L'UNITA' di venerdì 17 marzo 2006 anticipa l'introduzione al volume "Hamas pace o guerra" scritto da Umberto De Giovannageli e Rachele Gonnelli, che uscirà sabato 18 marzo come supplemento al quotidiano.
Vi si legge che "la vittoria di Hamas non puç essere un alibi per l'unilatrelismo israeliano", cioé che con Hamas, che vuole distruggerla, Israele dovrebbe trattare. E una critica alla "copertura" offerta dagli Stati Uniti alla "politca dei fatti compiuti" di Israele.
Una chiara indicazione di quale politica, aggressiva con Israele e comprensiva con Hamas auspicano i due giornalisti.
Un sommario dell'articolo recita :" La vittoria frutto di un doppio fallimento:
della dirigenza arafattiana e della strategia di Israele ", vale a dire della lotta al terrorismo e del rifiuto di trattare con Arafat mentre questi sosteneva la violenza.
Ancora una volta, dunque, a Israele viene data la colpa di procurarsi da se stessa, con l'inaudita pretesa di difendersi, i suoi nemici.
Tutto ciò é sostenuto sull'UNITA', non su RINASCITA o LIBERAZIONE.
Ecco il testo:
Irredentismo nazionalista coniugato ad una concezione militante dell’Islam. Lotta armata abbinata alla carità islamica. Aiuti materiali alle fasce più deboli della società palestinese combinati con la capacità di offrire una risposta identitaria al bisogno di certezze che permea le nuove generazioni acculturate di Gaza e della Cisgiordania. Mai come nella preparazione del trionfo elettorale, Hamas è stato fedele al significato della sua sigla: «fervore».
La vittoria di Hamas è anche il portato di un duplice fallimento: quello della dirigenza «arafattiana» nei Territori, e della strategia di contenimento militare praticata in questi anni da Israele. La forza di Hamas è nel crollo dell’Autorità nazionale palestinese. Un crollo annunciato.
Annunciato negli anni del disincanto, seguiti alla stagione della speranza che si era dispiegata con la firma degli accordi di Oslo-Washington (settembre 1993); un disincanto che cresce assieme alla manifesta incapacità della leadership imposta da Yasser Arafat di compiere l’indispensabile salto di mentalità da capi guerriglieri a classe dirigente di uno Stato in formazione. Incapacità gestionale, abuso di privilegi, corruzione, conduzione contraddittoria dei negoziati con Israele. C’è tutto questo nel crollo dell’Anp e nella bruciante sconfitta del partito-regime: al Fatah. Non si comprende appieno le ragioni del trionfo di Hamas, e del suo radicamento in ogni settore della società palestinese, se non si fa i conti con il disastro-Anp. (...). Una prima verità: il successo di Hamas non fotografa una deriva integralista della società palestinese; una società che resta, meglio e più di ogni altra società mediorientale, una società pluralista, poco incline ad assecondare la formazione di un regime teocratico nei Territori (...). Ed è innanzitutto facendo leva su questo diffuso malcontento che Hamas ha costruito le sue fortune elettorali. Innestando la promessa di un governo dalle «mani pulite» sul classico impianto politico-ideologico che caratterizza Hamas sin dalla sua fondazione, il 9 dicembre 1987. Islamizzare la causa palestinese. «Palestinizzare» la jihad globalizzata. È la doppia sfida di Hamas. Una sfida che ha come posta in gioco non solo la leadership del dopo-Arafat nei Territori, ma anche la conquista di un ruolo-guida nel variegato arcipelago politico (e militare) dell’Islam radicale armato. Corano e irredentismo nazionalista. Si muove su questo doppio binario l’ideologia di cui Hamas si fa portatore, sulla quale ha costruito il suo radicamento anche e soprattutto nelle università di Gaza, sulla quale ha costruito il suo radicamento anche e soprattutto nelle università di Gaza e Cisgiordania, tra i ceti acculturati palestinesi(...). La vittoria di Hamas non è il suicidio politico di un popolo né può essere liquidata come la deriva integralista di una causa persa. Non esistono scorciatoie militariste, o terroristiche, che possano portare all’affermazione di due diritti egualmente fondati: quello alla sicurezza di Israele, e il diritto dei palestinesi a uno Stato indipendente, Hamas non è per i palestinesi la «scorciatoia», ma non può divenire nemmeno l’alibi per Israele per perseguire una politica unilateralista né può servire alla Comunità internazionale per mascherare la propria inazione in questo nevralgico angolo del pianeta (...). Ma il voto palestinese è anche un richiamo ai potenti della Terra: il fallimento di Oslo, la disfatta di Fatah, il trionfo di Hamas chiamano in causa pesantemente le responsabilità di quei soggetti internazionali che sullo scenario mediorientale hanno balbettato -l’Europa - latitato - l’Onu - o coperto - gli Stati Uniti - la politica dei fatti compiuti perseguita sul campo da Israele (...).
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