto della morte, unito a  questo odio per gli ebrei? 

Ecco il testo completo:

  
 
«Mio caro Uri sono ormai tre giorni che quasi ogni pensiero comincia con "non". Non verrà, non parleremo, non rideremo». C'è più forza nel dolore di questo padre che in qualsiasi perorazione contro la guerra. C'è più politica che in qualsiasi risoluzione dell'Onu. E' difficile riuscire a leggere l'orazione funebre di David Grossman in morte del figlio Uri, comandante di un tank israeliano caduto sul confine del Libano un momento prima della tregua. Vorresti non andare avanti, distogliere gli occhi, girare pagina. «Nella notte tra sabato e domenica, alle tre meno venti hanno suonato alla nostra porta. Al citofono hanno detto di essere gli ufficiali "civici". Sono andato ad aprire e ho pensato, ecco la vita è finita».
Quel campanello nella notte è un pugno sul cuore. Lo scrittore dice di non voler dire nulla di questa guerra ma il padre ha già detto tutto: «noi, la nostra famiglia l'abbiamo già persa». E' come se Grossman soffocasse un grido, lo stesso delle famiglie incredule davanti ai sacchi di plastica scaricati da un aereo militare o irrigidite sulle lapidi nei cimiteri degli eroi. Si domandano, ci domandiamo: è giusto crescere un figlio, accudirlo, educarlo, farlo diventare un giovane uomo, un amico sorridente e assennato con cui vedere insieme i Simpsons e ascoltare Johnny Cash, perché poi una granata, forse sparata a casaccio, forse l'ultima, cancelli lui e tutto ciò che avrebbe potuto essere e fare nel mondo, in una vita magari lunga, ricca e felice? Perché mai l'umanità del terzo millennio è ancora ferma all'anno zero di fronte a un tale gigantesco, insensato spreco? Non è questo il vero problema pace-guerra che la famiglia Grossman ci consegna? Non certo lo stupido e inconcludente teatrino dei giornali dove da una parte stanno i pacifisti dipinti come imbelli, utili idioti manovrati da Bin Laden, e dall'altra si agitano gli abbronzati assertori dello scontro di civiltà, tutto muscoli e distintivo mentre, reduci da un Billionaire o da un dibattito a Cortina, lanciano l'abituale grido di battaglia: armiamoci e partite.
Se il problema non è l'utopistico (e qualche volta infantile) vagheggiamento di un mondo senza guerra, bensì quale livello di guerra il mondo civilizzato possa e debba accettare, non è un caso che le voci più limpide e vere, e per ciò le più tormentate, si levino proprio da Israele.
David Grossman è stato tra i primi e i più convinti a sostenere il diritto all'autodifesa del suo Paese, attaccato dagli Hezbollah e circondato dai fondamentalismi più feroci. È un uomo di pace, come lo era sicuramente Uri, compendio dell'israeliano che il padre preferiva: sempre in prima linea, ma sensibile al malessere del prossimo, «anche se quel prossimo è il tuo nemico sul campo di battaglia». Ma con Yehoshua e Oz, il terzo grande scrittore d'Israele ha sottoscritto un appello quando il governo Olmert ha deciso l'attacco di terra nel sud del Libano, spingendo a loro avviso il conflitto troppo in là. Se adesso Grossman chiede a Israele di farsi un esame di coscienza non è soltanto a causa del lutto; così come se un'altra grande voce, quella di Meir Shalev si leva a condannare la guerra sbagliata del suo Paese («la lotta ai terroristi trasformata nel conflitto contro il popolo libanese») non è solo per piccole ragioni di politica interna. C'è davvero molta differenza con quanto dice il nostro ministro degli Esteri D'Alema sul «disastroso errore politico» che ha accresciuto la forza e il prestigio di Hassan Nasrallah?
Insomma, si ha l'impressione che, guidata come sempre dagli intellettuali, la società civile israeliana stia maturando convinzioni nuove che se consolidate possono rappresentare una sorta di indispensabile fronte del consenso a sostegno della complicatissima tregua militare. Finisce il mito della invincibilità. Prevale la stanchezza per una guerra permanente che dura da sessant'anni. E tra i più giovani si fa strada l'idea di un Paese che deve prosperare e stare in Europa, possibilmente senza scambiarsi cannonate con i vicini. Ammesso però che i vicini siano d'accordo. Si è molto discusso di quella foto che ritrae Hussein Haji Hassari, deputato di Hezbollah, tra le macerie di Beirut sud a braccetto con D'Alema. Come Prodi anche noi saremmo propensi a non vedere nella cosa un particolare scandalo (chi ha preso sottobraccio chi?) se non ci fossero suscettibilità che rispettiamo. Nella comunità ebraica, per esempio, dalla quale saggia come sempre si è levata la voce dell'ex presidente Amos Luzzatto convinto che il ministro stia cercando di creare un ponte tra le parti in causa.
Forse però il problema è un altro. Quanto di quella capacità di sincera autocritica, di propensione al dialogo, a comprendere le ragioni degli altri, così vivace nella società israeliana è realmente presente nella società libanese? Esistono tra gli intellettuali Hezbollah (il partito di Dio, così ci dicono, finanzia copiosamente l'istruzione e la cultura) scrittori e giornalisti animati dalla stessa «compassione» riguardo alle sofferenze del popolo israeliano così come gli scrittori e giornalisti israeliani lo sono nei riguardi delle sofferenze delle popolazioni arabe? Perché fino a quando in Medio Oriente non ci sarà un equilibrio condiviso dei torti e delle ragioni, e (se non esageriamo) uno sforzo reciproco di generosità, quel ponte fra le parti in cui spera Luzzatto sarà impossibile. E la pace anche. Questo crediamo sia il messaggio che ci ha lasciato Uri Grossman, e suo padre David. apadellaro@unita.it

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