Verso le elezioni in Israele
le ipotesi di coalizione, i nuovi leader emergenti,i sostenitori di Kadima
Testata:
Data: 21/03/2006
Pagina: 5
Autore: Anna Momigliano - Jacopo Tondelli - la redazione
Titolo: Lady Kadima: "ci serve un governo di unità nazionale" - La vera sfida del 28. Olmert cerca alleati -Una sera con i fan di Kadima, che hanno un debole per Livni
Dal RIFORMISTA di martedì 21 marzo 2006 un'intervista di Anna Momigliano a Marina Solodkin, viceministro dell'Immigrazione in Israele ed esponente del partito Kadima.
Ecco il testo:
Marina Solodkin è l'astro nascente di Kadima. Viceministro dell'immigrazione, una lunga e discreta carriera alla Knesset, fino a pochi mesi fa era quasi nessuno nella scena politica israeliana. Quando Ariel Sharon, subìto il voltafaccia del suo partito, decise di fondare un nuovo partito, la Solodkin fu l'unica tra i likudnik russofoni a passare dalla parte del generale, con buona pace di Natahn Sharansky e compagnia che avrebbero voluto tenere il fronte russo compatto - e dall'altra parte dalla barricata. Quando, all'indomani del tracollo della salute di Sharon, il delfino Ehud Olmert si trovò di colpo a capo di una formazione neonata e ancora fortemente divisa, con il compito di formare una lista elettorale, la Solodkin si presentò da lui e gli diede qualche dritta: per vincere, caro Ehud, hai bisogno dei voti russi, e io sono l'unica a poterli garantire. Poi dobbiamo puntare sulla sicurezza prima di tutto, mostrare i muscoli, e rimanere, per quanto possibile, una lista destra. Fu così che, al momento di formare le liste elettorali, la quasi nessuno Solodkin, scalzò dai loro posti personaggi del calibro del ministro della Difesa Shaul Mofaz, e s'insediò al sesto posto della nuova formazione centrista. Oggi Marina Solodkin, classe 1952, nata a Mosca e immigrata in Israele nel 1991, è la seconda donna più potente di Kadìma, insieme al ministro degli Esteri Tzipi Livni.
Perché Kadima. Tra i likudnik passati a Kadima, insieme all'ex segretario Likud Tzachi Hanegbi, la Solodkin è considerata uno dei più conservatori. In molti si aspettavano che avrebbe seguito l'esempio degli altri parlamentari di origine russa, rimanendo fedele al buon vecchio partito di destra. Così non è stato. Così la Solodkin ci racconta la sua decisione: «Dieci anni fa sono stata eletta alla Knesset con il partito Israel B'aliya (letteralmente «Israele nell'immigrazione», punto di riferimento per i migranti dall'ex blocco sovietico, Ndr) insieme a Natan Sharansky e nel 2003, quando abbiamo raggiunto solo due seggi, ci siamo fusi con il Likud. Quando Sharon ha deciso di fondare Kadìma non ho avuto dubbi: io sono una “right wing liberal” e sapevo che dovevo seguire lui se volevo continuare a lavorare in un partito di destra liberale e pragmatica. Credo fermamente nella necessità di proseguire il disengagement, e soprattutto di fare una politica dove la sicurezza sia la priorità assoluta. Sharansky e gli altri ex di Israel B'aliyah sono rimasti col Likud, ma io preferisco una formazione pragmatica che scelga di vivere con la realtà e non con il sogno, che si tratti di una grande Israele o di altro».
Scenari di coalizione.Le sorti delle elezioni sembrano già scontate: i sondaggi danno Kadima con un ampio vantaggio, con previsioni che oscillano tra i 38 e i 42 seggi su 120. Persino il leader laburista Amir Peretz ha ammesso in un'intervista a Haaretz che ora l'obiettivo del suo partito è quello di battere il Likud, raggiungere il secondo posto e diventare il partner principale di Kadima per una coalizione. «Noi abbiamo messo in chiaro che siamo disposti a una coalizione, non solo con il Labour, ma anche con il Likud», racconta Marina Solodkin al Riformista, «e con qualsiasi altro partito che sia disposto a formare una coalizione, naturalmente nel rispetto della legge israeliana che impedisce ai partiti antisionisti di governare. L'obiettivo è un governo di unità nazionale, perché avremo bisogno di una maggioranza quanto più solida possibile per affrontare i tempi duri che ci aspettano. Però non sarà facile formarne una. Vedremo, io mi auguro una coalizione con Labour e Likud, ma è anche probabile che faremo una coalizione con i laburisti e i partiti minori».
La sfida di Hamas. Il primo ministro Ehud Olmert ha ribadito più volte di non vedere in un'Autorità palestinese governata da Hamas un partner, e il ministro della Difesa Shaul Mofaz, anch'egli un suo compagno di partito, ha affermato l'intenzione di proseguire la campagna di omicidi mirati, anche contro i leader di Hamas. Lei non vede prospettive per futuri negoziati con l'Anp? «Hamas è un'organizzazione terrorista e non c'è proprio nulla di cui discutere con loro», commenta perentoria la Solodkin. «Ho notato che ultimamente la stampa europea si riferisce a loro con termini come “gruppo islamista”… altro che islamici, quelli sono terroristi e c'è una bella differenza, specialmente quando non vogliono cambiare quel loro statuto che, detto per inciso, parla della distruzione d'Israele come raion d'etre del “movimento”».
Fino a prova contraria, Abu Mazen è ancora il presidente dell'Anp. E il recente assedio di Gerico, che ha portati molti voti a Kadima, non ha fatto che indebolirlo davanti alla sua gente... «Su Gerico preferisco non parlare», risponde la Solodkin, «comunque non sarebbe il mio campo. Quanto alla debolezza di Mahmoud Abbas, questi sono problemi politici interni dei palestinesi: per quel che mi riguarda il popolo ha scelto Hamas. E il punto della democrazia è esattamente questo: essere responsabile delle tue scelte. Quando sceglieranno di votare per qualcuno che rispetta la decisione dell'Onu, che dal 1948 ci riconosce il diritto di esistere, allora da questa scelta trarranno beneficio».
Diplomazia russa.Vladimir Putin sta facendo di tutto per proporsi come mediatore: la Russia è stato il primo paese non islamico a ricevere una delegazione di Hamas dopo le elezioni. «Mi sembra evidente che la Russia sta giocando il suo gioco, e prima o poi ne pagherà le conseguenze», commenta Marina Solodkin. E spiega: «Mosca sta intrattenendo relazioni amichevoli con Hamas, ma anche con l'Iran e la Siria - di questo si sente parlare forse meno, ma c'è un giro di accordi sugli armamenti quanto meno preoccupante».
Intende dire che l'interventismo del Cremlino non promette nulla di buono per Israele? E quali sono i benefici che ne trarrebbe Mosca? «Sono due questioni distinte. Quanto a Israele, il mio elettorato, le assicuro, è al cento per cento disgustato dal comportamento di Putin. Ci sono 1.3 milioni di israeliani nati in Russia, qui, e può immaginare come si siano sentiti quando Khaled Meshaal è atterrato a Mosca». E dal punto di vista del Cremlino? «Ora, il perché Putin si stia comportando così non c'è bisogno che glielo spieghi io: sta cercando di riaffermarsi come global player nel Medio Oriente. Solo che lo sta facendo nel modo più stupido: alla lunga finisce per giocare contro i suoi stessi interessi, perché sostiene quelle fazioni terroriste il cui sostegno, prima o poi, arriva ai terroristi ceceni e a altri gruppi che danno molto fastidio alla Russia. La Siria è uno dei principali sostenitori del terrorismo, e così l'Iran, poi i ceceni prendono soldi dai network internazionali terroristi, e il cerchio si chiude. Proprio l'altro giorno ho spiegato la stessa cosa in un'intervista a una sua collega russa. La storia insegna che giocare con un mostro si ritorce sempre contro noi stessi».
Non solo demografia. A proposito di immigrati: si sente spesso dire che Israele sta perdendo la battaglia demografica contro gli arabi e che l'arrivo di nuovi immigrati dall'ex Urss siano l'unica speranza per contrastare la crescita palestinese. «Non sono affatto d'accordo», obietta la Solodkin. «Il progetto di Kadima è quello di riportare Israele a dei confini definitivi, sicuri e difendibili di modo di portare avanti il progetto di uno stato democratico con una maggioranza ebraica. Entro questi confini la maggioranza ebraica non avrà bisogno di tenere il passo dei nostri vicini palestinesi: l'obiettivo non è vincere la battaglia demografica, l'obiettivo è porre fine alla battaglia demografica».
Poi c'è la questione delle donne: ho dato un'occhiata alla lista elettorale di Kadima, e notato che ci sono poche donne, ma quasi tutte in seggi blindati. «Il governo di Sharon è stato finora il governo in cui le donne hanno avuto più cariche importanti, naturalmente a parte il governo di Golda Meir», racconta Marina Solodkin. «Penso a Tzipi Livni alla Giustizia (ora agli Esteri) e Limor Livnat all'educaizone». Guardi che la Livnat vi ha traditi… «Sì, ma Kadima proseguirà nella tradizione di Sharon: avremo un sacco di donne nel prossimo governo». Naturalmente, a cominciare da lei.

Di seguito l'analisi di Jacopo Tondelli sulle possibili coalizioni del dopo elezioni

La vittoria pare già assegnata a Kadima, ma è sui nomi degli sconfitti che si gioca la scommessa più avvincente e politicamente decisiva per il futuro d'Israele, ormai giunto alla vigilia delle elezioni del 28 Marzo. Sono i riti e i quesiti del proporzionale puro e senza coalizioni stabilite, quelli che si impongono ad una settimana esatta dal voto, ora che gli orientamenti elettorali degli israeliani sono destinati a confrontarsi esclusivamente con una questione piuttosto lineare: chi vogliono, al governo, accanto a Kadima e a Ehud Olmert? Non è certo un caso che, per la fine della campagna elettorale, i vertici del partito fondato da Ariel Sharon abbiano lanciato un nuovo obiettivo. «Vogliamo 61 parlamentari», cioè la maggioranza assoluta dei 120 eletti, hanno chiesto agli israeliani. Data per scontata l'impossibilità del target dichiarato, non è difficile capire la vera ambizione di Olmert e dei suoi: un governo forte, saldamente guidato dal partito del premier e, soprattutto, costruito sulla base di una sola, solida alleanza. In altre parole, ai 61 membri della Knesset necessari a governare, Olmert vuole arrivare stringendo un patto di ferro con uno solo dei suoi avversari di oggi ed evitando, così, che i piccoli partiti possano esercitare il loro potere di ricatto, vera costante della politica israeliana negli ultimi decenni. Per fare questo Kadima ha bisogno di una grande affermazione, di un risultato vicino al 40 per cento dei voti e ai 45 deputati alla Knesset, da mettere in campo al momento della trattativa con il Likud di Netanyahu o – cosa assai più probabile – con il Nuovo Labour di Amir Peretz. Per essere in posizione di schiacciante superiorità all'interno della futura coalizione, da un lato, e perché una futura coalizione “bicolore” sia autosufficiente e non debba iniziare l'ennesima questua di voti con annessa distribuzione di poltrone e promesse, dall'altro.
Gli appetiti di chi si muove attorno ai tre grandi non sono peraltro nuovi né velati. Tanto che Eli Yishai, leader del partito ultraortodosso del proletariato sefardita Shas, ha già indicato nel professor Jochanan Stessman – un geriatra di fama, sorprendentemente ma certo non casualmente aschkenazita - il prossimo Ministro della Salute. Come a dire: qualunque coalizione passerà per lo Shas e il suo 10 per cento a pagare dazio, se vuole stare in piedi. Così è stato per tutti o quasi, negli ultimi decenni, e il tentativo di marginalizzare il partito religioso fondato da Rav Ovadia Yosef è in realtà un'interessante metafora delle istanze emergenti nella società israeliana, e del tentativo politico di darvi una risposta.
Lo Shas è infatti l'esempio più longevo e di successo di una tendenza ormai radicata nell'orizzonte politico dello Stato ebraico: la tutela particolaristica di interessi minoritari elevata a partito, spesso corredata da elementi identitari etnico-religiosi molto accesi. È certo il caso dello Shas, ma anche del partito di immigrati russi Yisrael Beitanu, o della composita galassia di partiti nazionalreligiosi che parlano ai coloni e ai loro voti. Ad aiutare questa spinta alla frammentazione ha certo contribuito anche il sistema elettorale, un proporzionale puro appena corretto da uno sbarramento al 2,5 %. Il risultato è noto: governi instabili, competizione accesa tra le diverse componenti delle coalizioni, incapacità di fatto di prendere decisioni importanti, quasi per definizione affidate puntualmente a soluzioni “di unità nazionale”.
Una situazione patologica, che Israele non può permettersi di fronte alle sfide che i prossimi anni impongono. Servirà infatti un governo solido ma dalla struttura politica essenziale per decidere, aldilà degli slogan, come guardare ad una Palestina colorata dal verde di Hamas. E sarà altrettanto necessaria una coalizione libera dai ricatti di pochi, se Olmert – come ha annunciato – davvero intende procedere a smantellare tutti o quasi gli insediamenti minori del West Bank, replicando il torrido agosto di Gaza. Ancora, sarebbe di peso il “welfare di partito” dello Shas, fatto di scuole e centri per militanti, quando il futuro governo d'Israele dovrà provare a porre rimedio alla più lunga e dolorosa crisi economica che lo Stato ebraico abbia mai conosciuto. Serve, infine, una classe politica cosciente dell'inarrestabilità dei processi di globalizzazione economica, per risolvere il cortocircuito logico di un paese leader mondiale nelle nuove tecnologie ma che ancora ostacola in modo deciso l'ingresso di capitali, banche e società straniere e multinazionali.
Questi sono i temi veri della campagna elettorale che volge al termine e, soprattutto, del governo che dalle urne è destinato a uscire. Sono, in realtà, temi decisivi per la costruzione di una nuova identità israeliana condivisa e non frammentata tra le diverse componenti sociali e religiose, capace di difendere il carattere ebraico dello Stato, ma senza rinunciare alla sua collocazione nelle vitali reti dell'occidente globalizzato. Problemi epocali, cui – pur senza garanzie di successo – solo un governo solido può dare risposte. Lo sapeva Sharon, lo sanno Ehud Olmert e Amir Peretz. Nelle mani dei cittadini israeliani, a questo punto, è la nascita o l'ennesimo rinvio della “seconda Repubblica” di Gerusalemme.
Dal FOGLIO un articolo sui sostenitori di Kadima:
Gerusalemme. “Kadima ken, Kadima ken”. E’ questo lo slogan che risuona nei rally preelettorali del partito fondato dall’ex premier israeliano, Ariel Sharon. “Sì a Kadima”, hanno cantato i tanti partecipanti all’evento di qualche sera fa al Vitraz Hall, a Ness Ziona, in una piccola città a sud di Tel Aviv. Palloncini blu e rossi, magliette, aria di festa, molti leader schierati per parlare, proporre, ricordare. Una serie di immagini di Sharon ha fatto il resto: Ariel con David Ben Gurion, Ariel con George W. Bush, Ariel con tanti capi di stato passati e presenti, e per finire Ariel che annuncia il suo nuovo progetto, il suo sogno di Kadima, il 21 novembre scorso. A una settimana dal voto – le elezioni si terranno il 28 marzo – il partito ora guidato dal premier ad interim, Ehud Olmert, è in testa ai sondaggi con 42-44 seggi sui 120 della Knesset. Dopo alcune settimane di calo, l’assedio alla prigione di Gerico ha riportato in alto Kadima, a tutto svantaggio del Likud, partito guidato da Benjamin Netanyahu. Olmert ha dimostrato che la sua priorità è la difesa di Israele e negli incontri con la base del neomovimento – una base quanto mai variegata – ha fatto in modo che ognuno comunicasse, a modo suo, questo obiettivo. Al Vitraz Hall, dove si è tenuto l’ultimo di questi comizi, Shimon Peres, accolto come una rockstar, ha evidenziato subito la continuità con il passato: “In quasi 58 anni d’esistenza, Israele ha combattuto vinto cinque guerre, e ha subito le Intifada e anche queste le ha dominate. Definendo i confini dello stato d’Israele vinceremo la guerra in corso con i palestinesi”. Era molto in forma Peres, mostrava, con il suo tono rassicurante e l’andatura allegra, molto meno dei suoi 83 anni. Secondo il quotidiano Yedihot Ahronoth, l’ex leader laburista potrebbe entrare nel prossimo governo come ministro per lo Sviluppo regionale. Anche per tutti gli altri membri di Kadima sarebbero già stati scelti i ruoli, almeno per i dicasteri più importanti, senza tener conto delle eventuali alleanze che Olmert dovrà fare con gli altri partiti per ottenere la maggioranza assoluta. Tzipi Livni, attuale ministro degli Esteri, potrebbe essere nominata, nel prossimo governo, vicepremier. Ofir, un giovane presente al Vitraz Hall, ha detto al Foglio: “Livini rappresenta Isrele stesso. E’ onesta e ha a cuore gli interessi del nostro paese”. E’ una con le idee chiare, Livni, non lascia mai nulla di vago quando parla e ha sempre garantito, con il suo fare deciso, la linea di Kadima e del progetto sharoniano: “Siamo aperti al dialogo con i palestinesi – ha detto alla folla di militanti – Ma se l’Anp guidata da Hamas non riconosce Israele e non ferma il terrorismo, noi non avremo un partner per i negoziati e dovremo definire i suoi confini insieme con la comunità internazionale”. Ancora più duro è apparso Shaul Mofaz, ministro della Difesa, che ha passato molto del tempo a parlare fitto fitto con Livni, come due vecchi amici: “Israele non tollererà più i gruppi terroristici palestinesi. Se le nostre comunità saranno attaccate, risponderemo con tutta la forza che abbiamo a disposizione, come abbiamo fatto in passato”. E per evitare fraintendimenti sulla linea della fermezza ha concluso: “Israele è forte, e un voto per Kadima la settimana prossima ci garantirà di restare così anche in futuro”. Continuità con il passato, unilateralismo, definizione dei confini. E’ con questo progetto che Olmert vuole vincere le elezioni. L’eredità di Sharon, che vigila, immortalato nelle gigantografie.

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Gerusalemme. “Kadima ken, Kadima ken”. E’ questo lo slogan che risuona nei rally preelettorali del partito fondato dall’ex premier israeliano, Ariel Sharon. “Sì a Kadima”, hanno cantato i tanti partecipanti all’evento di qualche sera fa al Vitraz Hall, a Ness Ziona, in una piccola città a sud di Tel Aviv. Palloncini blu e rossi, magliette, aria di festa, molti leader schierati per parlare, proporre, ricordare. Una serie di immagini di Sharon ha fatto il resto: Ariel con David Ben Gurion, Ariel con George W. Bush, Ariel con tanti capi di stato passati e presenti, e per finire Ariel che annuncia il suo nuovo progetto, il suo sogno di Kadima, il 21 novembre scorso. A una settimana dal voto – le elezioni si terranno il 28 marzo – il partito ora guidato dal premier ad interim, Ehud Olmert, è in testa ai sondaggi con 42-44 seggi sui 120 della Knesset. Dopo alcune settimane di calo, l’assedio alla prigione di Gerico ha riportato in alto Kadima, a tutto svantaggio del Likud, partito guidato da Benjamin Netanyahu. Olmert ha dimostrato che la sua priorità è la difesa di Israele e negli incontri con la base del neomovimento – una base quanto mai variegata – ha fatto in modo che ognuno comunicasse, a modo suo, questo obiettivo. Al Vitraz Hall, dove si è tenuto l’ultimo di questi comizi, Shimon Peres, accolto come una rockstar, ha evidenziato subito la continuità con il passato: “In quasi 58 anni d’esistenza, Israele ha combattuto vinto cinque guerre, e ha subito le Intifada e anche queste le ha dominate. Definendo i confini dello stato d’Israele vinceremo la guerra in corso con i palestinesi”. Era molto in forma Peres, mostrava, con il suo tono rassicurante e l’andatura allegra, molto meno dei suoi 83 anni. Secondo il quotidiano Yedihot Ahronoth, l’ex leader laburista potrebbe entrare nel prossimo governo come ministro per lo Sviluppo regionale. Anche per tutti gli altri membri di Kadima sarebbero già stati scelti i ruoli, almeno per i dicasteri più importanti, senza tener conto delle eventuali alleanze che Olmert dovrà fare con gli altri partiti per ottenere la maggioranza assoluta. Tzipi Livni, attuale ministro degli Esteri, potrebbe essere nominata, nel prossimo governo, vicepremier. Ofir, un giovane presente al Vitraz Hall, ha detto al Foglio: “Livini rappresenta Isrele stesso. E’ onesta e ha a cuore gli interessi del nostro paese”. E’ una con le idee chiare, Livni, non lascia mai nulla di vago quando parla e ha sempre garantito, con il suo fare deciso, la linea di Kadima e del progetto sharoniano: “Siamo aperti al dialogo con i palestinesi – ha detto alla folla di militanti – Ma se l’Anp guidata da Hamas non riconosce Israele e non ferma il terrorismo, noi non avremo un partner per i negoziati e dovremo definire i suoi confini insieme con la comunità internazionale”. Ancora più duro è apparso Shaul Mofaz, ministro della Difesa, che ha passato molto del tempo a parlare fitto fitto con Livni, come due vecchi amici: “Israele non tollererà più i gruppi terroristici palestinesi. Se le nostre comunità saranno attaccate, risponderemo con tutta la forza che abbiamo a disposizione, come abbiamo fatto in passato”. E per evitare fraintendimenti sulla linea della fermezza ha concluso: “Israele è forte, e un voto per Kadima la settimana prossima ci garantirà di restare così anche in futuro”. Continuità con il passato, unilateralismo, definizione dei confini. E’ con questo progetto che Olmert vuole vincere le elezioni. L’eredità di Sharon, che vigila, immortalato nelle gigantografie. cipiace@ilriformista.it ; lettere@ilfoglio.it