Dossier D'Alema: Anp, Irak , Onu
come cambia la politica estera italiana
Testata:
Data: 29/05/2006
Pagina: 8
Autore: Emanuele Novazio - Roberto Scafuri - Mario Sechi
Titolo: D'Alema:"Soldi ai palestinesi. l'Ue non parlerà con Hamas" - La sinistra inaugura la politica estera arcobaleno - Svolta no global alla Farnesina Soldi all’Onu, ma senza ricevuta

Da La STAMPA di lunedì 29 maggio 2006, la cronaca di Emanuele Novazio:

Bisogna lavorare per «evitare il rischio di un collasso umanitario nei Territori palestinesi», ma senza «favorire il governo di Hamas» che «non può essere considerato un interlocutore» per il suo rifiuto di riconoscere Israele e di rinunciare alla violenza. E' il messaggio, riassunto da Massimo D'Alema, inviato dal vertice dei 25 ministri degli Esteri riuniti nell'abbazia di Klosterneuburg, vicino a Vienna, che ha deciso di «sviluppare velocemente» il meccanismo messo a punto dalla Commissione europea per fare affluire fondi alla popolazione palestinese attraverso il presidente Abu Mazen.
«Sarebbe ingiusto e inaccettabile non farlo», insiste il capo della diplomazia italiana. Per ragioni umanitarie, certo. Ma anche per il «rischio della radicalizzazione e della destabilizzazione» che il continuo peggioramento delle condizioni di vita del popolo palestinese porta con sè. Senza aiuti umanitari si avranno «effetti contrari alla prospettiva di pace e sicurezza» - è convinzione del ministro degli Esteri, che ha in programma nelle prossime settimane un'ampia missione in Medio Oriente che lo porterà fra l'altro a Gerusalemme e a Ramallah - e un rafforzamento delle componenti integraliste che un sostegno economico continuano a riceverlo dall'Iran e da altre organizzazioni islamiche. Il mancato arrivo di aiuti, è l'opinione di D'Alema condivisa dai colleghi Ue, provocherebbe l'idea sbagliata che «la democrazia porta guai invece di sviluppi positivi»: con il «risultato finale» che nei Territori palestinesi i gruppi più radicali sarebbero i soli a disporre di risorse.
Il nuovo governo italiano, dunque, conferma la linea europea secondo la quale Hamas non può essere un interlocutore della Comunità internazionale e appoggia invece Abu Mazen, del quale segue «con interesse» il tentativo di «rilanciare una prospettiva di pace e di negoziato con Israele». Prima delle elezioni, tuttavia, esponenti autorevoli del centrosinistra hanno inviato cauti segnali al movimento vincitore delle elezioni palestinesi, sollevando preoccupazioni nello Stato ebraico riassunte da un duro editoriale del quotidiano Yedioth Ahronoth, che riportava dichiarazioni filopalestinesi fatte in passato da D'Alema. Anche per questo, forse, il nuovo ministro degli Esteri ha scelto di concedere la prima intervista «internazionale» a un giornale israeliano, Maariv, nella quale conferma di essere da sempre un amico di Israele.
Se vorrà essere ascoltato, è il senso della posizione europea condivisa da D'Alema, Hamas dovrà dare risposte positive alle richieste della Comunità internazionale: riconoscere lo Stato ebraico, rinunciare in modo netto alla violenza e accettare gli impegni sottoscritti dall'Autorità palestinese di Abu Mazen. D'altro canto, la diplomazia italiana ritiene che l'atteggiamento di Hamas «non risponde ai sentimenti prevalenti della popolazione palestinese», che «in maggioranza ha una volontà di pace» e non è contraria alla prospettiva di dialogo con Israele sostenuta da Abu Mazen.
La due giorni convocata dalla presidenza di turno austriaca in preparazione del Consiglio europeo di metà giugno si è occupata anche del futuro del Trattato costituzionale, prolungando di un anno la «pausa di riflessione» avviata dopo il «no» ai referendum francese e olandese. Una conferma che l'Europa resta in una crisi profonda della quale non si intravede la fine? D'Alema è ottimista: la costruzione europea ha conosciuto «battute d'arresto, ma il processo fin qui compiuto è irreversibile», sostiene il nuovo ministro degli Esteri. Certo, l'Unione ha bisogno di «istituzioni più forti» e deve «rilanciare» l'integrazione: per questo la pausa di riflessione deve essere utilizzata per rafforzarla, l'integrazione, in alcuni settori concreti, dalle politiche energetiche a quelle economiche.
E il destino del Trattato costituzionale? L'Italia ritiene che non debba essere «abbandonato» ma debba esserne «salvata e recuperata la maggior parte possibile»: anche se è prematuro cercare di capire come e attraverso quali soluzioni tecniche e giuridiche. Roma si aspetta una svolta dalla presidenza di turno tedesca, nel primo semestre dell'anno prossimo, quando sarà celebrato il cinquantenario dei Trattati di Roma (occasione simbolica adatta al lancio di iniziative di sostanza) e si terranno le elezioni presidenziali in Francia. Non è un caso che a Klosterneuburg D'Alema abbia avuto un solo bilaterale «di peso»: con il collega tedesco Steinmeyer, con il quale sono state registrate «grandi convergenze di vedute e interessi» e la volontà di «un forte impegno comune per rilanciare le prospettive europee».

Dal GIORNALE del 29 maggio 2006 un articolo sulla "politica estera arcobaleno", inaugurata dal governo di sinistra:

La parola chiave è «discontinuità». Segnali chiari di cambiamento nella politica estera che si riflettano a poco a poco anche nella gestione interna del Paese, e che contribuiscano a un mutamento generale di clima. Il problema allora non è soltanto il ritiro delle truppe dall'Irak, i suoi tempi e i suoi modi. È lo stesso rapporto con la pace e le guerre nel mondo, il graduale riposizionamento dell'Italia, la modifica del suo ruolo internazionale. In Europa ciò significa ripartire dall'asse franco-tedesco (in particolare dalla Germania, per ora) e dalla volontà di rilanciare l'Unione persino negando la crisi, come ha fatto ieri il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, al vertice di Klosterneuburg (Vienna). «Non si può parlare di crisi, ma serve un rilancio» l'equazione dalemiana, basata sul fatto che «l'integrazione europea è ormai irreversibile» e che della costituzione bocciata dal referendum francese «va recuperata la maggior parte possibile». Nuovo protagonismo europeo che certo verrà seguito con preoccupata attenzione Oltreoceano. La scacchiera mediorientale è già molto complicata e gli Stati Uniti temono qualsiasi mutamento di pesi e contrappesi, in un equilibrio già così precario. D'Alema ieri non ha mancato di ricordare che «Hamas non risponde ai sentimenti prevalenti del popolo palestinese» e che, facendo mancare aiuti all'Anp e al presidente Abu Mazen, si rischia «il collasso umanitario nei Territori». Ed è chiaro che il governo Prodi cercando di risvegliare la Ue, cerca anche un'ancora di salvataggio per «riqualificare in senso civile» la missione in Irak. Prudenze che hanno portato il vicecoordinatore di Forza Italia, Fabrizio Cicchitto, a ironizzare sullo «Zapaterismo al rallentatore» di Prodi e D'Alema. «Nella sostanza - è il parere di Cicchitto - sta però prevalendo la posizione dell'estrema sinistra». Se questo è il quadro, si può comprendere anche l'imbarazzo che negli ambiti pacifisti si mostra nei confronti della parata del 2 giugno. Una parata in versione ridotta, forse oggetto di contestazioni annunciate da parte di sigle pacifiste, alla quale però parteciperà senza incertezze il presidente della Camera, Fausto Bertinotti. Qualche sgangherato richiamo a «non partecipare» non ha scalfito la determinazione bertinottiana a mantenere gli impegni assunti come «terza carica dello Stato». Pur ritenendo «legittime» le posizioni pacifiste, Bertinotti ha spiegato ai suoi che il presidente della Camera non può sottrarsi alle sue responsabilità istituzionali, quindi verso l'intero Paese e le sue Forze armate. Nei giorni scorsi Bertinotti ha detto che ai Fori Imperiali andrà «con una divisa di pace» e, per dare un senso concreto alla formulazione forse un po' astratta, ha invitato per stamane a Montecitorio l'inventore di Emergency, Gino Strada, il padre comboniano Alex Zanotelli, don Luigi Ciotti (gruppo Abele) e don Tonino Dell'Oglio (Pax Christi). Ovvero il nucleo d'eccellenza del movimento pacifista, primi firmatari dell'appello per il ritiro delle truppe italiane dall'Irak e per la fine della guerra. Con questo segnale Bertinotti ha in animo di non far mancare, alla vigilia della parata, il sostegno al pacifismo e contro ogni forma di violenza. Monito rilanciato ieri anche dal leader della Cgil, Guglielmo Epifani, sotto forma di invito al governo «a stare lontano dalle guerre e a operare sempre per favorire la pace, a stare lontano da dove si fa violenza e dove i diritti delle persone sono cancellati...». Chissà se basterà ai partecipanti alla contromanifestazione del 2 giugno, che avrà in prima linea deputati e senatori di Prc, da Francesco Caruso a Giovanni Russo Spena. Se l'ingenuità del «disobbediente» Caruso auspicava ancor'ieri una «diserzione di Bertinotti al lugubre protocollo», l'esperienza induceva Russo Spena al rilancio: «Bertinotti deve stare là dove impone il suo ruolo, la manifestazione dimostrerà che i movimenti sanno stare al governo e, se saremo fisicamente separati, saremo uniti nello stesso spirito».

E un articolo di Mario Sechi sulla politica del sottosegretario all'Onu Patrizia Sentinelli.

Ritiro dall'Irak e «nuovo multilateralismo». Il regime change alla Farnesina non poteva essere più traumatico. E se l'eutanasia della missione Antica Babilonia imbarazza e sconforta i militari del ministero della Difesa, il cambio netto di linea di politica estera e le manovre sotterranee intorno alla Cooperazione, per il ministero degli Esteri sono già da allarme rosso. Viste le scelte operate da Romano Prodi, il colore non poteva essere più appropriato. Gli obiettivi concentrati sul ministro Massimo D'Alema infatti hanno tolto l'occhio di bue dei riflettori da Patrizia Sentinelli, viceministro agli Esteri con delega alla Cooperazione. La Sentinelli con un doppio salto mortale carpiato si è ritrovata in un posto chiave della Farnesina dopo aver calcato le scene politiche come capogruppo di Rifondazione nel Comune di Roma. Cinquantasei anni, no global, ha seguito con attenzione i vari forum internazionali: Seattle, Porto Alegre, Genova, tappe fondamentali del movimenti anti-globalizzazione. Alla Farnesina, il ministero più globale del governo, piomba dunque un viceministro che non vuole neppure un solo militare italiano in Irak, neanche per garantire la sicurezza alla eventuale task force di civili, perché per lei «è la situazione attuale di occupazione a rendere insicura l'area». In attesa di vedere Al Zarqawi placarsi di fronte al ritiro delle truppe, la Sentinelli con piglio deciso ha fatto sapere che no, la Cooperazione italiana così non va. «Dovremo valorizzare la struttura tecnica della Farnesina», ha spiegato, «quella Direzione generale della Cooperazione allo sviluppo che è stata smantellata in questi anni». Belle parole, ma veniamo ai fatti. La Cooperazione è uno dei volani principali della nostra politica estera, serve a conquistare il consenso dei Paesi in via di sviluppo e nel risiko della riforma delle Nazioni Unite il loro appoggio è fondamentale per non perdere il treno dell'ingresso nel club del Consiglio di Sicurezza. Questo sarebbe per qualunque maggioranza un obiettivo politico serio, ma sul tavolo della Sentinelli è appena arrivato un dossier intitolato «La Cooperazione del governo che verrà» che sembra avere ben poco a che fare con i temi umanitari e molto con gli assetti di potere nella Farnesina. Il documento è firmato da operatori italiani che lavorano in organismi dell'Onu, ma i veri ispiratori sono tre dipendenti che lavorano all'Unità tecnica centrale (Utc) della Cooperazione allo Sviluppo della Farnesina: Luciano Carrino, Lodovica Longinotti e Bianca Pomeranzi. Sono loro a esprimersi sulla bontà dei progetti e sono loro a svolgere un ruolo determinante nella destinazione dei «contributi volontari» alle organizzazioni internazionali legate alle Nazioni Unite, in particolare al network del United Nations Development Programme (Undp). Sulla voce «contributi volontari» il precedente governo aveva messo una lente: tali organizzazioni infatti raccolgono i contributi ma non presentano mai i rendiconti. Situazione singolare che il sottosegretario Alfredo Mantica aveva dipinto così: «C'è un mondo di consulenti e professionisti che gravitano intorno al ministero degli Esteri e che hanno tutto l'interesse a mantenere buoni rapporti con le Nazioni Unite». L'assenza dell'obbligo di presentare i conti è stata criticata anche dallo stesso presidente delle Ong italiane, Sergio Marelli: «C'è una forte carenza di strumenti di monitoraggio». Di fronte a tanta opacità il ministero degli Esteri il 16 febbraio scorso aveva ridotto con una delibera i contributi volontari del 70 per cento e scelto di destinare le risorse alle organizzazioni internazionali più piccole. Nonostante in Italia fosse stato il solo manifesto a trattare la questione con enfasi, la faccenda attraverso una rete italiana di informatori molto interessati è arrivata sulla scrivania del segretario generale dell'Onu Kofi Annan che il 2 marzo scorso scriveva all'ambasciatore italiano presso l'Onu, Marcello Spadafora: «Scrivo per esprimere la mia profonda preoccupazione riguardo la possibilità che il suo governo possa decidere di ridurre o di eliminare totalmente i suoi contributi volontari ai Fondi e ai Programmi delle Nazioni Unite nel 2006». L'assist di Annan serviva alla sinistra cooperante per marchiare la scelta del governo come «americana» e dunque contraria allo spirito del multilateralismo. Questo è infatti il filo conduttore del dossier all'attenzione del viceministro Sentinelli che denuncia «il bilatelarismo, sempre più aggressivo, rozzo e dipendente dalle scelte dei Paesi più forti all'origine della crisi attuale della Cooperazione». L'obiettivo del documento è chiarissimo: ingranare la retromarcia sullo stop ai contributi volontari che la Farnesina versa ai poco trasparenti organismi dell'Onu Così un gruppo di «onusiani» sta cercando di condizionare la politica estera italiana e la Sentinelli, quando parla di valorizzare la «struttura tecnica della Farnesina» sembra essere sulla loro scia. Mentre Massimo D'Alema a Vienna cerca di barcamenarsi nel difficile compito di apparire di sinistra senza scontentare gli alleati e Israele (dall'Irak alla questione palestinese), la Sentinelli può liberamente muoversi e sfoggiare programmi in libertà fino ad affermare che bisogna portare i fondi per la Cooperazione allo 0, 7 per cento del prodotto interno lordo. Sarebbe una cifra pari a circa 8 miliardi di euro, peccato che il solo bilancio della Cooperazione attualmente sia di 382 milioni di euro. Con i contributi delle altre istituzioni si arriva a circa 1,2 miliardi di euro. Mancano ancora due di miliardi di euro per raggiungere l'obbiettivo (impossibile) del rapporto aiuti/Pil pari allo 0,33%. Tanto per fare un paragone, nel bilancio di previsione della Difesa per il 2006 la sola “funzione difesa” (esercito, marina e aeronautica) ha bisogno di risorse per circa 12 miliardi di euro. E non bastano. Abbiamo l'impressione che la Sentinelli abbia bisogno di una calcolatrice e di qualche rudimento di politica estera. Riuscirà il ministro Massimo D'Alema a riportarla sulla terra?

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