L'odio antisraeliano dei telegiornali Rai
denunciato da Furio Colombo
Testata:
Data: 14/08/2006
Pagina: 1
Autore: Furio Colombo
Titolo: Il giorno dopo
Da L'UNITA' del 14 agosto 2006, un articolo di Furio Colombo. Pur non condividendone le analisi politiche (fiducia incondizionata nell'Onu, avversione alla "destra americana", cioè ai neoconservatori, convinzione che Israele non possa difendersi con la forza militare e debba demandare la sua sicurezza alla comunità internazionale) segnaliamo l'articolo per la denuncia dell'odio antisraeliano diffuso dai telegiornali Rai.
Ecco il testo:


«La vera prova ci sarà. Il primo giorno dopo il primo giorno di pace», scrive il New York Times di sabato 12 agosto, e sembra proprio che abbia ragione. Perché? Perché “il primo giorno” che dura ancora mentre state leggendo, e che è un giorno dilatato a decine di ore, è un lungo ultimo giorno di guerra. Le immagini sono ancora le stesse, macerie e colonne di fumo sul fondo di città e di villaggi che appaiono abbandonati. Le voci dei commentatori ripetono notizie di scontri o notizie di distruzioni, anche se degli scontri non sappiamo niente e le distruzioni le vediamo a volte in inquadrature tragicamente nuove, più spesso in immagini ripetute, sempre le stesse, persino i bambini di Cana che tornano a essere estratti dalle macerie quattro, cinque, sei giorni dopo il tragico evento.
Stiamo parlando del giorno dopo il voto unanime del Consiglio di Sicurezza sulla mozione 1701.
Si sa che quella mozione accoglie le richieste del Libano (niente truppe Nato, niente unità combattenti di Paesi che potrebbero apparire «inclini a favorire la parte israeliana»). Si sa anche che quel che voleva Israele lo sta cercando in queste ultime interminabili ore di fine combattimento: tracciare un confine sulla linea del fiumiciattolo Litani, costringere al silenzio quante più rampe lanciamissili Hezbollah sia possibile.
Ecco perché è drammaticamente importante “il primo giorno dopo il primo giorno” del voto all'Onu e la fine di questa tremenda vampata di guerra. Perché è una fine teorica, che deve diventare vera, e attende una forza di intermediazione che non si improvviserà in pochi giorni. E perché la tanto ripetuta asimmetria di questa guerra non sta nella diversità delle forze, un esercito regolare che si confronta con un movimento insurrezionale che è allo stesso tempo banda armata indipendente e forza armata del Libano, protetta e ospitata contro qualunque rischio e a qualunque costo, anche quello di permettere che la popolazione civile libanese diventi scudo umano di Hezbollah da mettere a carico degli israeliani. La vera asimmetria sta nella posta in gioco.
A parte la vita dei civili libanesi, Hezbollah non rischia nulla. Se gli israeliani si fermano al vecchio confine proclameranno vittoria. Se gli israeliani dopo un'altra dura e sanguinosa serie di scontri di queste ore arriveranno al fiume Litani, diranno che sono stati loro, gli Hezbollah, a difendere il Libano. Li ha già pubblicamente elogiati il presidente del Libano, il Paese che ospita Hezbollah in tutte le nervature del Paese divenuto casa madre della armata siriano-iraniana, con due ministri di Hezbollah al governo, che però si presenta come presunta vittima innocente di una guerra che non lo riguarda. Israele, invece, il presunto colpevole, ha come posta in gioco la sua sopravvivenza. Ha constatato per la prima volta che i suoi cieli sono violabili.
Non ha trovato altra via d'uscita che combattere con le armi il rapimento di suoi soldati dentro i suoi confini e la pioggia di missili diretti esclusivamente contro case e persone. Deve essere stata questa la ragione che ha unito tutte le voci di uno dei Paesi più ricchi di democrazie di dissenso del mondo.
Deve esser stata la constatazione dell’estremo pericolo a spingere Israele a scontri così duri in una guerra diventata improvvisamente estrema. Ora, per fortuna, quella guerra (o brutale frammento di guerra) sta per finire e dobbiamo domandarci: che cosa sappiamo e che cosa non sappiamo di tutto ciò che è successo?
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Sappiamo che Israele è un Paese feribile, e non puoi mai dire quando, all'improvviso, e nell'isolamento del resto del mondo, potrebbe essere ferito a morte. Si dice sempre di Israele che non deve preoccuparsi, ci sono sempre gli Stati Uniti a puntellarlo e difenderlo. Una ascoltatrice della trasmissione Zapping (edizione estiva condotta da Daniela Morandini) ha chiesto ai partecipanti al programma la sera del 10 agosto «Vorrei che mi diceste se Israele sarebbe mai esistito senza gli Stati Uniti», dimenticando (come ha ricordato in trasmissione Chiara Valentini) che la decisione dell'Onu di proclamare lo Stato di Israele (e uno Stato palestinese mai accettato dagli arabi) nel 1948 si deve all'impegno dell'Unione Sovietica, e al suo voto risolutivo.
Ma ai giorni nostri il problema del sostegno americano è ancora più complicato. Il tremendo errore della guerra in Iraq e l'impiego vano di tanta potenza americana in quel Paese ormai preda di guerra civile, rende poco credibile sia l'intervento degli Stati Uniti come potenza che la garanzia americana come paciere. Un fatto imprevisto ed evidente, ed un altro altrettanto imprevisto ma tuttora non noto hanno avvicinato questa volta una prospettiva di pace. Il primo è stato di restituire rispetto e credibilità, almeno formale, alle tanto svillaneggiate e umiliate Nazioni Unite, in modo che una risoluzione di fermo alla guerra potesse essere votato al Consiglio di Sicurezza.
Il secondo è l'insistente indicazione di un personale e accanito dissenso di Condoleezza Rice, che avrebbe resistito ai falchi del suo governo, e dunque al suo presidente, e avrebbe usato il peso americano sia sul Libano, sia con Israele, probabilmente sapendo che la migliore difesa di Israele, in questo momento, è evitare una finale e tragica prova di forza, mentre il mondo è così spezzato, in disordine e percorso dai colpi tremendi, benché isolati, del terrorismo.
Sappiamo dunque che le Nazioni Unite, di cui tutta la destra del mondo ha detto fino ad ora tutto il male possibile, e di cui anche la sinistra pacifista diffida, è l'unico strumento che ci rimane per avere quindici diversissimi ma unanimi voti di pace, in un momento in cui anche un'ora di più di guerra locale poteva diventare guerra del mondo. E sappiamo che l'America, la potentissima America, senza le Nazioni Unite tanto ridicolizzate quando i suoi tecnici insistevano nel negare l'esistenza in Iraq delle armi di distruzione di massa, da sola (o con finti amici subordinati) può fare più guerra ma non può fare più pace.
E per fare pace ha avuto bisogno delle Nazioni Unite, a cui pure sta ancora negando il contributo finanziario annuale per la sopravvivenza.
Sappiamo che la solitudine di Israele continua e, per esempio, nei media italiani (e soprattutto nella televisione di Stato) tocca punte di aspra e incondizionata condanna di cui raramente si fanno protagonisti i giornalisti italiani, certo mai in Cecenia e mai in Iraq.
Trascrivo da un Tg Rai dell'8 agosto: «In questo manifestino si intima alle jeep delle televisioni di non circolare in questa zona, forse nel timore che alcune di queste auto trasportino missili. Ma evidentemente ci vogliono ridurre come le tre scimmiette che non vedono, non sentono, non parlano. E soprattutto non mostrano quello che accade».
Trascrivo da un tg Rai del 9 agosto: «Hanno trasformato il Libano in un gigantesco tiro a segno per l'aviazione israeliana. Sopra di noi passano caccia spaventosi. Non c'è villaggio che non sia stato colpito».
Trascrivo da un tg Rai del 12 agosto: «Questo - il Libano - è ormai il Vietnam di Israele».
E non seguono mai correzioni su errori anche gravi, che hanno provocato comprensibile emozione. Come il bombardamento mai avvenuto su un funerale (14 morti). Come quaranta morti di un edificio, annunciati in modo drammatico, un evento per fortuna mai avvenuto. Come i bambini morti di Cana che, per fortuna, erano molti di meno ma nessuno ce lo ha mai detto. Come la mancata spiegazione di un fatto strano: il soccorritore che esce dalle macerie di Cana con un bambino insanguinato in braccio, che si vede nei filmati trasmessi in Italia, è la stessa persona, solo un poco invecchiata, che appare in una immagine identica del 1995, un fatto che ha reso perplessi i giornalisti del mondo.
L'isolamento di Israele nell'opinione di gran parte degli italiani - o almeno dei suoi media - va molto al di là dell'antagonismo con cui di volta in volta si dedica ai Paesi e governi da cui si dissente. Per esempio le sue voci pacifiste sono continuamente ignorate e i suoi grandi scrittori - tutti votati alla pace - vengono anch'essi isolati e ignorati se esprimono solidarietà al loro governo in un momento di dura prova. Continuerà? E si continuerà a dire e a scrivere che chi difende Israele, qualunque sia il suo passato, si è venduto a qualche causa imperialista? Possibile che Israele sia per così tanti un taboo indiscutibile, una certezza negativa pietrificata?
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Ciò che sappiamo è poco. E per questo attendiamo con ansia il "primo giorno dopo il primo giorno" di pace, o almeno di non guerra. Ci darà alcune notizie drammaticamente importanti.
Hezbollah, se non parlerà con le armi, parlerà per bocca del "governo innocente" frutto della "rivoluzione dei cedri", di cui fa parte (una delle due voci è il ministro degli Esteri). E se non parlerà dal Libano parlerà dall'Iran.
Raramente dall'Iran giungono parole concilianti. L'ultima dichiarazione del presidente Ahmadinejad annuncia «la cancellazione di Israele». Non hanno turbato più di tanto nè i media italiani né le cancellerie del mondo, tutti molto severi se Israele, dopo un pronunciamento così netto da parte di un Paese così potente, si sente percorrere dalla paura. E nessuno ha mai pensato che la paura, in questo caso estrema, possa avere dettato una reazione a momenti estrema. Si è preferito fare riferimento a cattiveria e vendetta.
Il "primo giorno dopo il primo giorno" di pace ci dirà qualcosa anche dei siriani che, nonostante siano gli assassini del primo ministro del Libano, sono visti come naturali sostenitori di un Paese aggredito (il Libano stesso) e dunque come naturali difensori contro Israele. Forse è in questa direzione che si vedrà il vero frutto del lavoro di Condoleezza Rice. Ha raggiunto e agganciato la Siria?
Nel "primo giorno dopo il primo giorno" di pace, sapremo della tenuta politica del governo di Israele così duramente criticato sia da chi voleva la spinta finale, sia da chi non voleva (o non voleva più) la guerra. E si saprà il destino di Olmert, protagonista involontario di un grave e grande evento.
Soprattutto ci porterà qualche risposta sui tre sentimenti che percorrono il mondo e ci riguardano tutti: incertezza, ansia, paura. Ci rendiamo conto che il mondo è come Baghdad. Può saltare in aria, non sappiamo dove, non capiamo perché, ma sentiamo il vuoto. Amico, alleato, avversario, responsabile, colpevole, ogni definizione si stempera in un sapore amaro e deluso, nella percezione del pericolo. Siamo in pericolo, di questo siamo sicuri. Ogni altro pensiero è confuso, fra partigianeria e condanne. Ci piace condannare, soprattutto Israele. Ma è solo per colmare il vuoto. Invochiamo la pace come se fosse un rito voodoo composto di due parti: pronunciare la parola e indicare un nemico. Invece è una strada lunga. E non sappiamo ancora dove comincia.

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