Atomica degli ayatollah : chi ne vede i rischi e chi no
due analisi a confronto
Testata:
Data: 30/05/2006
Pagina: 5
Autore: Kenneth Pollack - Ivo H. Daalder
Titolo: Questa volta la storia non si ripeterà Così Hezbollah avrà mano libera Il vero problema non è l’atomica, ma il senso d’impunità che darà ai terroristi -
Dal RIFORMISTA di martedì 30 maggio 2006 un'analisi dell'analista Kenneth Pollack sui rischi connessi all'eventualità di un'atomica degli ayatollah.
Aggiungiamo solo una considerazione alla ragionevole analisi di Pollack. Ammesso che nonostante i proclami genocidi del potere di Teheran questo non abbia intenzione di utilizzare la bomba appena venutone in possesso (come Pollack presuppone forse troppo ottimisticamente) è evidente che lo scenario da lui evocato, nel quale le armi nucleari sono intese dall'Iran come la garanzia di poter impunemente sostenere il terrorismo antioccidentale e antisraeliano, sarebbe incompatibile con l'ipotesi di un "equilibrio del terrore" tra Iran Israele e tra Iran e occidente.
E' chiaro infatti che proprio il terrorismo, che non potrebbe essere tollerato dai paesi che ne fossero vittime, incrinerebbe quell'equilibrio, determinando inevitabili reazioni difensive e una pericolosissima escalation.
Ecco il testo:


Gli sforzi di Teheran per ottenere armamenti nucleari generano due diverse minacce per gli interessi vitali degli Usa. La prima, e più diretta, è la minaccia che, se l’Iran acquisisce un deterrente nucleare, sarà convinto di non essere più vulnerabile relativamente a una ritorsione militare convenzionale esterna (vale a dire americana o israeliana), e pertanto potrà ritornare alla sua aggressiva politica estera e contro lo status quo perseguita a inizio anni Novanta. (...) Si tratta della minaccia più diretta dei progressi nucleari in Iran - la questione non è tanto che Teheran andrebbe ad usare immediatamente l’arma atomica contro Arabia Saudita, Israele o altri paesi, o che andrebbe a cedere tali armamenti ai terroristi, quanto piuttosto che i leader iraniani più aggressivi non si riterrebbero più vincolati in virtù del timore di una rappresaglia militare per quel che riguarda atti di terrorismo, sovversione, e altre forme di guerra clandestina. Si può addurre che tale argomento è assolutamente coerente con l’eredità di Khomeini e adeguato per i suoi eredi integralisti, tornati ora pienamente al potere a Teheran a seguito del declino del movimento riformista e della vittoria elettorale dell’esponente radicale integralista Mahmoud Ahmedinejad. Non è affatto una certezza che l’Iran ritornerà alla sua precedente politica estera offensiva, ma certamente non lo si può escludere, in particolar modo vista la nuova leadership a Teheran. E, laddove ciò accadesse, le ripercussioni estremamente negative che ne deriverebbero impongono di prendere sul serio tale possibilità.
Una seconda minaccia è che i progressi del nucleare iraniano diano impulso a un’ulteriore proliferazione, sia nella regione che nel mondo. Dal momento che molti paesi temono che, una volta che l’Iran ha acquisito gli armamenti nucleari, perseguirà una politica estera aggressiva, se Teheran fosse in grado di produrre energia nucleare, altri paesi mediorientali, in particolar modo l’Arabia saudita, potrebbero decidere di fare altrettanto, in modo da disporre di un deterrente contro un attacco iraniano (in modo nascosto o palese). I paesi al di fuori della regione che stanno prendendo in considerazione l’ipotesi di acquisire armamenti nucleari potrebbero trarre una conclusione dal caso iraniano (e da quelli nordcoreano e pakistano) che le sanzioni per aver sviluppato armamenti nucleari sono tollerabili e molto inferiori a quanto si temesse.
Dall’11 settembre 2001, si è venuto a creare un assioma negli Stati Uniti, accettato largamente in altre parti del mondo, secondo cui il terrorismo dev’essere delegittimato. Il sostegno continuo dell’Iran a diversi gruppi che utilizzano costantemente il terrore - e la storia degli attacchi terroristici condotti direttamente dal Paese - costituiscono la seconda maggiore minaccia proveniente dall’Iran per gli Stati Uniti. L’Iran rimane il principale sostenitore degli Hezballah libanesi e della Jihad islamica palestinese e continua a fornire un sostegno importante ad Hamas e ad altri gruppi di oppositori palestinesi. Inoltre l’Iran ha avuto collegamenti con una serie di altri gruppi terroristici, che vanno dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) ad Ansar al-Islam. Più di recente, è stato forte lo stupore degli Stati Uniti nello scoprire che ai leader di Al-Qaeda in Iran veniva concesso un sufficiente grado di libertà di azione per coordinare gli attacchi terroristici del maggio 2003 a Riad. Ciò che gli iraniani stavano escogitando con Al-Qaeda potrebbe aver avuto solo una natura tattica (dal momento che Al-Qaeda non fa mistero di avere in odio gli sciiti), ma è ancora un elemento di grande preoccupazione una collaborazione, di qualsiasi grado, con il gruppo terroristico più odiato in assoluto.
Il coinvolgimento iraniano nel terrorismo internazionale desta certamente preoccupazione ma, ove isolato, agli Stati Uniti sembra essere una minaccia che può essere gestita. L’Iran non effettua alcun attacco terroristico contro gli Stati Uniti dal 1996. Gli Hezbollah libanesi rappresentano una minaccia per il nostro alleato israeliano, ma non per gli Stati Uniti - gli Hezbollah hanno attaccato gli Stati Uniti solo su ordine di Teheran. Inoltre, dal ritiro di Israele dal Libano nel 2000, anche gli Hezbollah hanno ridimensionato i loro attacchi diretti contro Israele e ora il problema principale per Israele e che essi sostengono i gruppi terroristici palestinesi di Hamas e della Jihad islamica palestinese (Pij). Gli altri gruppi terroristici che godono di un sostegno diretto dell’Iran - tra cui la Pij, Hamas, il partito antiturco Pkk e altri ancora - si focalizzano su obiettivi specifici e non hanno mai attaccato gli Stati Uniti o mostrato una propensione in tal senso. Inoltre la risposta iraniana all’attentato alle Khobar Towers è una prova critica: trovandosi di fronte alla minaccia di una ritorsione militare americana, l’Iran ha sospeso le proprie operazioni terroristiche contro gli Stati Uniti. Ciò suggerisce fortemente che un deterrente contro il terrorismo iraniano è la minaccia di una rappresaglia militare americana.
Anche in questo caso, il problema principale è capire se gli iraniani ritengano che il possesso di armamenti nucleari possa escludere tale rappresaglia americana, rendendoli quindi liberi di avviare una campagna terroristica contro gli Stati Uniti senza temere alcuna ripercussione. Pertanto la minaccia reale del terrorismo iraniano è l’approccio della leadership iraniana una volta in possesso degli armamenti nucleari. Di fatto, diversi ufficiali israeliani hanno affermato la stessa cosa: che il loro timore per l’Iran è principalmente che, se Teheran ritiene che un arsenale nucleare possa rendere invulnerabile il Paese nei confronti di una rappresaglia militare, incoraggerà i soggetti che effettuano attacchi terroristici per conto suo ad agire senza freni.
Anche l’impatto dell’Iran sul processo di pace in Medio Oriente non dovrebbe essere minimizzato, ma neppure esagerato. Laddove l’Iran fosse rimasto completamente neutrale negli anni Ottanta e Novanta, appare comunque probabile che i problemi tra Israele e i Palestinesi (e tra Israele e Siria) avrebbero impedito un accordo permanente. È altresì fuori discussione, tuttavia, che l’Iran abbia rappresentato una fonte continua d’incoraggiamento e sostegno per gli estremisti palestinesi, e sono stati gli attacchi della Jihad islamica palestinese sostenuti dall’Iran che, da ultimo, in Israele hanno fatto perdere le elezioni nel 1996 a Shimon Peres, nettamente più disposto ad assumersi dei rischi per la pace rispetto a quanto si è dimostrato essere il suo avversario, Benyamin Netanyahu. Di conseguenza, il riuscire a porre fine alla violenta opposizione dell’Iran alla pace in Medio Oriente è qualcosa di necessario per il suo successo, e dovrebbe rimanere una causa per l’Occidente.

Sottovalutando completamente i rischi dell'atomica iraniana Ivo H. Daalder spiega sempre sul RIFORMISTA che probabilmente questa volta Bush "farà la scelta giusta", ovvero non intraprenderà azioni militari.
Sulle alternative per impedire agli iraniani di dotarsi della bomba Daalder non ha nulla da suggerire.
Evidentemente l'acquisizione, da parte di un regime che propugna la cancellazione di un intero stato dalla faccia della terra, di un immenso potenziale distruttivo, per lui è uno scenario accettabile.
Daalder, d'altro canto, non vede neanche come il terrorismo antisraeliano possa essere un problema per l'America e per l'occidente. Non capisce che Hezbollah, Jihad islamica e Hamas sono mossi da un' ideologia jihadista analoga a quella di al Qaeda e che la loro opposizione a una composizione pacifica del conflitto israelo-palestinese è una delle radici dell'instabilità del Medio Oriente (come ben spiega Pollack)  
Ecco il testo:

 
 A quanto sembra, l’opinione che sta emergendo a livello unanime, a Washington e nel mondo, è che la guerra con l’Iran altro non è che una questione di tempo. Ma è corretto affermare ciò? Ci sono delle buone ragioni per ritenere che l’amministrazione Bush, pur convinta che un Iran in grado di produrre armamenti atomici rappresenti una grave minaccia per la sicurezza internazionale, giungerà alla conclusione che l’uso della forza non offre una risposta attraente. La ragione di ciò non è tanto che la minaccia non giustifichi l’intervento militare, quanto piuttosto che il contesto militare, politico e internazionale è sfavorevole per prendere una decisione di questo tipo.
La minaccia nucleare iraniana è fuor di dubbio più reale della minaccia nucleare irachena del 2003. Mentre le “prove” di un programma nucleare iracheno si fondavano su informazioni controverse in relazione agli acquisti di ossido di uranio in Niger e di tubi in alluminio, Teheran non ha fatto mai mistero di voler acquisire le conoscenze necessarie sul processo tecnico per l’arricchimento dell’uranio (che costituisce la fase più critica per la produzione di una bomba). Questo stato di fatto ha portato molte persone a concludere che, se il presidente Bush ha deciso di andare in guerra sulla base di prove inconsistenti relative a un programma nucleare iracheno nel 2003, certamente questa volta andrà in guerra sulla scorta di prove nettamente più evidenti di un programma iraniano.
Tuttavia tale conclusione si basa su un’interpretazione errata di ciò che è avvenuto negli anni 2002-03. Ciò che ha reso possibile la guerra a quel tempo non è stata tanto una minaccia (nucleare o di altro genere) che l’Iraq avrebbe presumibilmente rappresentato, quanto piuttosto il contesto nell’ambito del quale Bush ha preso la decisione di andare in guerra. E nelle decisioni relative a guerra e pace, il contesto conta.
A quei tempi, l’America era ancora scossa dall’11 settembre - cosicché le tesi a sostegno della necessità di prevenire nuove eventuali minacce tramite l’intervento militare avevano più presa ed erano più convincenti di quanto non lo siano ora, quasi quattro anni dopo che i terroristi hanno reso degli aerei armi di distruzione di massa. Anche allora l’America aveva appena conseguito quella che sembrava essere una facile vittoria militare in Afghanistan, e ciò ha lasciato supporre a molti commentatori e ufficiali della difesa civile una vittoria altrettanto semplice in Iraq. Alcuni potrebbero ancora pensare che il bombardamento dell’Iran si dimostrerà semplice - tuttavia l’amministrazione saprà sicuramente che, per avere successo nel prevenire il programma nucleare iraniano, è richiesta un tipo di intelligence sui siti target che noi, semplicemente, non abbiamo. L’Iraq, inoltre, ha dimostrato che è una pura follia poter sperare in una fase successiva all’intervento priva di difficoltà. L’Iran si può vendicare in molteplici modi, rendendo la vita impossibile in Iraq e Afghanistan, attaccando il trasporto di petrolio nel Golfo e negli Stretti di Hormuz, e scatenando attacchi terroristici contro le forze americane, gli interessi americani, e persino contro la popolazione in patria. Gli attacchi contro il programma nucleare iraniano darebbero filo da torcere proprio come la liberazione dell’Iraq.
Anche da un punto di vista politico, il contesto attuale per una guerra è molto diverso rispetto al 2002-03. Allora il presidente riscuoteva ancora molti consensi nei sondaggi, e gli americani ritenevano che egli fosse un leader forte, competente e affidabile. Ora il gradimento nei confronti di Bush è crollato e gli americani non hanno più fiducia nella sua onestà, competenza e nella sua leadership. In un recente sondaggio, almeno il 54 per cento degli americani ha dichiarato di non aver fiducia in merito al fatto che Bush prenderà la giusta decisione sull’Iran. E, visti i trend nell’opinione pubblica, nel corso del tempo tali cifre peggioreranno. Altrettanto importante è il fatto che, tre anni fa, non ci fu un gran dibattito politico sull’opportunità di scendere in guerra. Gran parte dei Democratici al Senato e molti alla Camera si unirono ai Repubblicani, dando a Bush completamente carta bianca - e una grande maggioranza degli americani era a sostegno dell’entrata in guerra. Oggi la possibilità di un attacco ai danni dell’Iran viene ardentemente - e giustamente - dibattuta e sarebbe inconcepibile per Bush ottenere il sostegno del Congresso in tal senso in assenza di una minaccia molto più terribile e imminente da parte dell’Iran.
E poi bisogna considerare il contesto internazionale. Sebbene allora dei dubbi sulla direzione della politica estera americana avessero già incominciato a prendere piede, e stava crescendo l’opposizione per un’entrata in guerra contro l’Iraq, Bush poteva contare ancora sul sostegno di molti attori importanti. Nel 2002, in questo senso rientrava un voto all’unanimità su una dichiarazione del Consiglio di sicurezza Onu in cui si affermava che Baghdad non aveva rispettato le risoluzioni Onu precedenti, e in cui si metteva in guardia l’Iraq circa delle serie conseguenze nel caso in cui non le avesse osservate appieno. Nel 2003, ciò significò poter contare su un notevole sostegno militare da parte di Gran Bretagna, Australia, e di altri alleati chiave - e sul sostegno politico anche di altri paesi. Oggigiorno, persino Tony Blair ha messo in chiaro che Bush resterebbe solo qualora decidesse di attaccare l’Iran.
Nessuno di questi elementi ci dà una garanzia che Bush non attaccherà l’Iran - buone argomentazioni, elevati costi potenziali e l’assenza di un sostegno a livello politico e internazionale non sono mai stati decisivi nei suoi calcoli. Tuttavia, viste le conseguenze sul piano umano, economico, politico e diplomatico della guerra in Iraq, così evidenti a tutti, non vi è nulla di inevitabile per quanto riguarda una guerra contro l’Iran. Di fatto sussiste una possibilità ragionevole, se non buona, che Bush prenderà questa volta la decisione giusta.

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