I "professori" governano l'Anp
su Hamas manca un'informazione corretta
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Data: 21/03/2006
Pagina: 4
Autore: Yoram Schweitzer - Paola Caridi
Titolo: Terza intifada, come evitarla co una strategia unilaterale - Arrivano i professori, la fame rimane
Il RIFORMISTA di martedì 21 marzo ripropone un articolo pubblicato per la prima volta ad agosto, sulla minaccia di un aterza intifada. L'interessante analisi di Yoram Schweitzer assume però un significato piuttosto differente dopo la vittoria elettorale di Hamas che porrebbe questioni di lungo periodo quali la disponiblità da parte di Hamas ad accettare la coesistenza con Israele. Concentrandosi sulla tregua non dichiarata sull'ingresso degli islamisti palestinesi nei consigli comunali e sul riavvicinamento pre-lettorale ad Al Fatah, l'articolo, che  si proponeva soltanto di rispondere al limitato quesito circa la propabilità di una nuova stagione di violenza nel conflitto israelo-palestinese, rischia ora di essere scambiato per l'ennessima perorazione circa la "moderazione" di Hamas, smentita, da ultimo, dall'estremismo della squadra di governo proposta dal gruppo terroristico.
Ecco il testo:
Riproponiamo qui un articolo di Yoram Schweitzer, già capo della sezione antiterrorismo di Tsahal durante la prima Intifada ed esperto di terrorismo del Jaffee Center, uno dei principali think tank israeliani. Il suo articolo «Is a Third Intifada Inevitable?», pubblicato ad agosto, ha anticipato le preoccupazioni di una nuova rivolta palestinese che in queste settimane godono di grande spazio nella stampa israeliana.

Il recente riacutizzarsi degli episodi di violenza è stato accompagnato da previsioni di politici e responsabili della sicurezza israeliani, secondo cui esploderà certamente un'altra ondata di violenza, (...) che potrebbe essere persino più cruenta delle precedenti. Secondo la scuola di pensiero deterministica, una terza intifada è inevitabile e non si può far nulla per scongiurarla. Tuttavia un esame più attento degli interessi comuni dei flussi di pensiero dominanti in entrambe le parti in conflitto suggerisce che un'altra fase di sanguinari scontri non è qualcosa che deve per forza accadere. Dopotutto sia la tahdia palestinese (un accordo informale per mantenere la calma) che il disimpegno israeliano - le due iniziative che attualmente dominano l'agenda - sono stati intrapresi dalle rispettive parti unilateralmente, senza essere condizionate o senza che vi fosse alcuna richiesta di reciprocità dall'altra parte. Ciononostante, entrambi vanno a favore degli interessi di entrambe le parti, e ciò può costituire una base per le intese future, in particolar modo laddove si giungesse a un accordo bilaterale su ulteriori provvedimenti.
Il potenziale per evitare la rinascita di una violenza su larga scala trova fondamento nel fatto che entrambe le parti sono al momento sottoposte a trasformazioni e a cambiamenti di agenda che potrebbero rafforzare l'attuale fase di tranquillità. Su fronte palestinese, tra questi cambiamenti il più significativo riguarda Hamas, che sta per consolidare una nuova leadership a seguito dell'uccisione di gran parte dei suoi leader storici, tra cui lo sceicco Ahmad Yassin, per mano di Israele. Questo processo si sta dipanando in un momento in cui il movimento ha acquisito una popolarità su larga scala e si è impegnato in un processo di politicizzazione al fine di trarre vantaggio dal credito che ha acquistato in virtù degli anni di lotta contro Israele. Ciò si manifesta in una retorica pragmatica da parte dei suoi portavoce, nella partecipazione alle elezioni per il rinnovo dei consigli comunali e nell'intenzione di prendere parte alle elezioni per il Consiglio Legislativo, nonché nella volontà di unirsi all'Olp. Inoltre, sebbene Hamas abbia finora rimandato al mittente l'invito di Abu Mazen ad unirsi all'Autorità Palestinese, anche tale posizione potrebbe cambiare dopo le elezioni parlamentari.
È forse ancora più significativo il fatto che Hamas, a capo della campagna terroristica nel corso degli anni degli accordi di Oslo, e che ha rappresentato una forza centrale durante la seconda intifada, ha agito di norma per preservare la tregua informale; gli sparuti mortai e razzi lanciati contro la parte meridionale di Israele a partire dall'accordo sulla tahdia avevano apparentemente la finalità di stabilire quello che i portavoce di Hamas hanno descritto come un "equilibrio del terrore", forse ispirato dalla retorica e dalle azioni degli Hezbollah successivamente al ritiro di Israele dalla parte meridionale del Libano nel 2000 che, a detta loro, è necessario alla luce delle presunte violazioni perpetrate da Israele.
Questi cambiamenti pongono un serio dilemma per Hamas, poiché la costringono a districarsi tra una visione del mondo che respinge la possibilità di qualsivoglia dialogo con Israele e una realtà che potrebbe richiedere il riconoscimento del diritto di Israele a esistere a fianco di uno stato palestinese.
Certamente ci sono altri sviluppi che potrebbero contribuire a creare una maggiore instabilità sul piano politico. Anche Fatah, che per anni ha costituito il pilastro centrale della politica palestinese, è alle prese con un cambiamento generazionale e di leadership. Il successore di Yasir Arafat, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), viene visto da molti come una figura di transizione, e parecchi esponenti delle generazioni più giovani già vogliono rimpiazzare la leadership storica, ancora dominata dagli “outsider” giunti nella West Bank e a Gaza insieme ad Arafat. Alcuni di questi dissidenti di Fatah stanno appoggiando tale richiesta con delle minacce per ostacolare gli sviluppi strategici andando a violare la tahdia, nonostante essa trovi il sostegno dell'opinione pubblica. Di fatto le azioni terroristiche più recenti sono state condotte, a onoro del vero, da elementi marginali di Fatah come un mezzo per ribadire le rispettive richieste individuali e collettive, o altrimenti di schegge di gruppi finanziati dall'Iran o dagli Hizbullah. È vero, degli elementi della Jihad islamica stanno operando anche al margine della politica palestinese in un tentativo di far venir meno l'impegno del movimento per quel che riguarda la tahdia. Ma anche la Jihad islamica, il cui peso politico tra i palestinesi è minimo, riconosce che dovrà accettare da ultimo i parametri imposti dalle principali forze nella politica palestinese, o altrimenti rischierà di essere repressa; uno di quei parametri potrebbe rivelarsi essere un dialogo israelo-palestinese portato avanti con mezzi politici e non militari.
Per quanto riguarda Israele, anche questo paese è alle prese con notevoli cambiamenti, di cui il più significativo è una crescente accettazione della necessità di definirne i confini definitivi e di far riconoscere a livello internazionale la sovranità di Israele su parti della Terra di Israele, anche a costo di concessioni territoriali e di un indietreggiamento a confini vicini a quelli prima del 1967, sia unilateralmente che in virtù di un accordo con i palestinesi.
La delicatezza connessa a questi cambiamenti di agenda in relazione a entrambe le parti, sullo sfondo delle questioni fondamentali alla base del protrarsi del conflitto, crea opportunità che gli elementi marginali potrebbero sfruttare per interferire con il disimpegno e, ancor più, per complicare successivamente le possibilità di dialogo. E la capacità della leadership palestinese d'impedire attacchi terroristici contro Israele dopo il disimpegno (forse con la collaborazione di Hamas, in particolare laddove decidesse di unirsi all'Autorità palestinese a seguito delle elezioni) avrà un impatto critico sulla capacità delle due parti di coordinare le mosse future sul piano bilaterale. Se la leadership palestinese rispetterà la preferenza espressa dagli abitanti di Gaza per un periodo di tranquillità e sicurezza dopo le privazioni e le sofferenze degli ultimi anni, è del tutto possibile che, almeno sul confine meridionale di Israele, prevarrà la calma, anche se altre dimensioni del conflitto devono ancora essere risolte.
La comunicazione tra le leadership e gli establishment della sicurezza in atto volta a coordinare e gestire il conflitto renderà più semplice l'attuazione non violenta del disimpegno, nonostante gli sforzi di elementi marginali per determinarne un fallimento. Un aspetto altrettanto importante è che ridurrà le possibilità di un rinnovato braccio di ferro nella delicata fase immediatamente successiva.
In ogni caso, le previsioni secondo cui un'altra ondata di violenza su larga scale è inevitabile non riflettono realisticamente né l'equilibrio strategico tra Israele e i palestinesi, né gli interessi delle due parti, secondo la percezione dell'opinione che prevale su entrambi i fronti. Né tanto meno una terza Intifada andrebbe a produrre risultati migliori per entrambe le parti di quanto non possa essere raggiunto avvalendosi di strumenti politici.


Paola Caridi in un altro articolo ritrae il governo di Hamas come formato da "professori", onesti tecnici decisi a porre fine alla corruzione.
Il suo pezzo é caratterizzato da forti pregiudizi antiisraeliani accompagnati ad un tentativo di rendere “decente” la veste del nuovo governo palestinese guidato dal gruppo terroristico Hamas. L’articolo con contenuti molto simili a quelli del “manifesto”, inizia cercando di descrivere la “crisi alimentare” e “umanitaria” verso cui verserebbe la popolazione palestinese. Da questa premessa, molto discutibile, Paola Caridi vorrebbe definire i continui attacchi contro ospedali e istituzioni da parte di ex agenti armati della sicurezza palestinese, delle semplici “proteste” da parte di persone che “chiedevano lavoro” e “inquadramento legale”. Un tentativo chiaro di far apparire normale ciò che normale non è: il continuo scontro armato di potere tra le fazioni politiche, piuttosto che “proteste” contro la disoccupazione. Non solo nei paesi democratici ma anche in paesi meno ricchi di quello amministrato dall’ANP, le proteste per il lavoro si svolgono senza violenza e senza sparare contro ospedali, centri di polizia e ministeri. Numerosi sono stati gli scontri che avvengono fra le diverse organizzazioni già da prima le elezioni, ma questo articolo del riformista, cerca di descrivere l’ultimo avvenuto, come causato dalla “crisi della farina”. Invece di criticare la malagestione di Arafat, puntata tutta al riarmo ed alla guerra contro lo Stato Ebraico, Paola Caridi accusa apertamente Israele di “affamare” i palestinesi, responsabile secondo la giornalista, di chiudere i valichi. Perché questo servizio del “Riformista” non spiega il motivo per cui Israele fa queste operazioni? Ricordiamo infatti che numerosi sono i tentativi di far passare armi piuttosto che cibo all’interno dei territori amministrati dall’ANP. Armi che verranno poi utilizzate per uccidere la popolazione israeliana. A metà articolo la Caridi trasforma i terroristi di Hamas in ottimi “professori”. Più che la continua implicazione in attentati terroristici, vengono messe in rilievo le lauree, i “dottorati” e i “curriculum accademici” degli appartenenti ad Hamas. “Il governo dei professori” l’ha definito, ma professori che hanno come obiettivo l’uccisione di tutti gli ebrei nel mondo da come si legge nello statuto di Hamas, bisognerebbe aggiungere, anche se secondo la giornalista sono formalità. Come formalità è stato definito il mancato riconoscimento dello Stato di Israele da parte di questa organizzazione. Un mancato riconoscimento “di forma” sì, ma anche “di fatto”: tre mila attentati kamikaze contro civili innocenti israeliani subiti dalla seconda Intifada ad oggi, la maggior parte organizzati e pianificati da questa organizzazione terroristica. L'articolo si conclude con le dichiarazioni di Jimmy Carter ex presidente statunitense. Un riciclo utile a rendere il lettore cieco all'oltranzismo di Hamas come al ritiro da Gaza e agli sgomberi annunciati dalla Cisgiordania, indicando nella "colonizzazione" israeliana dei territori la causa del conflitto.
Ecco il testo:

Gerusalemme. Mahmoud Abbas era ancora a Gaza, ieri, quando gruppi di uomini armati hanno scatenato la protesta nella Striscia. Contro la centrale di polizia, ministeri, un ospedale, e bloccando la strada che porta al valico settentrionale di Erez. Quello dal quale proprio Abu Mazen sarebbe passato per tornare a Ramallah. Gli uomini in armi - che hanno scatenato scontri violenti, con almeno sei feriti - si sono definiti membri delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Dunque, legati a Fatah, il partito del presidente. Sulla loro reale appartenenza, però, i dubbi ci sono, visto che le stesse Brigate di Al-Aqsa hanno smentito a un'agenzia di stampa palestinese che a loro appartenessero gli attivisti che a gran voce, e sparando, hanno chiesto di essere inquadrati nei servizi di sicurezza dell'Anp.
Chiedevano lavoro, insomma, e l'inquadramento legale. In un momento nel quale - soprattutto a Gaza - il lavoro è solo uno dei problemi legati alla stessa sussistenza della gente. Assieme al lavoro manca il pane, il riso, gli altri beni di prima necessità. E la riapertura, ieri pomeriggio, del valico merci di Karni, che unisce Israele alla Striscia, è stata solo una breve boccata di ossigeno in quella che le agenzie dell'Onu definiscono una vera e propria crisi alimentare. Quaranta minuti di riapertura, dopo una chiusura continuata di una settimana intera, negoziata domenica sera a casa dell'ambasciatore americano in Israele tra israeliani, egiziani, palestinesi e gli sponsor statunitensi, che nel novembre scorso - madrina la stessa segretaria di Stato Condoleezza Rice - avevano spinto il governo Sharon a raggiungere l'accordo sul passaggio di merci attraverso Karni. Quaranta minuti di riapertura, bastanti a far passare meno di una decina di camion pieni di farina, per rifornire le panetteria di Gaza che avevano chiuso per mancanza di materia prima.
Crisi della farina, assieme a crisi del lavoro. L'emergenza umanitaria va di pari passo con la transizione tra la vecchia Autorità palestinese che ha regnato per 12 anni, e la nuova che vede la presenza di Hamas dentro i gangli vitali della res publica palestinese. E la richiesta del lavoro si mescola con chi insegue l'instabilità nei Territori palestinesi, magari pensando che tanto peggio tanto meglio. Gli scontri di ieri a Gaza, insomma, sono arrivati al culmine della crisi della farina e appena poche ore dopo che Ismail Haniyeh, il premier incaricato nonché leader di Hamas, aveva presentato ad Abbas la lista dei 24 ministri del nuovo governo. Tutto di Hamas, tra dirigenti, deputati e indipendenti legati al movimento integralista.
Se Abu Mazen dovesse approvare la composizione e il programma del nuovo governo, dando vita alla procedura che vuole il passaggio attraverso l'Olp e poi il voto di fiducia in Parlamento, qualcosa cambierebbe anche per i gruppi armati della Striscia. Lo ha fatto capire, per esempio, il ministro delle Finanze indicato da Haniyeh, Omar Abdel Razeq, intenzionato a tagliare gli sprechi della pubblica amministrazione palestinese, ivi compresi quelli nel settore della sicurezza. E Abdel Razeq di economia ne dovrebbe capire, visto la sua carriera di professore di economia nell'università di Al Najah, a Nablus, condita con un dottorato in economia internazionale ed economia matematica nell'ateneo dello Iowa.
Abdel Razeq è il prototipo del ministro del governo Hamas. Quasi cinquantenne, della stessa generazione di Haniyeh e del ministro degli Interni, Said Siyam, e di altri esponenti del governo. Soprattutto, come molti suoi colleghi, ha un curriculum accademico di tutto rispetto. Al pari del vicepremier Nasser Eddine Sha'er, preside ad Al Najah, dottorato a Manchester in religioni comparate. Al pari di Samir Abu Eisha, ministro per la Pianificazione, professore di ingegneria sempre all'ateneo di Nablus. Ingegnere come Jamal al Khodari, alle comunicazioni e nuove tecnologie, e come Ala Eddine al Araj, businessman indicato come ministro dell'economia. Professionista come Mahmoud A-Zahar, laurea in medicina al Cairo e professore all'università di Gaza.
Il governo dei professori, dunque, perché nella tradizione dei movimenti nati dalle costole dei Fratelli musulmani, sono le professioni liberali il terreno fecondo in cui sono cresciuti
gli attivisti e, poi, i dirigenti. Il loro curriculum, però, non sembra avere molto appeal, né verso la comunità internazionale, men che meno verso gli israeliani. Lauree, dottorati e titoli accademici non aiuteranno molto Hamas nel difficile tentativo di far accettare un governo senza alleati, e soprattutto senza Fatah. Eppure, in queste settimane, il movimento integralista ha mantenuto un profilo decisamente basso, persino sulla vicenda di Gerico, sulla quale ha lasciato il palcoscenico ad Abbas e ai dirigenti di Fatah, oltre che a quelli del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.
I professori, insomma, hanno indossato il doppiopetto, pur non avendo fatto concessioni a Israele e avendo anzi mantenuto il loro no alle tre condizioni poste dal Quartetto per evitare la crisi degli aiuti economici e dei rapporti politici, compreso il mancato riconoscimento formale dello Stato di Israele. Un gioco sul filo di lana, che si scontra anche con la totale rigidità delle posizioni israeliane, mentre corrono i giorni che separano dalle elezioni politiche del 28 marzo. Se Hamas continua a chiedere la liberazione dei Territori palestinesi (facendo più volte intuire che si tratta dei Territori a est della linea del 1967), buona parte della politica israeliana (quella a destra di Labour e Meretz) continua a vedere l'impossibilità di un accordo con l'Anp, e a considerare come estremamente realistica la prosecuzione dell'unilateralismo. Ivi compreso un ritiro solo parziale dalla Cisgiordania, che manterrebbe le grandi colonie e - anzi - vi aggiungerebbe il controllo della Valle del Giordano.
A schierarsi in modo duro contro questa ipotesi è stato, due giorni fa, l'ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, protagonista di un singolare e durissimo attacco non solo alla politica israeliana, ma anche a quella delle amministrazioni statunitensi degli ultimi decenni. «L'occupazione israeliana della Palestina - ha scritto Carter su Haaretz - ha ostruito un accordo di pace globale in Terrasanta, senza riguardo al fatto se i palestinesi avessero un governo non formale, uno guidato da Yasser Arafat o Mahmoud Abbas, oppure uno con Abbas presidente e Hamas che controlla il parlamento e il governo». Non solo, aggiunge Carter. «Il principale ostacolo alla pace è la colonizzazione israeliana della Palestina».

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