Trattare con Hamas e finanziarla ; é l'appello lanciato dal palestinese Sari Nusseibeh dalle pagine dell'UNITA' di lunedì 15 maggio 2006.
Occorre ribadire per l'ennesima volta che l'assistenza umanitaria ai palestinesi non passa necessariamente dal finanziamento del governo islamista e terrorista di Hamas. Al contrario, dare soldi a quest'ultimo é un modo sicuro per incoraggiarne l'intransigenza antisraeliana ( perché modificare una condotta politica che non comporta alcun svantaggio?) e per sostenere le attività terroristiche che segretamente promuovere che in futuro potrebbe riprendere in modo aperto.
Ecco il testo:
«AL NUOVO GOVERNO italiano chiedo saggezza e lungimiranza. Il muro contro muro nei confronti di Hamas non serve alla causa della pace ma finisce solo per ali-
mentare rabbia, sofferenza, frustrazione tra la gente dei Territori. Al nuovo governo italiano chiedo di farsi protagonista di una solidarietà concreta che scongiuri un disastro umanitario ed eviti una guerra civile nei Territori. Solidarietà concreta e capacità di mediazione: è quanto mi sento di chiedere all'Europa. Non mi illudo più di tanto in una conversione pragmatica di Hamas, ma occorre dare il tempo necessario ai palestinesi per rendersi pienamente conto dell'errore commesso nel votare Hamas e prepararsi ad una inversione di marcia nelle nuove elezioni». A parlare è Sari Nusseibeh, rettore dell'Università Al-Quds di Gerusalemme Est, il più autorevole intellettuale palestinese.
Esiste davvero il pericolo di un disastro umanitario nei Territori?
«Questo disastro in parte è già in atto. Ed è un disastro non solo umanitario, ma anche politico e intellettuale…».
Intellettuale?
«Sì, intellettuale. Le casse dell'Anp sono vuote, e ciò comporta il mancato finanziamento per le istituzioni universitarie. Penso all’università di cui sono rettore: noi professori non percepiamo gli stipendi da tre mesi. Ancora peggio sono messi gli studenti che non hanno la possibilità di pagare le tasse o di ricevere sussidi da parte dell’Autorità palestinese. Da sempre sono convinto che la cultura sia il migliore antidoto alla demonizzazione dell'altro da sé. E la pace tra israeliani e palestinesi passa anche attraverso una reciproca contaminazione culturale. Strangolare economicamente le università palestinesi significa tarpare le ali alla possibilità di sviluppare un fecondo dialogo dal basso, fondato per l'appunto sulla conoscenza reciproca».
Lei è dunque contrario alla politica del blocco degli aiuti all'Anp decisa da Stati Uniti ed Europa?
«Non discuto le ragioni di questa decisione, ma ne constatato gli effetti concreti. Tutti negativi. Negativi sul piano delle condizioni materiali di vita per decine di migliaia di famiglie, pesantemente negativi per ciò che concerne l’assistenza sanitaria, ma negativi anche sul piano politico, perché non è con la politica del muro contro muro che si sconfigge Hamas…».
Quale può essere l'alternativa e cosa si sente di chiedere all'Europa?
«All'Europa chiedo di esercitare una intelligente opera di mediazione che dia ai palestinesi il tempo necessario per rendersi conto dell'errore commesso nel votare Hamas e di preparare una rivincita democratica attraverso nuove e libere elezioni».
E nell'immediato? Cosa si sente di chiedere al nuovo governo italiano e al premier in pectore Romano Prodi?
«Di seguire l'esempio della Norvegia, raddoppiando il contributo economico dell'Italia ad agenzie umanitarie come l'Unrwa (l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi, ndr.) che agiscono nei campi profughi. La solidarietà concreta è un valore in sé che va praticato, che qualifica una politica di pace. Lei sa bene quanto sia lontano, sul piano politico, intellettuale, culturale a Hamas, ed è proprio perchè ne sono distante posso dire senza essere accusato di collusione che non è accettabile tagliare fondi se non si accettano le posizioni di un governo».
Dare tempo ai palestinesi per maturare una scelta elettorale diversa. È una prospettiva realistica?
«Credo proprio di sì. Vede, la maggioranza dei palestinesi ha espresso con il voto la propria contrarietà al modo con cui Al-Fatah ha amministrato i Territori e per una conduzione dei negoziati di pace, a partire dagli accordi di Oslo, che non ha impedito a Israele di proseguire la sua politica di colonizzazione dei Territori; con l'arma del voto si voleva dare una lezione alla vecchia classe dirigente più che sostenere la politica di Hamas. In molti tra quelli che hanno votato per Hamas, mi creda, sono rimasti spiazzati dal successo degli islamici. Ora si stanno ricredendo. Il "regno" di Hamas non durerà a lungo».
Quella dell'UNITA' sembra comunque una vera e propria campagna, sia pure non moto visibile, per l'apertura di credito ad Hamas.
Domenica , minimizzando il rifiuto opposto dall'organizzazione islamista alle proposte, per altro lontane dal costituire una via praticabile al dialogo con Israele, di Marwan Barghouti, l'articolo "Hamas e Fatah l'accordo c'è ma dietro le sbarre" ( a pagina 14) ipotizzava una convergenza tra i due gruppi terroristici nella direzione di una per ora inesistente "apertura" comune a Israele.
Ecco il testo:
UN DOCUMENTO COMUNE. Elaborato dal «fronte delle carceri». Un appello congiunto all’unità fra le due fazioni palestinesi rivali con l’obiettivo di creare uno Stato palestinese con Gerusalemme capitale sui territori occupati nel 1967. Le prime firme sono di
due protagonisti della seconda Intifada: Marwan Barghuti, leader di Al Fatah in Cisgiordania, e Habed al Halek Natshe, dirigente di Hamas. Entrambi sono deputati nel parlamento palestinese e detenuti nel carcere di massima sicurezza israeliano di Hadarim. «Il popolo palestinese, in patria e nella diaspora, aspira a liberare la sua terra e a realizzare l’autodeterminazione, compresa l’istituzione di uno Stato indipendente su tutti i territori occupati nel 1967, e ad assicurare il diritto al ritorno dei rifugiati e la liberazione dei detenuti», recita il comunicato. L’appello all’unità è accolto da Ismail Haniyeh. Il primo ministro palestinese considera «importante» l’appello comune dei detenuti del Fatah e di Hamas, e promette di esaminarlo a fondo. «Il documento contiene contiene punti molto importanti e utili che contribuiranno a rimuovere alcuni ostacoli». Un giudizio positivo viene espresso anche dal presidente dell’Anp: «Si tratta di un contributo importante per rafforzare l’unità politica del popolo palestinese», afferma Abu Mazen. Il testo, messo a punto in un mese di negoziati, esorta all’unità fra le due fazioni rivali palestinesi ma soprattutto, annotano gli annalisti politici palestinesi, si pone come obiettivo la costruzione di uno Stato aplestinese «sui territori occupati nel 1967». La mancata rivendicazione del territorio su cui sorge Israele appare come un implicito riconoscimento delal sua esistenza e quindi segna un importante passo in avanti rispetto alla formula finora usata da Hamas di uno Stato «dal fiume al mare».
Prove di «disgelo» che riguardano anche il (non) rapporto fra Hamas e Israele. Dal Cairo, il ministro della Sanità palestinese annuncia che Hamas è pronto a discutere con Israele per porre fine alla crisi umanitaria nei Territori, ma puntualizza che ciò non implica il riconoscimento dello Stato ebraico. «In quanto popolo occupato, siamo pronti a discutere con tutte le parti per poter ricevere aiuti», dichiara Bassem Naim ai giornalisti dopo un incontro con il segretario generale della Lega Araba, Amr Mussa. «Ciò non vuol dire che noi riconosciamo l’occupante, ma tratteremo con la controparte come popolo occupato», aggiunge. L’Anp si trova in una grave crisi finanziaria in seguito alla decisione della Ue e degli Usa di sospendere gli aiuti diretti, dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni politiche del 25 gennaio. Secondo Naim, il ministero della Sanità palestinese ha bisogno di aiuti urgenti pari a 4,3 milioni di dollari per continuare a garantire l’assistenza medica.
Dal dialogo possibile agli scontri reali. Come quelli scatenatisi ieri fra dimostranti e polizia israeliana durante una manifestazione contro la costituzione della «barriera di sicurezza» a Al-Ram, alla periferia di Gerusalemme. Alla manifestazione hanno partecipato circa 2mila palestinesi e 150 pacifisti israeliani. La polizia ha lanciato gas lacrimogeni e sparato pallottole di gomma per allontanare i dimostranti dal cantiere del «muro», in costruzione nell’area.
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