Famiglia Cristiana nel numero on line del 9 aprile pubblica un articolo
intitolato “Sul filo della pace” a firma Guglielmo Sasinini.Il giornalista analizza correttamente il panorama politico mediorientale che si è venuto a delineare dopo le recenti elezioni israeliane, evidenziando in maniera precisa lo scenario e gli obiettivi in tema di economia e di sicurezza che il nuovo premier dovrà affrontare. Il giornalista inoltre non nasconde la grave minaccia che rappresenta per la pace, e che peserà nei futuri rapporti con i palestinesi, la recente elezione al governo dell’ANP di una formazione terroristica, Hamas, che ha fatto degli attentati kamikaze il suo biglietto da visita e che a tutt’ oggi si rifiuta di riconoscere Israele.
Olmert non può "attendere una telefonata dagli arabi" come Moshe Dayan nel
1967. I tempi sono cambiati e il suo partito deve cercare un difficile
dialogo con i palestinesi.
Uscito vincitore dalle elezioni, Ehud Olmert deve dimostrare che il suo
Kadima, assieme ai laburisti e a due partiti religiosi, è in grado di
governare Israele e di condurlo verso lidi sicuri. Una rotta che si
annuncia non proprio lineare, né tranquilla, visto che Olmert pone la
condizione che ogni coalizione governativa possibile dovrà annunciare la
propria disponibilità a parlare con qualunque soggetto palestinese che
propugni un accordo basato sulla soluzione: "due popoli-due Stati".
Israele non ha alcun interesse ad abbassare il livello delle richieste al
di sotto di quella soglia proposta dallo stesso presidente palestinese
Mohmoud Abbas (Abu Mazen): riconoscimento di tutti i precedenti accordi
con
Israele, compresa la fine della lotta armata. I partiti israeliani
premiati
dagli elettori devono compiere uno sforzo serio nel senso di una mossa
diplomatica che conduca a un accordo di pace e alla fine del conflitto.
La proposta di Kadima, sostenuta dai partiti alla sua sinistra, di attuare
un ritiro unilaterale dalla maggior parte della Cisgiordania, il che
vorrebbe dire l’evacuazione di 80.000 coloni, non sembra una soluzione
privilegiata, quanto piuttosto un’opzione da intraprendere nel caso appaia
chiaro che non vi sono possibilità di accordo.
L’attentato di giovedì 30 marzo, all’ingresso dell’insediamento di
Kedumim,
nel Nord della Cisgiordania, rivendicato da una fazione delle Brigate Al
Aqsa, legate ad al-Fatah del presidente Abu Mazen, certamente non aiuta.
Così come non favoriscono il dialogo le dichiarazioni che giungono da
Hamas, oggi alla guida del Governo palestinese, tipo quella del
neoministro
degli Esteri Mahmud Zahar, che ha accusato gli Stati Uniti di «attuare la
linea di sempre, commettendo dei crimini enormi contro i Paesi arabi e
islamici, aumentando la divisione che esiste tra il popolo e gli interessi
americani e il Medio Oriente».
Zahar si è rivolto in particolare alle nazioni da cui arriva larga parte
del miliardo e 900 milioni di dollari che costituiscono il budget
dell’Autorità palestinese, avvertendo che le eventuali donazioni «non ci
faranno piegare la testa di fronte ai nostri prevalenti interessi
nazionali. Se il flusso economico si interromperà ci rivolgeremo
all’Africa, ai Paesi asiatici, Cina compresa, e al continente
sudamericano». Il leader di Hamas in esilio, Khaled Meshal, tanto per non
lasciare spazio alle dichiarazioni di Abu Mazen in favore della vittoria
di Kadima e del nuovo Governo israeliano, da Beirut ha detto: «La resistenza
palestinese è una scelta strategica e la eserciteremo in tutte le sue
forme».
L’ultima doccia fredda è giunta dal segretario di Stato Usa, Condoleezza
Rice: «Tutti vorremmo una soluzione negoziata della crisi
israelo-palestinese, questo è l’obiettivo della road map. Tuttavia per
negoziare ci vogliono dei partner autorevoli e il Governo palestinese
appena insediatosi non accetta il principio di una soluzione negoziata».
Gli israeliani, che hanno decretato la vittoria di Kadima, hanno votato
avendo in mente le idee e le aspirazioni del "grande papà" Ariel Sharon:
adesso vogliono vedere come se la caverà Ehud Olmert alle prese con
l’intransigenza di Hamas, che per il momento non ha ritrattato di una
virgola il suo obiettivo di distruggere Israele e non ha nemmeno iniziato
ad adeguarsi ai princìpi internazionali: fine del terrorismo,
riconoscimento di Israele e degli accordi precedenti siglati da Arafat.
Sul terreno, dopo la vittoria elettorale di Hamas, i tentativi di
attentati
sono aumentati: più di 80 terroristi sono stati intercettati, circa
quaranta ordigni sono stati piazzati lungo la barriera difensiva attorno
alla Striscia di Gaza, decine di missili Qassam sono stati lanciati contro
insediamenti israeliani.
Tzipi Livni, ministro degli Esteri israeliano, a questo proposito è molto
chiara: «Il nuovo Governo israeliano nasce all’insegna della massima
apertura nei confronti dei palestinesi. È chiaro a tutti, come spiegò
Ariel
Sharon, che è giunto il tempo delle rinunce e dei sacrifici, ma è
altrettanto chiaro che se il Governo di Hamas vuole essere riconosciuto,
non solo deve prendere le distanze dal terrorismo, come fece Arafat a suo
tempo, ma deve anche abbandonare il suo "diritto" di attaccare Israele a
piacimento e impedire fisicamente a tutti gli altri gruppi palestinesi di
farlo. Se la comunità internazionale intende perseguire seriamente la pace
deve attenersi alle proprie richieste, senza cedimenti, anche se questo
volesse dire attendere parecchio tempo che Hamas cambi, o che venga
rimossa
dal potere».
Uzi Benziman, autorevole storico e opinionista del quotidiano Ha’aretz,
racconta: «Poco dopo la fine dei combattimenti della guerra dei sei giorni
(1967, ndr.) l’allora ministro della Difesa israeliano, Moshe Dayan, fu
intervistato dalla Bbc. La risposta che Dayan diede a una domanda su che
cosa Israele si aspettasse, a quel punto, dai suoi vicini risuona ancora
oggi di grande attualità: «Aspettiamo una telefonata dagli arabi».
«Oggi», prosegue Uzi Benziman, «è il tempo di cambiare quel messaggio e
iniziare a compiere passi concreti verso una separazione dei territori che
finirono sotto controllo israeliano con quella guerra. Le elezioni sono
state, viste in retrospettiva, una sorta di referendum sul piano del
disimpegno e del consolidamento. Si può dire che la voce del popolo si è
fatta sentire: gli israeliani preferiscono la pace ai territori occupati.
E se la pace non è un’opzione realistica, allora preferiscono un periodo di
tregua fondato sulla deterrenza, che permetta allo Stato di indirizzare
risorse nella promozione del welfare e della qualità della vita dei
cittadini. Non è più tempo di puntare i piedi: il principale compito del
nuovo Governo è quello di fare passi che conducano a una separazione dei
territori. Innanzitutto deve smettere di "aspettare una telefonata" da
Hamas. Anziché stare fermo e aspettare di vedere che cosa accade
all’Autorità palestinese nell’attesa che vengano accolte le condizioni
necessarie, il nuovo Governo israeliano deve prendere l’iniziativa e
modificare concretamente i rapporti fra Israele e i palestinesi».
Uzi Benziman porta una ventata di saggezza e di realismo nel calderone
delle alchimie politiche che vedono una Knesset (il Parlamento israeliano)
fortemente dominata da Kadima e laburisti, ma che non disdegna di
occhieggiare verso i partiti religiosi e persino in direzione del partito
dei russi di Lieberman, così da avere una coalizione più vasta che non
lasci alcuna speranza al tramortito Likud di Benjamin Netanyahu. Il voto
ha anche stravolto la demografia della Knesset, un terzo dei 120 parlamentari
è formato da religiosi, le donne sono scese da 21 a 17; sono stati eletti
12 generali in pensione e due ex capi dei servizi segreti: Avi Dichter
(Kadima) e Ami Ayalon (Laburisti).
Amir Peretz, il leader laburista che fino all’ultimo ha temuto un
"ribaltone", ora punta deciso al ministero delle Finanze. La crisi che
attanaglia Israele induce a pensare che quello della ripresa economica sia
un argomento non meno rilevante della sicurezza nazionale.
Nel tentativo di rafforzare la linea moderata di Abu Mazen e di far sì che
il presidente dell’Autorità palestinese possa portare a più miti consigli
quanto meno i più moderati di Hamas, il "quartetto" (Stati Uniti, Russia,
Nazioni Unite, Unione europea) si muove minacciando la linea dura, e
quindiil taglio degli aiuti internazionali, se i nuovi governanti palestinesi
non accetteranno di riprendere i negoziati di pace con Israele. L’ala dura del
movimento per il momento sembra avere il totale controllo della piazza
palestinese e ha ingaggiato con gli uomini di al-Fatah un pericoloso
braccio di ferro. L’attentato di Kedumim potrebbe essere letto però come
un’inversione di tendenza, potrebbe voler significare che le Brigate Al
Aqsa vogliono dimostrare che anche Hamas non è in grado di controllare le
fazioni. Un pericolo nel pericolo è proprio quello che le milizie palestinesi dei
due opposti schieramenti, Hamas da un lato, al-Fatah dall’altro, possano
decidere di ritornare ai vecchi metodi, quindi a un confronto di tipo
libanese, l’equivalente di una guerra civile. Se non si affermerà rapidamente una leadership palestinese non solo in grado di controllare
completamente la piazza, ma di far anche accettare il cambiamento dei
tempi e quindi la ripresa del dialogo con Israele, gli scenari ipotizzabili sono
tendenti al pessimo. Non a caso i leader dei coloni israeliani e la destra
del Likud hanno subito criticato Ehud Olmert e il suo progetto di ritiro
unilaterale, questa volta dalla Cisgiordania, dicendo che «l’atteggiamento
troppo morbido del Governo spinge i terroristi ad attaccare».
Nelle more del dopo voto in Israele vi sono altre indicazioni non
trascurabili. L’affluenza alle urne sempre più bassa, l’assenteismo dei
giovani, la tendenza verso il voto apolitico, che si è orientata verso il
partito dei pensionati, indicano una crescente insofferenza per la
politica e i politici, nessuno escluso. «I nuovi parlamentari», dice Uzi Benziman, «devono tenere in considerazione la continua perdita di fiducia dell’elettorato nei loro confronti. Sta a loro garantire che la prossima volta la Knesset sia più onesta dellaprecedente, e cercare di tenere fede alle promesse elettorali, prima fra tutte quella di tirare fuori Israele dalla Cisgiordania e definire i
confini. Compromessi su questa materia condurrebbero il Paese a nuove
elezioni ravvicinate».
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