I pacifisti non protestano abbastanza contro Israele
il quotidiano lancia l'allarme
Testata:
Data: 07/08/2006
Pagina: 6
Autore: Marina Mastroluca
Titolo:
L'UNITA' lancia l'allarme sulla scarsa mobilitazione dei pacifisti italiani contro la guerra difensiva israeliana contro Hezbollah.
Per fortuna però c'è "Un ponte per... "  che invia aiuti a non meglio specificate ong libanesi.
Speriamo che l'associazione, a suo tempo generosamente ospitata in Iraq dal regime di Saddam Hussein, sappia evitare di inviare denaro ad associazioni vicine a Hezbollah, che come noto utilizza l'assistenza per raccogliere consensi.
E se l'ingenuità e l'ignoranza dovessero portarla a commettere errori, ci auguriamo che le autorità competenti vigilino su queste attività, encomiabili in se stesse, ma ad alto rischio in uno scenario come quello mediorientale.
Ecco il testo: 

Niente bandiere arcobaleno appese ai balconi, niente manifestazioni oceaniche. Dove sono finiti i pacifisti, mentre i tg della sera raccontano di nuove stragi, di nuove bombe, di una guerra nuova? O è la natura di questo conflitto, che ha radici lontane, che tocca un nervo scoperto e produce un imbarazzato silenzio? Che non sia il timore di dover dire dove finisce la ragione di uno e inizia quella dell’altro?
«Invisibili? Bisognerebbe chiederlo ai giornali perché: mai una riga pubblicata sulle nostre iniziative», replica Flavio Lotti, della Tavola della pace, che più di tutto teme il silenzio su questa guerra, l’assuefazione una volta di più alle immagini di morte e distruzione
COME ANTIDOTO ha varato la campagna «La guerra non va in vacanza, non mettete la testa sotto alla sabbia», obiettivo: non lasciare un solo giorno di questa estate senza lanciare un segnale. Perciò appelli - l’ultimo quello esteso agli inviati di guerra per il
cessate il fuoco - contatti a più mani con le ong che lavorano tra Israele, Territori occupati e Libano, una rete di iniziative che alla spicciolata stanno attraversando l’Italia. «Certo il rischio di passare per anti-israeliani è una preoccupazione e si fa sentire probabilmente anche la sensazione di poter delegare a un governo, da cui ci si sente più rappresentati. Ma il movimento c’è, semmai non c’è la politica - dice Lotti -. Il fatto è che anche sulla pace bisognerebbe fare sistema: mettere insieme l’iniziativa del governo e l’azione sul campo delle ong che lavorano per migliorare le condizioni di vita e creare spazi di speranza». Speranza, una medicina contro il terrore, un salvagente per restare aggrappati alla vita. Per questo venerdì scorso è partita per il Libano una delegazione che riunisce i rappresentanti dell’universo italiano della pace e della solidarietà, per coordinare con le ong del posto gli interventi d’aiuto alla popolazione civile. Ci sono le voci della società civile, dall’Arci, a Libera, a Pax Christi. Assopace e Rete di Lilliput, il Servizio Civile internazionale, Ciss e Arcs che da tempo lavorano nella regione.
Eppure qualche imbarazzo trapela nel maneggiare questa guerra dove non c’è mai stato un fronte e sono i civili a pagare, com’è ormai una regola. «Ma non è il nostro, non delle associazioni pacifiste - dice Fabio Alberti, di Un Ponte per, che ha organizzato la delegazione per Beirut -. L’imbarazzo semmai è nel mondo politico e nelle organizzazioni sindacali. Perché c’è, questo è vero, il timore di passare per antisemiti. O forse perchè chi ha cominciato è Hezbollah». E allora la strada privilegiata è quella della solidarietà concreta. «Abbiamo fatto appelli, iniziative, raccolte di fondi, ne abbiamo già spedito una parte alle ong libanesi - spiega Alberti -. Un Ponte per era già in Libano. Lavoravamo alla ricostruzione, progetti di scolarizzazione, apertura di cliniche dentistiche nei campi profughi. A settembre prossimo sarebbe partito un progetto per la formazione professionale. Ora abbiamo dovuto fare un passo indietro». Indietro, nelle retrovie dove ci sono ospedali che non funzionano perché mancano di tutto e campi pieni di gente spaventata. «Ma questo serve a sostenere il tessuto democratico di Beirut, dove ci sono 40 ong locali che si stanno dando da fare e avrebbero bisogno del sostegno diretto del nostro governo». Finanziamenti per portare aiuto dove serve, mostrare un’Europa diversa da quella così lontana che non riesce a pronunciare le parole «cessate il fuoco» e si arrampica su sfumature che hanno senso solo nelle stanze della diplomazia.
Privilegia la solidarietà anche l’Arci, da sempre in prima fila quando si parla di pace e oggi impegnata a raccogliere fondi per sostenere tre ong. A Tripoli in Libano per aiutare i profughi, a Gaza con i bambini in difficoltà. E nei Territori, dove è attiva Ta’yush, un’organizzazione di pacifisti israeliani. «Abbiamo fatto appelli per il cessate il fuoco e perchè l’iniziativa torni all’Onu - dice Paolo Beni, presidente dell’associazione -. Ci sono state e ci saranno iniziative di mobilitazione. Certo si avverte nell’opinione pubblica democratica una difficoltà che nasce dalla complessità della questione israelo-palestinese. Si ha timore a dire che Israele sta sbagliando, quando invece la situazione richiederebbe una ribellione morale». Che sia la paura di schierarsi, di non essere abbastanza equi-distanti (o equi-vicini)? «Non è questione di schierarsi per gli uni o per gli altri: bisogna schierarsi, ma contro la guerra. Finché parleranno le armi si resterà in un vicolo cieco, e Israele non guadagnerà in sicurezza».

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