Aiutare i palestinesi senza finanziare Hamas
un buon programma, ma così com'é l'Anp é un ostacolo
Testata:
Data: 13/03/2006
Pagina: 7
Autore: Antonio Missiroli
Titolo: Sfamare la Palestina, non finanziare Hamas

Il RIFORMISTA di lunedì 13 marzo 2006 pubblica un articolo di Antonio Missiroli sul "dilemma" dell'Unione europea: come evitare di finanziare Hamas senza danneggiare la popolazione palestinese. La domanda ha una sua legittimità, ma per poterle dare risposta bisognerebbe incominciare a chiarire un equivoco che sembra invece tutt'altro che superato nei ragionamenti dei funzionari europei e in quelli di Missiroli: aiutare la popolazione palestinese é cosa diversa dal tenere in vita l'inefficiente e corrotto apparato dell'Anp, che assorbe la maggior parte dei fondi internazionali e non garantisce né i servizi essenziali ai palestinesi né la lotta al terrorismo.
Ecco il testo:

Il tour europeo che il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas comincia domani - e che lo porterà prima Vienna, dal cancelliere Schüssel, poi al parlamento europeo a Strasburgo, e infine a Bruxelles - obbedisce a due imperativi principali: accrescere il suo profilo politico internazionale, in una fase in cui il suo ruolo è messo radicalmente in questione dalla maggioranza conquistata da Hamas all’assemblea nazionale palestinese; e capire (e forse a far capire) come si può gestire in modo concertato la difficilissima fase attraversata attualmente dal processo di pace in Medioriente. La necessità di consultazioni dirette con l’Unione europea nasce dal ruolo chiave di Bruxelles nella vita della fragile entità statuale palestinese. L’Ue versa infatti ogni anno 250 milioni di euro all’Autorità palestinese (Ap), a cui se ne aggiungono altrettanti messi a disposizione dai vari paesi membri. Gli aiuti europei sono la principale lifeline dell’Ap, e lo sono ancor più ora che Israele ha sospeso il versamento dei circa 50 milioni di euro al mese in diritti doganali e fiscali che si era impegnato a trasferire all’Autorità con gli accordi di pace del decennio scorso. Come ha ricordato un paio di giorni fa James Wolfensohn - l’ex direttore della Banca mondiale che agisce come rappresentante speciale del cosiddetto “quartetto” (Onu, Usa, Ue, e Russia) e che ha donato all’Ap parte della sua fortuna personale per far fronte ad alcune spese correnti - le strutture dell’Autorità corrono il rischio di un collasso generalizzato. Il dilemma politico a cui si trova di fronte l’Ue, in particolare, è molto serio. I ministri degli esteri dei venticinque ne hanno discusso venerdì scorso, a Salisburgo, sulla base di un rapporto congiunto preparato dall’alto rappresentante per la politica estera Javier Solana e dalla commissaria per le relazioni esterne Benita Ferrero-Waldner. Il rapporto comprendeva un inventario dettagliato dei diversi contributi che l’Unione versa all’Ap: grosso modo, una metà avrebbe finalità umanitarie (a cominciare dalla sanità) e l’altra metà servirebbe a far funzionare la macchina amministrativa (a cominciare dai salari dei funzionari). La politica adottata, non senza difficoltà, dal “quartetto” dopo le elezioni del gennaio scorso che hanno dato la maggioranza dei seggi ad Hamas - che l’Ue considera tuttora ufficialmente un’organizzazione terrorista - prevede che, perché i finanziamenti e gli stessi contatti politici continuino il nuovo governo rispetti tre condizioni: la rinuncia alla violenza, il riconoscimento di Israele, e il rispetto degli accordi internazionali, compresa l’esistenza di due stati in Palestina. La condotta adottata finora da Hamas - prima in occasione della seduta inaugurale della nuova Assemblea, poi in un documento stilato la settimana scorsa in vista della formazione di un governo di “unità nazionale” - non registra passi avanti su nessuna delle tre, mentre il premier designato Ismail Haniyeh continua a insistere sul ritiro preliminare di Israele da tutti i territori occupati nel 1967. Per parte sua, il premier israeliano Ehud Olmert ha fatto circolare nei giorni scorsi un piano in base al quale in caso di vittoria alle elezioni del prossimo 21 marzo, il nuovo partito Kadima fisserebbe unilateralmente le frontiere fra Israele e il futuro palestinese lungo una linea prossima a quella marcata dal muro costruito nei mesi scorsi, incorporando così i principali insediamenti in Cisgiordania. Per l’Ue, insomma, il dilemma è come distinguere i finanziamenti ritenuti vitali - che verrebbero mantenuti anche in caso di aggravamento della situazione, per non danneggiare la popolazione civile - da quelli che passerebbero sotto il controllo diretto di Hamas, sull’erogazione dei quali si potrebbe invece continuare a porre condizioni. A Salisburgo si è ad esempio parlato di affidarne una parte all’Agenzia dell’Onu che già opera sul terreno (l’Unrwa), ma senza prendere decisioni precise: i ministri si rivedranno comunque in Lussembrugo il 20, alla vigilia del voto in Israele, e sarà anche importante sentire cosa racconterà e chiederà Mahmoud Abbas. Già, perché un altro dei paradossi della situazione è che - dopo aver preteso la creazione del posto di primo ministro, anni fa, per esautorare il corrotto e inaffidabile Yasser Arafat - l’Ue vorrebbe ora, d’intesa con Washington, restituire di nuovo maggiori poteri al presidente, vista l’impresentabilità di Haniyeh. Il quale ora, per parte sua, va cercando appoggi e soprattutto finanziamenti in altre capitali (dall’Arabia Saudita al Sudafrica, fino allo stesso Iran) per meglio resistere alle pressioni occidentali.

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