Ingerenza umanitaria e atlantismo
buoni consigli al ministro degli Esteri italiano
Testata:
Data: 18/05/2006
Pagina: 2
Autore: Christian Rocca - Marta Dassù
Titolo: Promemoria per il ministro degli Esteri scritto dall'onorevole D'Alema - Ora l’Unione si ispiri al metodo Merkel

Dal FOGLIO  di giovedì 18 maggio 2006:

Con Massimo D’Alema alla Farnesina c’è finalmente la possibilità di tornare a una politica estera italiana bipartisan, come ai tempi del Kosovo e dell’Albania, e incentrata sulla promozione della democrazia dove ancora non c’è. Questa politica estera è stata l’unico punto intorno al quale si è trovata una convergenza tra destra e sinistra, su cui si è registrata una seria continuità d’azione tra il governo D’Alema, l’allora opposizione berlusconiana e i cinque anni del centrodestra a Palazzo Chigi. La linea è quella dell’internazionalismo liberale che da Blair a Clinton, fino a Bush e Berlusconi, ha caratterizzato la reazione occidentale al genocidio in Ruanda, alla pulizia etnica in Bosnia e, da ultimo, all’offensiva islamista e terrorista. Non sarà facile per il ministro D’Alema far tornare la sinistra italiana su quel binario democratico, ma se non ci riuscirà lui – che ne fu protagonista – difficilmente ci potrà riuscire qualcun altro. L’editorialista americano Christopher Caldwell ha ricordato sul Foglio che Tony Blair, Madeleine Albright e il Massimo D’Alema premier italiano del 1999 sono stati teorici del diritto-dovere di ingerenza geoumanitaria negli affari interni di uno stato sovrano, anche in assenza di copertura legale dell’Onu. Quella dottrina interventista varata dall’Ulivo mondiale è stata, secondo molti osservatori, la ragione intellettuale alla base dell’invasione dell’Iraq. Il dalemismo d’opposizione, per calcolo politico, ha deciso di metterla da parte, scegliendo di cavalcare l’onda pacifista in funzione antiberlusconiana, ma sono più d’uno i segnali che non sia stata del tutto spazzata via. La situazione politica internazionale, peraltro, rende più probabile un ritorno al D’Alema 1999, piuttosto che la conferma del D’Alema d’opposizione. A Londra c’è ancora Blair, e sui temi di politica estera i suoi avversari conservatori sono ancora più blairiani di lui. A Berlino è cambiata l’aria, mentre a Parigi l’era Chirac volge al termine e si preannuncia un Eliseo conteso dal filoamericano Sarkozy e dalla blairiana Royal. Pur tra mille difficoltà, soprattutto di politica interna, Bush ha davanti a sé più di due anni e mezzo di governo (quasi quanto l’intera presidenza Kennedy) e in America sia sul fronte repubblicano sia su quello democratico non s’intravedono grandi cambiamenti di rotta. D’Alema è un politico realista, di tutto ciò dovrà tenere conto. Sbagliano i rappresentanti della comunità ebraica a impiccare il leader diessino alle sue infauste “aperture” a Hamas o alle sue battute antisioniste. E’ vero che non sarà facile distaccarsi da sentimenti così diffusi nella maggioranza di governo e da lui stesso alimentati, ma forse è più utile ricordare al ministro degli Esteri le dichiarazioni migliori, piuttosto che le altre. “Scegliamo di mettere al centro dell’azione dell’Italia la promozione della democrazia, dei diritti umani, politici, sociali ed economici, a cominciare dai diritti delle donne”, si legge nel programma dell’Unione. E’ un buon punto di partenza, di piena continuità ideale con la linea Blair-Clinton-D’Alema diventata nel corso degli anni Blair-Bush-Berlusconi. Il ministro D’Alema è il più attrezzato per riprendere quel filo. Del resto, malgrado l’opposizione all’intervento in Iraq, D’Alema è stato uno dei primi politici mondiali a incontrare i nuovi leader democratici iracheni, anche se dopo quei colloqui è seguita soltanto indifferenza per i curdi e per gli sciiti liberati da Saddam. D’Alema, inoltre, è stato uno dei pochi del suo schieramento ad aver provato a rendere presentabile la dottrina che fonda la sicurezza internazionale sulla promozione della democrazia: “Questa idea è giusta e deve essere considerata come il terreno di una sfida positiva”, disse D’Alema qualche tempo fa. L’anno scorso aggiunse che “se si vuole perseguire con successo una strategia di espansione della democrazia e dei diritti umani, questo significa non escludere il tema del ricorso alla forza. E’ impensabile che oggi davanti al disordine del mondo si possa escludere la possibilità estrema di un ricorso all’uso della forza”. Parole arricchite da un ripensamento anche sul “multilateralismo che non sia una condivisione dell’impotenza, che non sia semplicemente il mantenimento di uno status quo, ma un sistema efficace in grado di intervenire attivamente nelle crisi economiche e per la difesa dei diritti umani, non accettando i vincoli di una visione ottocentesca delle sovranità nazionali”. In queste parole di D’Alema c’è il promemoria per il nuovo ministro, ma anche il succo di una politica estera moderna, bipartisan perché liberale e di sinistra.

Dal RIFORMISTA, un articolo di Marta Dassù che fornisce interessanti consigli sulla politica estera italiana, ma scrive "politica di Tel Aviv" e non, come sarebbe corretto, "di Gerusalemme":

Storicamente, il rapporto dell’Italia con gli Stati Uniti è stato visto e vissuto come chiave essenziale della legittimazione delle nostre classi dirigenti. Con la fine della guerra fredda, questo assioma non è più vero, né in Italia né nel resto d’Europa. Si potrebbe anzi argomentare - guardando agli effetti “domestici” della crisi transatlantica del 2003 - che la scelta di un rapporto privilegiato con l’amministrazione Bush sull’Iraq ha più penalizzato che avvantaggiato le leadership europee filo-atlantiche. Dopo tutto, a tre anni dalla famosa spaccatura fra “vecchia” e “nuova” Europa, Aznar e Berlusconi hanno perso il governo mentre Blair è in chiara difficoltà. Ma una lettura del genere sarebbe forzata: anche il coprotagonista della “vecchia” Europa è nel frattempo uscito di scena (Schröder, che pure aveva vinto le elezioni del 2002 su una piattaforma pacifista) mentre la sua anima ispiratrice - il duo Chirac/de Villepin - vive tempi difficilissimi.
Il metodo Merkel. Guardando in modo più distaccato al ciclo elettorale europeo degli ultimi tre anni,le conclusioni possibili devono essere altre. La prima è che il rapporto con Washington diventa rilevante, ai fini interni, solo in casi di ricorso controverso alla forza: da questo punto di vista, il potere lacerante dell’Iraq è più o meno esaurito mentre è sull’Iran che potrebbe aprirsi una nuova crisi transatlantica.Seconda conclusione possibile:se un rapporto solido con gli Stati Uniti non è più indispensabile per vincere le elezioni, resta necessario per governare con successo.Interessi economici e rapporti di sicurezza ne fanno un ingrediente indispensabile di una politica estera che funzioni.È quella che potremmo già definire la “formula” di Angela Merkel. E che dovrebbe diventare,con una serie di aggiustamenti nazionali, anche la formula del nuovo governo italiano. Esiste un metodo Merkel nei rapporti con gli Stati Uniti? Se guardiamo a questi primi mesi, verrebbe da rispondere di sì.È un metodo fondato su una premessa e quattro punti. La premessa è che nessuna posizione sarà credibile senza avere sgombrato il campo - cosa che il cancelliere tedesco ha fatto subito - da una specie di grande equivoco: non è vero che europeismo e atlantismo siano diventati incompatibili.Ogni volta che un grande paese europeo assume una posizione del genere, è l’Unione europea nel suo insieme a diventare debole o inesistente, come appunto è accaduto nel 2003. Lo stesso vale,d’altra parte,per gli Stati Uniti: ogni volta che l’America ha ritenuto di potere spaccare o marginalizzare l’Europa, Washington ha perso appoggi diplomatici fondamentali.Se la premessa è che la tradizione resta valida - fa parte della migliore tradizione delle politiche estere di Italia e Germania cercare di combinare europeismo e atlantismo - ciò non esclude necessari aggiornamenti.Vediamone i quattro punti, adattati al caso italiano. Primo punto. Gli europei hanno potere contrattuale, nelle relazioni con Washington, solo quando i Grandi procedono uniti, tirandosi dietro l’Ue.Qui, il problema dell’Italia è chiaramente quello posto dalla trattativa con l’Iran: un formato negoziale che ci esclude. Dal punto di vista italiano,è probabilmente illusorio pensare di potere rientrare nel gruppo dei Tre (UE-3).Meglio puntare su un ruolo accresciuto del G-8, nel meccanismo di incentivi e disincentivi economici rivolti a Teheran; e sulla sopravvivenza della Nato come foro e strumento di sicurezza. Secondo punto. Un buon rapporto con gli Stati Uniti non significa un rapporto passivo o subalterno quanto a posizioni negoziali. Di nuovo nel caso dell’Iran, la Germania ha cercato di mediare fra Stati Uniti e Russia,con una proposta negoziale che l’Italia avrebbe interesse a rafforzare e che include la prospettiva di rapporti diretti fra Washington e Teheran.Sul fronte delle relazioni con Mosca,il metodo Merkel conduce a riequilibrare l’eccesso di vicinanza tenuto da Schröder;ma anche a smussare le punte polemiche di Washington, nel tentativo di salvaguardare gli interessi di sicurezza europei, anzitutto in campo energetico. Sul delicato nodo di Hamas, la posizione di compromesso appena immaginata a New York - un meccanismo internazionale che permetta aiuti diretti - consente di non drammatizzare la distanza con gli Stati Uniti.Nell’insieme,è una qualcosa di simile a una divisione del lavoro. Terzo punto. La crisi transatlantica del 2003 va lasciata alle spalle:guardando al fronte mediorientale, sia Parigi che Berlino sono interessati a salvare il salvabile in Iraq, mentre agiscono di conserva con Washington sul fronte libanese e iraniano.Per l’Italia, questo significa gestire il ritiro nel modo migliore possibile (all’olandese, più che alla spagnola) e insieme tentare di “europeizzare” il resto della politica medio-orientale. Deve essere escluso che il ritiro dall’Iraq sia solo il primo passo di un disimpegno italiano dalle missioni internazionali: sarebbe un auto-isolazionismo suicida, condito da una buona dose di velleitarismo sul “ruolo civile” dell’Italia nel mondo. Se rinunciasse al prestigio conquistato nelle missioni internazionali, e con sacrifici di vite umane, l’Italia perderebbe credito:nel sistema Onu,in Europa e nella Nato. Condizione di un approccio europeo agli scenari mediorientali, è anche un’apertura intelligente a Israele. La politica unilaterale di Tel Aviv va capita nelle sue motivazioni di sicurezza, piuttosto che demonizzata. Per almeno una fase, si tratterà di “conflict management”, piuttosto che “conflict resolution”: l’impegno europeo deve contribuire a fare in modo che la prima tappa favorisca, invece di precludere, la seconda. Quarto punto. Tutto questo non impedisce di esprimere le divergenze esistenti e future: le parole di Angela Merkel su Guantanamo, in occasione della prima visita a Bush,restano una indicazione in questo senso.Ma è un punto che vale solo in quanto valgano gli altri. È solo all’interno di un rapporto di fiducia che le critiche diventano costruttive,non distruttive. Una strategia globale. Sono punti schematici ma da cui trarre una conclusione, perlomeno di atteggiamento: cessiamo di preoccuparci del problema degli Stati Uniti in chiave di politica interna (o,peggio,interna alla sinistra);cominciamo a preoccuparci del rapporto transatlantico quale parte della strategia internazionale di un paese, il nostro, che come la Germania ha un interesse essenziale a impedire che l’Europa si divida proprio sul tema della relazione con gli Stati Uniti.Venendo da sponde opposte,rispetto alla rottura del 2003, Italia e Germania hanno interesse a convergere su una traiettoria simile: rapporto di fiducia con Washington; convinzione che coesione europea e rapporti transatlantici siano complementari; tentativi di proporre soluzioni negoziali. Il governo Berlusconi ha giocato tutto sul primo punto;ma sacrificando i secondi due. Il governo Prodi può promuovere i due ultimi punti, ma non deve perdere il primo. Un aiuto verrà dal clima generale dei rapporti Europa-Usa,migliore che nel 2003;ma esistono rischi - la gestione del braccio di ferro con l’Iran,anzitutto - che potrebbero fare precipitare una nuova crisi transatlantica. Il ghiaccio è sottile; all’Italia non conviene affatto che si rompa.

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