Testata: Data: 25/07/2006 Pagina: 1 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: L'errore di calcolo fatale a Hezbollah
La guerra tra Israele e Hezbollah nasce da un errore di calcolo della milizia filo-iraniana e dei suoi sponsor a Teheran e a Damasco. L'incursione di Hezbollah in territorio israeliano il 12 luglio scorso, risultata nella morte di sei soldati israeliani e il rapimento di altri due, è stata probabilmente ordinata da Teheran in pieno coordinamento con Damasco. Secondo fonti europee, citate la settimana scorsa dal Daily Telegraph di Londra, Ali Larjiani, inviato iraniano per il nucleare, avrebbe chiaramente minacciato i suoi interlocutori europei nella sua ultima visita a Bruxelles il 10 luglio. Larjiani avrebbe detto che l'Occidente avrebbe «patito dure conseguenze» se avesse deferito l'Iran al Consiglio di Sicurezza a causa dell'impasse sul programma nucleare iraniano. Le minacce iraniane non hanno avuto l'effetto voluto e il 12 luglio, mentre si aprivano le ostilità in Libano, le sei potenze parti del negoziato con l'Iran (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania) e Javier Solana per l'Unione europea esprimevano «un profondo disappunto» alla mancanza di serie risposte iraniane alle proposte del 6 giugno scorso, che i sei constatavano nella posizione iraniana. Di ritorno da Bruxelles, Larjiani ha fatto tappa a Damasco l'11 luglio per coordinare le prossime mosse e il giorno dopo, mentre le ostilità si aprivano nel sud del Libano, ha espresso sostegno a Hezbollah e Hamas nella loro lotta di “resistenza”. L'incursione di Hezbollah doveva servire in questo complicato scacchiere a rafforzare la posizione iraniana, indebolire gli alleati occidentali e creare l'impressione che Siria e Iran erano attori indispensabili a trovare una soluzione regionale. Naturalmente, secondo le loro condizioni e senza intaccarne il ruolo destabilizzante in Libano e sul fronte israelo-palestinese. In più, il successo militare avrebbe ulteriormente rafforzato il prestigio di Hezbollah nel mondo arabo e rafforzato la sua posizione politica in Libano. L’attacco di Hezbollah doveva quindi assolvere le seguenti funzioni: esprimere solidarietà ai palestinesi, impegnati in una dura lotta con Israele a Gaza da ormai tre settimane, offrendo loro un’ulteriore carta negoziale con Israele, segnalare al mondo arabo che erano la Siria e l’Iran, attraverso Hezbollah, i veri campioni della causa palestinese, e indicare all’Occidente che l’Iran era serio nelle sue minacce. Forte dell’esperienza passata, Hezbollah deve aver calcolato che Israele, impegnato a Gaza e già in cattiva luce sotto i riflettori internazionali, avrebbe reagito in maniera blanda. D’altronde, né Ariel Sharon né Ehud Barak, i due predecessori dell’attuale premier israeliano, Ehud Olmert, avevano risposto con la forza a precedenti provocazioni di Hezbollah, compresa la decisione di Sharon di negoziare il rientro di un civile israeliano preso in ostaggio in Libano nel 2004 con uno scambio di prigionieri. Nasrallah deve aver ragionato che Israele non avrebbe cercato altre avventure in Libano dopo essersi ritirato nel 2000, che Israele in passato aveva più volte negoziato con Hezbollah e che l’acquisizione di due ostaggi avrebbe aumentato notevolmente il prestigio e il potere negoziale di Hezbollah e degli iraniani nello scacchiere mediorientale. Il G-8, previsto per il fine settimana successivo, avrebbe dovuto prenderne conto, misurando le parole di condanna fino a quel momento attese nei confronti dell’Iran. Invece, è tutto andato per il verso opposto. Intanto, Hezbollah ha completamente sbagliato il suo calcolo della risposta israeliana. Invece che calibrare la risposta militare, appellarsi alla comunità internazionale o accettare di dover negoziare con Hezbollah, Israele ha rifiutato ogni ipotesi di negoziato, lanciando invece un attacco militare su larga scala contro Hezbollah e contro l’infrastruttura libanese da cui Hezbollah dipende per mantenere la propria forza militare e quindi la propria influenza politica. Il danno ingente causato all’infrastruttura libanese e le sofferenze inflitte alla popolazione civile non si sono tradotti in sostegno interno per Hezbollah e aumento della sua popolarità nel mondo arabo. Tutt’altro, le voci di condanna dell’organizzazione si sono levate sia in Libano sia in altri paesi arabi. In Libano, assieme alla comprensibile rabbia verso Israele, si sentono importanti voci di condanna a Hezbollah e un desiderio di vedere la milizia finalmente neutralizzata: i libanesi sanno bene che altrimenti, il rischio di un ritorno della guerra civile è molto alto. La Lega araba è rimasta paralizzata dalla spaccatura tra paesi arabi moderati e radicali. E la divisione, che ricorda i diversi allineamenti della guerra fredda, in realtà deriva da una divisione tra chi considera l’Iran un alleato e chi lo vede come una minaccia. Il fatto che l’Arabia Saudita abbia pubblicamente accusato Hezbollah di ’avventurismo e irresponsabilità’ la dice lunga sull’errore di calcolo di Nasrallah. Il fatto che ai sauditi si siano uniti non solo Egitto e Giordania ma anche i paesi del Golfo, che si sentono fortemente minacciati dall’Iran, chiarisce come l’effetto sperato da Nasrallah non sia sortito. Tutt’altro. La paralisi diplomatica della Lega araba ha il medesimo significato della lentezza diplomatica del resto della comunità internazionale. Questa lentezza si traduce in pratica in un semaforo verde a tempo limitato per Israele, la cui operazione militare serve a creare le condizioni per mettere in atto la risoluzione delle Nazioni Unite del 2004, 1559, che prevede il disarmo di Hezbollah. A riconoscere la necessità di attuare il disarmo di Hezbollah previsto dalla risoluzione Onu non c’è più solo Israele: concordano anche l’Onu, parte dei paesi arabi, il G-8, l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Domani a Roma ci sarà dunque un primo concreto tentativo di mettere insieme un pacchetto di misure diplomatiche per risolvere la crisi, ma non ci sarà un cessate il fuoco fino almeno al fine settimana, quando il summit tra il presidente americano George W. Bush e il premier inglese Tony Blair suggellerà i possibili accordi che Roma potrebbe formulare. A seguire partiranno le misure diplomatiche: risoluzioni ONU, cessate il fuoco, aiuti umanitari e dispiegamento di una forza d’interposizione. A quel punto, Israele avrà avuto quasi tre settimane per la sua offensiva aerea e dieci giorni per le operazioni di terra. Il risultato della guerra iniziata da Hezbollah insomma è che nessuno dei grandi attori internazionali è ora disposto a sottoscrivere un ritorno allo status quo ante. Solo un nuovo ordine sarà accettabile e preverrà un nuovo round. Quest’ordine comporta il fatale indebolimento di Hezbollah e quindi dei suoi sponsor a Damasco e Teheran. Nasrallah ha anche danneggiato i palestinesi. L’apertura del secondo fronte libanese doveva offrir loro una carta negoziale poderosa che servisse alla liberazione di prigionieri palestinesi. Invece, dall’inizio delle ostilità al confine israelo-libanese la vicenda di Gaza è passata in secondo piano sia delle cronache sia della diplomazia. Tutta l’attenzione si è concentrata sul Libano e il nord d’Israele. Il che ha dato a Israele mano libera a Gaza. Il danno che Nasrallah ha arrecato agli alleati di Hamas è incalcolabile ma di certo ingente, specialmente perché anche quando si arrivasse a un accordo diplomatico nei prossimi giorni l’attenzione internazionale si concentrerà principalmente sul Libano. Nasrallah ha di fatto aiutato l’esercito israeliano a Gaza. La provocazione fatta per conto dell’Iran ha anch’essa prodotto il contrario di quanto speravano Nasrallah e i suoi sponsor. Il G-8 ha ribadito la dura posizione espressa dai sei a Parigi il 12 luglio e di fronte all’evidente ruolo iraniano nella crisi libanese, la posizione di Teheran è peggiorata. Il 6 giugno, l’offerta dei sei sostanzialmente offriva all’Iran un accordo che includeva un’apertura americana senza precedenti. Dall’accordo l’Iran avrebbe potuto estrarre la fine delle sanzioni americane, l’apertura di relazioni commerciali, l’accesso ai suoi beni finanziari congelati dagli Stati Uniti dopo la caduta dello Shah nel 1979. E tutto questo, mantenendo un programma nucleare civile, mantenendo il dispiegamento in Libano di più di 10.000 missili a media gittata puntati contro Israele e conservando la sua ipoteca militare e diplomatica sull’intera regione. Tutto questo senza dover rinunciare ai suoi legami con Siria e Hezbollah, al suo ruolo nel contesto del conflitto israelo-palestinese, alle sue mire egemoniche nel Golfo Persico. La mezzaluna sciita, evocata con apprensione dal Re Abdullah II di Giordania, che da Teheran giunge fino al Sud del Libano passando per l’Iraq e la Siria, si sarebbe rafforzata. I paesi del Golfo, con irrequiete minoranze sciite che esigono maggiori diritti, sarebbero scivolati ulteriormente nell’area d’influenza iraniana. E l’Iran, senza cambiare una virgola delle sue politiche regionali, sarebbe divenuto un interlocutore legittimo e influente nella regione, condizionandone il futuro e gli assetti. L’offerta del 6 giugno insomma aveva spazzato dal tavolo negoziale il sostegno iraniano al terrorismo e il suo ruolo destabilizzante in Medio Oriente. Ora tutto questo è rimesso in discussione dalla guerra in corso nel Sud del Libano, scatenata da Hezbollah per conto dell’Iran e con la benedizione, il tifo e l’appoggio logistico siriano. Quella che doveva essere una mossa mirata a mettere in scacco Israele e rafforzare Hezbollah e i suoi alleati potrebbe finir coll’essere uno scacco matto alla milizia e un duro colpo al prestigio e all’influenza iraniana.
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