Dal RIFORMISTA di mercoledì 31 maggio 2006:
Ci sono tre modi di leggere il discorso del papa ad Auschwitz. Uno, quello più ovvio e sul quale tanto già si è detto, è quello politico. A livello politico, il discorso del papa delude. Ci sono molti riferimenti storici che sanno di revisionismo, quale il tentativo di esonerare il popolo tedesco attribuendo la colpa del Nazismo a una “cricca di criminali” che avrebbe preso il potere “mediante promesse bugiarde” e altre illusioni, ma anche con “la forza del terrore e dell’intimidazione”. I tedeschi sarebbero stati insomma vittime, non complici, della macchina dello sterminio nazista che portò non solo alla morte di sei milioni di ebrei e di altri cinque milioni di zingari, gay, dissidenti e handicappati nei campi della morte e di concentramento, ma a decine di milioni di soldati e civili in tutta l’Europa. E’ una teoria che può star bene all’Europa Unita, dove il Nazismo è diventato un capitolo buio di storia di cui tutti gli europei sarebbero stati vittime, e che non distingue più tra vittime, carnefici, complici materiali e morali, esecutori e coadiuvanti. Ma è una teoria storicamente inesatta oltre che moralmente evasiva e che a un papa che fa del rigore morale e della lotta al relativismo uno dei suoi vessilli, francamente calza male.
Il secondo è quello dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo, all’interno del quale esiste un importante elemento teologico. In questo senso, ci sono spunti importanti e profondi nel discorso che vanno riconosciuti. Benedetto XVI ricorre al termine ebraico, Shoah, per definire l’Olocausto, e ricorda la centralità della sofferenza ebraica di quell’esperienza con parole accorate. Nel ricordarla, egli riafferma la validità del Patto tra Dio e popolo ebraico, sottolineando come è nella validità di quel patto, piuttosto che nella sua supercessione, che il Cristianesimo trova le sue radici. Questo è senza dubbio un risvolto importante del discorso del pontefice, perché rafforza il principio del dialogo ecumenico con gli ebrei non ai fini di conversione, ma ai fini di un’eguaglianza tra le due fedi che si allontana dalla dottrina della supercessione - l’idea che la Chiesa rappresenta il Nuovo Israele e che gli ebrei hanno perso, per non aver visto in Gesù il Re Messia, il loro ruolo di popolo scelto da Dio e detentori di un patto con la divinità. A questa dottrina, va ricordato, si riconduce il rifiuto teologico da parte della Chiesa di riconoscere il Sionismo e successivamente lo stato d’Israele. Se da un punto di vista politico questa posizione si è evoluta fino allo stabilimento di relazioni diplomatiche con Israele nel 1994, l’affermazione teologica di questa posizione ha potenzialmente conseguenze politiche importanti. Infine, Il papa ha citato principalmente quelle parti della Bibbia che sono condivise da ebrei e cristiani, e ha parlato del silenzio di Dio, un concetto dibattuto con sofferenza anche all’interno del mondo ebraico, senza togliere nulla alla terribile responsabilità degli uomini.
Accanto a questi sviluppi ce ne sono altri però che ricadono nell’ambiguità espressa sul terreno politico e che non possono essere sottovalutati. Intanto il papa non pronuncia una sola volta la parola antisemitismo nel suo discorso. Possibile che soltanto a causa di una cricca di criminali che si impadronirono del potere con la menzogna e l’intimidazione siano morti tanti milioni di ebrei ad Auschwitz? Non sarebbe stato opportuno, quando il papa dice che «il passato non è mai soltanto passato», aggiungendo che «esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle da prendere», ricordare che fu l’effetto cumulativo di anni di propaganda dell’odio, essa stessa alimentata e aiutata da secoli di pregiudizio, a creare il terreno fertile per lo sterminio? E che quindi se la Germania fu trascinata nel baratro da una cricca di criminali, lo sterminio non poté avvenire senza l’attiva partecipazione e la complicità delle popolazioni e degli apparati burocratici dei paesi alleati o occupati dalla Germania?
E se davvero invece tutto avvenne per mano di pochi criminali, perché allora tacere sul fatto che il suo predecessore al soglio di Pietro, Pio XII, tacque per sei lunghi anni sulla mostruosità del Nazismo, anche quando i suoi crudeli aguzzini fecero marciare gli ebrei diretti ai forni sotto le sue finestre romane? Se così tanti morirono a causa di così pochi, perché il papa tacque, quando un gesto e una parola del pontefice, oggi come ieri, smuovono le coscienze e le cancellerie?
E se proprio occorreva ricordare, come è giusto farlo, che tra i molti tedeschi che tacquero, nel generale silenzio indifferente o complice o impaurito, pochi coraggiosi si rifiutarono di esser complici, era davvero necessario citare tra i tanti proprio Edith Stein, ebrea convertita al cristianesimo che morì ad Auschwitz non perché suora ma perché secondo la follia razziale nazista anche una conversione così completa e irreversibile come quella di un ebreo che si fa sacerdote cristiano non rimuoveva quella donna dal popolo ebraico? Edith Stein è stata beatificata, e per il mondo ebraico l’eccessiva attenzione della Chiesa sulla sua tragica vicenda è un indizio - assieme a tanti altri - di un tentativo della Chiesa di universalizzare l’esperienza dell’Olocausto, finendo con il trasformarla nell’equivalente moderno del Calvario e cristianizzando infine un episodio della storia che fu principalmente nel senso di martirio, ebraico.
I discorsi di un pontefice vanno letti, non solo per quello che contengono, ma anche per quello che omettono. E queste due omissioni sono pesanti. Dimostrano come un’occasione ulteriore di dialogo sia stata perduta, sacrificata ad altre considerazioni. Una forse, su tutte, va capita: il papa dopotutto riafferma le radici cristiane dell’Europa (pur pagando un doveroso tributo alle radici ebraiche delle radici cristiane, in chiave ecumenica) e la supremazia della legge morale divina sul relativismo cui egli attribuisce odio, violenza e decadimento morale nel mondo moderno. Questi sono due temi attuali, cari al papa e centrali alla sua missione, votata a ristabilire la Chiesa come baluardo di valori contro l’avanzata di un multiculturalismo scristianizzante in Europa. Ma sull’altare di questi due obiettivi, Benedetto XVI ha scelto di lasciarsi sfuggire un’ulteriore opportunità di chiudere i conti col passato della Chiesa in quella buia parentesi della storia e di aprire una nuova pagina nei rapporti con l’ebraismo. E così facendo, se uno ripensa all’ambiguità del suo discorso in materia storica, conferma che questo discorso rappresenta in generale un passo indietro e un’occasione perduta.
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