Dal RIFORMISTA del 12 luglio 2006 un articolo di Anna Momigliano sulla decisione americana di garantire ai terroristi catturati il trattamento dei prigionieri di guerra (benchè stando alla convenzione di Ginevra i terroristi non siano prigioniari di guerra, notiamo noi, constatando che gli Stati Uniti attuano una tutela rigorosisa dei diritti dei loro nemici piàù agguerriti)
Ecco il testo:
La Corte suprema degli Stati Uniti e i sostenitori dei diritti civili hanno vinto, su questo non c'è dubbio. L'amministrazione Bush, che ha fatto dello strapotere dell'esecutivo sul giudiziario in tempi di guerra al terrorismo un suo tratti distintivo, non ha altra scelta se non cambiare la propria linea. Tutto sembra puntare in questa direzione: prima la sentenza della Corte suprema, che ha dichiarato illegittimi i tribunali militari sui “nemici combattenti”, e, implicitamente, l'istituzione di Guantanamo; poi l'annuncio del Pentagono, che ieri si è impegnato a rispettare “gli standard minimi” per i processi giudiziari garantiti dalla Costituzione di Ginevra. A rendere pubblico il nuovo memo dei militari statunitensi, è stato il Financial Times, subito ripreso da tutta la stampa americana.
Tutto comincia dalla Convenzione di Ginevra (nel 2002 il futuro Attorney general Alfonso Gonzales la definì «obsoleta», suscitando un ampio dibattito), e tutto con l'affossamento della Convenzione di Ginevra potrebbe finire. Perché, a ben vedere, il verdetto del mese scorso in cui Corte suprema ha dichiarato “illegittimi” i tribunali militari con cui sono stati giudicati i “nemici combattenti” poi detenuti a Guantanamo fa sì riferimento all'articolo 3 della Convenzione, che impone uno standard minimo di processo giudiziario ai prigionieri di guerra, ma non per questo ha dichiarato il mancato rispetto di tale articolo di per sé incostituzionale. Ciò che costituisce una grave violazione, secondo i nove giudici di Washington, è il fatto che l'amministrazione Bush abbia istituito dei tribunali militari, liberi dai vincoli della, senza interpellare prima il Congresso. Il verdetto della Corte suprema, dunque, riguarda il bilanciamento tra i poteri dell'esecutivo e del giudiziario, prima ancora che i diritti umani dei detenuti.
Sono tre gli scenari per il futuro di Guantanamo. Tecnicamente parlando, infatti, l'amministrazione può ancora aggirare l'ostacolo della Costituzione di Ginevra facendo passare al Congresso una legge che esenti le corti militari dall'applicare il sopracitato articolo 3. L'ipotesi non è del tutto impraticabile, tanto che alcuni legislatori hanno dichiarato, come riportava ieri il New York Times, di volere riscrivere la legge in questo senso. Tuttavia, data l'aria che tira a Washington di questi tempi, sempre più critica dei metodi Bush nella guerra al terrorismo, è difficile pensare che un provvedimento del genere possa passare in ambo le camere, che comunque si preparano a chiudere per la lunga pausa estiva. L'annuncio del Pentagono, che ora intende prendere in considerazione almeno gli “standard minimi” di Ginevra, è infatti indice che le cose stiano prendendo un andamento molto diverso, rispetto ai primi anni della war on terror. Il secondo scenario, che per ora sembra il più probabile, consta esattamente in questo: cominciare ad applicare la Convenzione di Ginevra ai nemici combattenti, magari rivedendo i processi di chi si trova già dietro le sbarre. Ovvero lasciare il “sistema tribunali militari-Guantanamo” in piedi, correggendo il tiro.
Dulcis in fundo, rimane l'opzione di chiudere Guantanamo una volta per tutte, come chiedono i rappresentanti della diplomazia europea. Facile a dirsi, ma difficile a farsi. Al di là dei «vorrei ma non posso» di George W. Bush, l'eventuale chiusura del carcere cubano pone - ironia della sorte - non pochi problemi sul fronte del rispetto dei diritti umani. A cominciare dalla questione più ovvia, ovvero dove trasferire i prigionieri.
La maggior parte dei detenuti a Guantanamo, infatti, proviene da paesi che non godono di buone credenziali umanitarie, e che spesso sono più zelanti degli alleati americani nell'usare le maniere forti con i (presunti) terroristi. Non è un caso poi, che una buona fetta dei prigioneri di Guantanamo provenga da paesi scelti da Washington come sede delle discusse extraordinary rendition proprio perché propensi a utilizzare metodi quantomeno eterodossi nei confronti degli islamisti radicali. Cosa ne sarebbe, per esempio, dei detenuti di nazionalità pachistana o egiziana, una volta rimpatriati? Di trasferirli negli Stati Uniti non se ne parla nemmeno, ha messo le mani avanti ieri il portavoce della Casa Bianca Tony Snow.
Sotto questo aspetto, meritano interesse i casi dei 22 prigionieri cinesi - tutti appartenenti all'etnia uyghura, di religione musulmana e origine turcomanna - che di essere rimpatriati a Pechino proprio non ne vogliono sapere. Molti di loro sono coinvolti nel movimento indipendentista del Turkestan orientale, e ad attenderli in patria c'è il carcere duro, secondo l'accezione cinese del termine. Tra questi, Abu Bakr Qassim - riconosciuto dal tribunale militare come non “nemico combattente” - ha chiesto ufficialmente asilo politico agli States. L'America ha rifiutato. Lo scorso maggio Qassim, insieme ad altri quattro detenuti uyghuri riconosciuti come non “nemici combattenti,” è stato trasferito in Albania: ora i cinque musulmani cinesi stanno cercando di ottenere lo status di rifugiati politici dal governo di Tirana.
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