Un articolo degno del Manifesto o di Indymedia
sul quotidiano della sinistra riformista
Testata:
Data: 18/07/2006
Pagina: 5
Autore: Roberto Albioni
Titolo: E adesso tutta la regione è a rischio

A pag. 5 del quotidiano “il Riformista” troviamo un articolo di Roberto Aliboni: una continua condanna degli Stati Uniti e di Israele, e la giustificazione di Hezbollah, Hamas e Iran. La causa della guerra in Libano, si legge, è data dall’ “inconcludente politica americana nella regione” e da Israele che ha considerato “atto di guerra l’incursione degli Hezbollah”. Secondo il Riformista, infatti, non si può considerare “atto di guerra” quando un esercito paramilitare capeggiato anche da ministri entra in uno stato confinante e uccide e rapisce i soldati di quello stato. Tutto questo secondo Aliboni, è causato solamente da problemi di “scambio di prigionieri” e Israele “sottovaluta questa questione e la gestisce con una logica di eccessiva arroganza”. Più volte in questo articolo lo stato ebraico passa per estremista (“reazione estrema”) mentre l’Iran è completamente assolto (“appare improbabile un’influenza diretta di Teheran”); ma è a conoscenza Aliboni che ad armare il gruppo Hezbollah è proprio l’Iran di Ahmadinejad che ha come obiettivo la cancellazione di Israele dalle cartine geografiche? Inoltre l’articolo considera “non rilevanti i problemi di sicurezza” di Israele ma serve solo al governo di Olmert “per tenersi in sella”. Sembra di leggere “Indymedia” o “il manifesto”. Al Riformista ricordiamo che da quando Israele si è ritirata dal sud del Libano le città del nord hanno continuamente subito attentati da parte degli Hezbollah. Il governo israeliano inoltre, fino a prova contraria, non ha problemi di legittimità politica visto che oltre ad essere stato eletto democraticamente è sostenuto da una ampia coalizione. Rispetto al fronte palestinese, l’occidente dovrebbe dare “spazio agli islamisti palestinesi” (leggesi Hamas) e poco importa che questo gruppo ha rivendicato la maggior parte dei due mila attentati terroristici perché secondo Aliboni esiste un molto discutibile “scontro all’interno di Hamas”.
Ecco il testo:

La crisi che si è improvvisamente aperta a seguito dell’attacco a un contingente militare israeliano al di là della frontiera del Libano da parte della milizia dello Hezbollah (Partito di Dio) si presta a diverse interpretazioni, che non si escludono necessariamente a vicenda. La prima interpretazione è regionale. La crisi libanese sarebbe legata a quella in corso a Gaza ed entrambe si collegherebbero all’evoluzione regionale. Questo non è improbabile ma, al tempo stesso, è difficile dire se davvero le due crisi siano pilotate da Teheran, da Damasco o da intese fra le due capitali. Lo Hezbollah è, in effetti, legato a filo doppio all’Iran, ma l’idea di una scontata catena di comando da Teheran al sud del Libano va considerata con cautela. In realtà, ciò che appare incontrovertibile è che, indipendentemente dall’esistenza di piani precisi e intenzionali, le due crisi riflettono le tendenze e gli equilibri che si sono affermati come conseguenza dell’inconcludente politica americana nella regione, prima in Iraq e poi nella stessa area siro-libanese, e fra queste tendenze c’è sicuramente un attivismo regionale iraniano e sciita.
Una seconda interpretazione è più locale. Il leader dello Hezbollah ha dichiarato che l’incursione era stata preparata da tempo per poter procedere ad uno scambio di prigionieri. Il tema è emerso anche a Gaza. In effetti, esistono a livello sociale, specialmente fra i palestinesi, problemi molto gravi in dipendenza dell’altissimo numero di prigionieri. Israele sottovaluta questa questione e la gestisce in una logica di eccessiva arroganza. Questa interpretazione può apparire più convincente se la specifica questione dei prigionieri è vista nella prospettiva dei rispettivi contesti domestici. Mentre il gruppo che ha attaccato la pattuglia israeliana appena oltre il confine di Gaza il 28 giugno scorso ha chiaramente voluto forzare la mano del governo Haniye e testimonia l’esistenza di uno scontro all’interno di Hamas - più in generale, nella ormai variegata area palestinese che avversa il vecchio Fateh - l’attivismo dello Hezbollah si radica in una situazione interna libanese nella quale la posta è un cambiamento degli equilibri all’interno del paese come conseguenza delle dinamiche avviate dall’Occidente dopo l’assassinio del presidente Hariri, a cominciare dall’uscita della Siria dal paese. Lo Hezbollah può aver sentito la necessità di riaffermare il suo (anomalo) ruolo nel contesto libanese approfittando della crisi nel frattempo sorta a Gaza e inserendosi in essa.

Da Damasco
a Teheran
Questa interpretazione locale rinvia più a Damasco che a Teheran. In questo senso occorre considerare che, mentre l’opinione pubblica internazionale immagina un Baath allo sbando sotto la pressione degli Usa e dell’Occidente, le cose non stanno esattamente così: l’inchiesta sull’assassinio di Hariri, passata nelle mani del giudice belga Brammertz, ha assunto orientamenti ben più generici di quelli che aveva sotto il giudice tedesco Detlev Mihlis; la Francia ha allentato la sua pressione; gli stessi Stati Uniti non sanno bene come prolungare e articolare la loro. Damasco sembra percepire, esattamente come Teheran, che Washington, in fin dei conti, ha le unghie spuntate. In effetti, in Libano ben poco è cambiato. Da un lato, le pressioni occidentali e americane a seguito dell’assassinio di Hariri sono state subito metabolizzate dalla politica libanese come un ennesimo fattore di divisione e riequilibrio fra le sette del paese, e perciò hanno lasciato lo stato libanese debole come sempre. Dall’altro, la Siria non è più in loco con le truppe, ma resta ben presente come fattore politico determinante nelle lotte fra sette e clan. Tutto questo potrebbe far ritenere che dietro la crisi libanese, e probabilmente anche quella di Gaza, ci sia più la vicina Siria che il lontano Iran.
La reazione israeliana ha subito mostrato un carattere estremo. Questo è un elemento significativo del quadro. Da un parte, sembra avviata a investire l’intero territorio di Gaza; dall’altra, la reazione non si limita allo Hezbollah ma investe il Libano come tale. Il governo israeliano ha considerato l’incursione dello Hezbollah un «atto di guerra» e di fatto ha scatenato un conflitto internazionale. Questa reazione estrema riflette la percezione strategica che si sta affermando in Israele di un cerchio islamista radicale che si stringe da oriente a partire dalle conseguenze della crisi irachena, in particolare lo spazio che ha dato ai radicali iraniani e a quelli di Al-Qaeda. Questo «Drang nach Israel» è apparso sia nei pronunciamenti di Zarkawi che in quelli di Zawahiri. I recenti attacchi terroristici nella penisola del Sinai sono stati avvertiti da molti analisti israeliani come un avvicinamento. Molti, pur convinti della fondamentale diversità di Hamas rispetto ad Al-Qaeda, sono oggettivamente allarmati dalla contiguità e dalle possibili saldature. Tuttavia, non sembra che sia questo il motivo determinante del carattere estremo della reazione israeliana. La reazione sembra piuttosto radicarsi nel timore che possa venir meno la capacità di deterrenza che ha consentito ad Israele di imporre, sin dagli anni Novanta, le regole del gioco fra Hezbollah e Israele e che dovrebbe consentire ora di imporre simili regole nel disimpegno unilaterale con i palestinesi, disimpegno che è alla base della politica inaugurata da Sharon e che Olmert vuole proseguire e perfezionare. Se Israele non riesce a imporre delle regole affonda la base stessa della politica di gestione della crisi che Sharon e Olmert hanno cercato di affermare al posto della possibile risoluzione del conflitto, cioè della pace. Ma il raid degli Hezbollah, sommandosi a quello delle brigate Izzadin Al-Qassam, mette in forse le regole già stabilite sulla frontiera libanese e rischia di rendere inattuabili quelle che Israele vorrebbe stabilire nei confronti dei palestinesi. È un serio problema di sicurezza, ma è ancora più serio in quanto mette in pericolo il nuovo governo di Gerusalemme e la piattaforma su cui è stato eletto. Se è così, la reazione estrema del governo israeliano ha uno sfondo regionale, ma è dettata da più urgenti motivi locali di sicurezza e da ancora più urgenti motivi di sopravvivenza politica.

L’incidenza dei
fattori ambientali
In conclusione, mentre appare improbabile un’influenza diretta di Teheran sull’attuale crisi, questa influenza senza dubbio esiste nella forma di un importante fattore ambientale. La crisi libanese in corso - come quella di Gaza - appare però con maggiori probabilità muoversi nell’area siro-libanese, siro-israeliana e, ovviamente, israelo-palestinese. Perciò, anche se la crisi ha radici lontane che occorrerà curare, nell’immediato è importante evitare che la crisi debordi.
In fin dei conti, viene fatto di pensare che la reazione riflette più la debolezza del governo Olmert e il fallimento sul nascere della sua politica di «disimpegno unilaterale» che non rilevanti problemi di sicurezza. Molti analisti israeliani rilevano l’inesperienza di Olmert e Peretz (il ministro della Difesa) in materia militare, rispetto a una tradizione di uomini politici provenienti dalle forze armate. Alle critiche di sproporzione che vengono dall’estero, fanno riscontro in Israele critiche più velate ma analoghe. Non si deve certo permettere al governo israeliano di scatenare nuovi conflitti solo per tenersi in sella. La diplomazia deve energicamente insistere sulla sproporzione. Si deve altresì sottolineare che l’interesse dell’Occidente sta nel rafforzamento del debole governo di Beirut e non certo nel suo affossamento. A questo proposito, occorre anche che i paesi occidentali diano garanzie di un loro rinnovato impegno a rafforzare quel governo e, quindi, a premere con efficacia sulla Siria. La diplomazia occidentale, invece, ha poco spazio verso gli islamisti palestinesi, una parte dei quali potrebbe avere interesse a intrecciare un dialogo positivo ma semplicemente non è riconosciuta. Questo arido quadro diplomatico, fatto di così pochi appigli, suggerisce che più in generale l’Occidente ha bisogno di ripensare ab imis fundamentis la sua politica mediorientale onde superare il “sonno della ragione” in cui l’ha precipitata l’intervento Usa in Iraq.

L’autore è vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali. Il testo è tratto da www.affarinternazionali.it


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