La proposta americana di dialogo e il no dell'Iran
due analisi equilibrate
Testata:
Data: 02/06/2006
Pagina: 3
Autore: la redazione - Vittorio Emanuele Parsi
Titolo: L’Iran dice il solito “no” all’America, che paga il bluff di Khatami - L'Iran non esporti il suo modello e tornerà a un ruolo strategico

Dal FOGLIO di mercoledì 2 giugno 2006, un'analisi sul rifiuto iraniano della proposta di trattativa avanzata dagli Usa.
Ecco il testo:


Roma. Il governo di Teheran, per bocca del ministro degli Esteri Manouchehr Mottaki, ha risposto ieri con un “no” scontato – e previsto da Washington – alla precondizione posta dal segretario di stato americano Condoleezza Rice – cioè la sospensione dei processi di arricchimento dell’uranio – per aprire trattative dirette tra gli Stati Uniti e l’Iran. Ma ha detto che lo spazio per trattare c’è. Rice ha raggiunto gli scopi che si era prefissata, tenendo fermo quello che anche il presidente americano, George W. Bush, ha ripetuto ieri: “L’Iran non avrà l’arma nucleare, se non accetta la sospensione, si va all’Onu”. Rice ha ottenuto una disponibilità formale e di principio da parte del governo del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, a una trattativa diretta con il “Satana americano”. E’ la prima volta dal 1979 che accade ed è un segno di debolezza e non di forza di Teheran, che ha sempre rifiutato le profferte che negli ultimi dieci anni erano pervenute, soprattutto dall’Amministrazione dell’ex presidente Bill Clinton. In secondo luogo, Rice ha ottenuto un risultato prezioso in sede di Consiglio di sicurezza dell’Onu: Cina e Russia avranno difficoltà a porre il veto a una risoluzione che faccia seguire agli appelli dure sanzioni a fronte della mancata sospensione delle attività nucleari dell’Iran. Chiarissimo il commento del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov: “Mosca saluta l’annuncio della parte americana sulla sua disponibilità a partecipare a colloqui diretti con Teheran allo scopo di risolvere la situazione relativa al programma nucleare iraniano. Oggi è apparsa una vera possibilità di raggiungere un accordo. Facciamo appello all’Iran perché risponda in maniera costruttiva”. In terzo luogo, Washington ha disinnescato molte delle armi di cui poteva usufruire – sempre in sede Onu – il fronte dei “paesi non allineati” (ben 55 nazioni) che, sotto la regia di Fidel Castro, ha deciso di fornire una massiccia copertura politica e diplomatica alle iniziative di Ahmadinejad, anche le più spregiudicate. Rice ha poi lanciato un messaggio all’Unione europea, le cui trattative con gli ayatollah con la troika (Germania, Francia e Gran Bretagna) da tre anni in qua sono risultate inutili, a tratti persino dannose. Infine, Rice ha ricevuto un plauso anche da Israele, che non può che rallegrarsi per un’ulteriore assunzione di responsabilità diretta di Washington nell’area, come ha spiegato Danny Ayalon, portavoce del ministero degli Esteri di Gerusalemme: “L’obiettivo degli Stati Uniti è fermare le attività nucleari iraniane, e credo che abbiano fatto la mossa giusta, trasferendo l'onere della scelta su Teheran.
Ma le parole con cui Mottaki ha risposto a Rice rivelano qualcosa di più: “L’Iran non accetterà mai, e poi mai, di sedersi al tavolo delle trattative se la premessa è quella di rinunciare anche parzialmente ai propri piani nucleari – ha detto il ministro degli Esteri di Teheran – Non cederemo sui diritti innegabili e legittimi del nostro paese. Il programma di arricchimento dell’uranio non sarà oggetto di negoziato. Tuttavia, siamo disposti a discutere delle reciproche preoccupazioni”. Un “no”, quindi, subordinato alla richiesta di sospensione degli esperimenti nucleari, accompagnato però dall’accettazione del principio della trattativa con Washington. Se Teheran vuole – come è costretta a fare – continuare ad avvantaggiarsi della fondamentale “sponda” della Russia (fornitrice degli impianti nucleari) e della Cina (grande importatrice di petrolio iraniano), è costretta ad ammettere quei rapporti col “grande Satana”, che ha sempre rifiutato. Tale rifiuto è tutto interno alla logica della rivoluzione iraniana del 1979, dell’occupazione dell’ambasciata americana di Teheran e dell’appoggio che l’Amministrazione statunitense diede – ma soltanto a partire dal 1982 – all’Iraq di Saddam Hussein, quando questi chiese la pace a Khomeini, rifiutata nel tentativo di esportare la rivoluzione sciita a occidente. Anni di rapporti roventi, interrotti dallo scandalo Iran-Contras del colonnello Olivier North che, nel 1986, organizzò una vendita di armi all’Iran per acquistare, con il ricavato, armamenti per i contras del Nicaragua, eludendo il veto del Congresso. Ronald Reagan chiuse la partita con gli iraniani regalando loro una torta a forma di chiave del paradiso e il gelo tra le due capitali rimase ancora per una decina d’anni. Nel 1997, l’elezione a presidente di Mohammad Khatami accese le speranze di una normalizzazione in America e in Europa, sempre in ottimi rapporti con gli ayatollah, nonostante il caso di Salman Rushdie. Clinton si illuse che la svolta riformista rappresentata da Khatami, fortemente appoggiata dal voto popolare, avrebbe portato a una apertura anche sul piano internazionale. Non fu il solo. La stampa s’infatuò di Khatami, gli analisti anche, e pure un piccolo ma influente quotidiano italiano. Ma già nel dicembre del 1997, il ministro degli Esteri iraniano rifiutò ogni appeasement con Washington e, nel gennaio del 1998, l’ayatollah Khamenei smentì seccamente lo stesso Khatami che aveva auspicato un “dialogo culturale”, con una dichiarazione ultimativa: “Trattative e dialogo con gli americani danneggerebbero i nostri interessi”. Nonostante queste premesse, Clinton attuò una politica unilaterale di concessioni senza contropartita, suggellata il 17 giugno 1998 dall’annuncio: “L’Iran sta cambiando in modo positivo”. Per ripagare questo cambiamento – solo verbale, ma tutto il mondo occidentaleera convinto che fosse anche di sostanza – e rafforzare i riformisti, Clinton cancellò il 17 dicembre 1998 l’Iran dall’elenco dei paesi grandi produttori di droga e il 28 aprile 1999 allentò le sanzioni economiche. Khatami non fece corrispondere a queste aperture alcun passo concreto. Ma Clinton decise comunque di dargli credito e chiese scusa all’Iran per le ingerenze americane. Il 17 marzo del 2000, l’allora segretario di stato Madeleine Albright si rivolse al governo e al popolo iraniano con parole inusuali: “Nel 1953 gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo significativo nel rovesciamento di Mohammed Mossadeq, primo ministro iraniano. L’Amministrazione Eisenhower ritenne che le sue azioni fossero giustificate da motivi strategici, ma la mossa segnò chiaramente una battuta d’arresto nello sviluppo politico dell’Iran. Ed è facile rendersi conto ora del perché molti iraniani continuino a provare risentimento per questo intervento da parte dell’America nei loro affari interni. Inoltre nel corso dei successivi 25 anni, gli Stati Uniti e l’occidente hanno dato un appoggio consistente al regime dello scià. Il governo dello scià, anche se aveva dato un grande contributo economico al paese, aveva represso brutalmente il dissenso politico. Come ha dichiarato il presidente Clinton, gli Stati Uniti devono assumersi la loro giusta parte di responsabilità per i problemi che sono sorti nei rapporti tra America e Iran. Persino alcuni aspetti della politica americana nei confronti dell’Iraq, durante il conflitto con l’Iran, risultano purtroppo poco lungimiranti, soprattutto alla luce delle nostre successive esperienze con Saddam Hussein”. Khatami non rispose, e il 25 marzo del 2000 prese la parola al suo posto l’ayatollah Khamenei che dimostrò come la politica di Clinton fosse velleitaria: “Queste tardive confessioni non servono a nulla e il fatto di aver parlato di negoziati con l’Iran mira solo a ingannare il popolo iraniano che non dimenticherà i tradimenti degli Stati Uniti”. La successiva collocazione dell’Iran nell’“asse del male” da parte di George W. Bush, 15 mesi dopo, fu la conseguenza di quel rifiuto al massimo di apertura mai messo in atto da Washington. Negli anni successivi, la stretta di Khamenei intervenne sempre con forza contro chi, all’interno stesso del regime, auspicava un dialogo con Washington. Il 2 febbraio del 2003, Abbas Abdi, ex pasdaran, uno degli studenti che occuparono l’ambasciata americana, fu condannato a sette anni di carcere per aver pubblicato, quale direttore dell’agenzia di stampa Irna, un sondaggio favorevole alla ripresa del dialogo con gli Stati Uniti.

Da AVVENIRE, un editoriale si Vittorio Emanuele Parsi sottolinea l'importanza storica della proposta americana all'Iran e l'eccezionalità della crisi in corso.
Parsi elenca i passi che Teheran dovrebbe compiere per normalizzare la propria posizione all'interno della comunità internazionale.
Purtroppo, è molto improbabile che il  regime, che si fonda  su un'ideologia totalitaria antisemita e jihadista possa compiere la svolta auspicata dall'analista.
In ogni caso l'"agenda Parsi" (fine della volontà di esportare la rivoluzione islamica,  ababndono del progetto di distruggere, fine del sostegno ai gruppi terroristici antisraeliani, in particolare Hezbollah) Israele fornisce un preciso punto di riferimento per valutare  i risultati della diplomazia internazionale nella crisi iraniana, distinguendo gli eventuali effettivi successi dai semplici cedimenti dell'Occcidente
Ecco il testo:

La notizia che gli Stati Uniti intendono unirsi a Francia, Inghilterra e Germania nei colloqui con gli iraniani sul loro programma nucleare è una novità talmente grande da non essere messa in ombra neppure dalla consueta precisazione che l'Iran non intende rinunciare al «proprio diritto a dotarsi di una capacità nucleare civile». Come è noto, Iran e Stati Uniti non hanno relazioni diplomatiche dirette da quando gli studenti rivoluzionari (tra i quali forse anche l'attuale presidente della repubblica islamica Ahmadinejad) assaltarono l'ambasciata americana a Teheran e ne presero in ostaggio il personale per centinaia di giorni. Due sono i fattori estremamente positivi di questa decisione americana. Da un lato essa chiarisce agli alleati europei, agli interlocutori iraniani e a Cina e Russia che gli Stati Uniti sono disponibili a tentare ogni possibile strada che possa portare alla soluzione della crisi. Dall'altra consente di rendere esplicito oltre ogni possibile equivoco che l'Occidente è estremamente compatto nel non voler consentire al regime iraniano di continuare sulla strada di un arricchimento dell'uranio, i cui soli scopi civili non appaiono credibili. Non sono del resto solo gli americani a sospettare che quanto affermano le autorità iraniane non sia vero. L'Europa è sulla stessa linea d'onda. Gli iraniani insistono da sempre che è nel loro diritto acquisire capacità nucleari civili, come lo è di qualunque altro Stato. Sostengono cioè di voler essere trattati come tutti gli altri Stati, come uno stato "normale". Il punto è precisamente questo. E cioè che la Repubblica Islamica dell'Iran non è uno Stato "come tutti gli altri", perché non si comporta come tutti gli altri. Il suo presidente non perde occasione di minacciare la sopravvivenza di Israele e di negare la stessa storicità dalla sh oah. Il suo governo finanzia apertamente organizzazioni (anche) terroristiche come gli hezbollah libanesi, che proprio domenica hanno lanciato missili contro l'Alta Galilea, provocando la reazione di Israele che ne ha bombardato un insediamento a sud di Beirut. I suoi Pasdaran appoggiano le formazioni terroristiche e gli insorgenti legati al leader sciita al-Sadr in Iraq. È per questi motivi che la comunità internazionale, e l'Occidente in particolare, non si fida del regime rivoluzionario iraniano. Il quale si ritrova, fatte le debite proporzioni, in una situazione non molto dissimile da quella dell'Urss negli anni Trenta. Il regime sovietico ruppe il proprio isolamento attraverso la solenne dichiarazione (seguita dai fatti) che non avrebbe esportato la rivoluzione, e il varo della dottrina della "rivoluzione in un solo Paese". L'Iran dovrebbe far tesoro della lezione sovietica e capire che, per poter essere considerato un Paese come tutti gli altri, deve iniziare a comportarsi come tutti gli altri. Chiarire che non intende "esportare il suo modello", né minacciare l'esistenza di alcuno, a iniziare da Israele. E far seguire queste dichiarazioni dalla cessazione di ogni aiuto ai gruppi terroristici che arma, finanzia o ispira, condizionando a utilizzi non militari anche il sostegno che esso offre a Hezbollah. A fronte di un simile mutamento, verificabile e concreto, l'Iran potrebbe giocare al meglio la carta più forte che ha in mano in questo momento: ovvero il proprio possibile ruolo positivo nella graduale risoluzione della crisi irachena. Dell'importanza di un coinvolgimento dell'Iran per il successo di qualunque exit strategy, d'altronde, gli Stati Uniti sono sempre più consapevoli. E che anche di questo si parlerà, quando e se si comincerà a parlare con gli iraniani del loro programma nucleare, non è probabile: è certo.

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