Concorre all'Oscar, suscita polemiche
il regista è palestinese con passaporto israeliano
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Data: 04/03/2006
Pagina: 4
Autore: Paola Caridi
Titolo: Palestina in corsa,ma i palestinesi non conoscono il film

Tra i film stranieri in corsa per gli Oscar c'è "Paradise now" di Hani Abu Assad,palestinese con passaporto israeliano che vive da vent'anni in Olanda. Fra le molte polemiche, quella più significativa è la catalogazione del film come "palestinese", visto che lo Stato di Palestina non esiste (ancora) ed il regista ha un passaporto israeliano. Non abbiamo visto ancora il film, per cui non esprimiamo alcun giudizio. Riportiamo, per ora, dal RIFORMISTA di oggi 4.3.2006 l'articolo-recensione di Paola Caridi, sostanzialmente favorevole al film. La polemica è aperta.

Ecco l'articolo:

C'è un paradosso nella storia del successo di Paradise Now. Che a non vederlo, in questi mesi di tam tam mediatico attorno al pluripremiato film di Hani Abu Assad, siano stati proprio i palestinesi. O almeno, i palestinesi che vivono tra Cisgiordania e Gaza. In quelle aree che il diritto internazionale chiama Opt,Territori palestinesi occupati, che gli accordi di Oslo chiamano Anp, Autorità nazionale palestinese, e che la vulgata corrente chiama sempre di più Palestina. I palestinesi Paradise Now non l’hanno visto, perché di cinema ce n’è, in pratica solo uno, il Kasaba di Ramallah. E le sale cinematografiche, assieme a molte altre amenità, sono un oggetto del desiderio in tutte le altre città. Dove, se si può, si rimedia qualcosa in centri di fortuna. Nello scorso febbraio, a Nablus, si proiettava un film alla settimana il martedì) nel centro culturale francese.A Betlemme hanno trasmesso Chicken Little il 2 febbraio, al centro per la pace.A Gaza, il programma dello scorso mese non riporta neanche un film. Chissà quanti, negli Opt, nell’Anp o in Palestina sanno che attorno a Paradise Now si è scatenata una querelle (politica, e non artistica) dai toni sempre più alti, mano a mano che si sono accumulati i premi destinati alla pellicola del nazareno Abu Assad, un passaporto israeliano in tasca, una residenza costante da vent’anni in Olanda, e una fama cresciuta negli ultimi, recenti mesi. Chissà quanti palestinesi sanno che Paradise Now è stato, invece, vistoda decine di migliaia di israeliani, in una programmazione a singhiozzo, risalita non quando il film ha vinto il premio Amnesty International né ha avuto un grande successo al festival di Dubai, bensì quando ha ricevuto un inaspettato Golden Globe Award per il miglior film straniero. Anzi. E’ stato proprio il Golden Globe Award a scatenare la polemica sempre più aspra degli scorsi mesi. Perché il premio è andato alla Palestina, il paese che presentava Paradise Now. Un paese che non sta sulla cartina geografica, e che invece ci è stato messo dai guitti. Dagli attori e dai cineasti.L’attacco è partito dalla penna di uno degli opinionisti più conosciuti, e in genere più moderati, della stampa israeliana, Sever Plozker, sul più diffuso quotidiano, lo Yedioth Ahronot. «Non è affare di un gruppo di reporter che si occupano di spettacolo definire frontiere e scavare dentro la politica internazionale» aveva scritto Plozker in un editoriale di metà gennaio. Nel quale, però, rifiutava di occuparsi della qualità artistica del film, che - diceva - non è un film di propaganda. Ha vari livelli, varie profondità e molti personaggi sfaccettati. Non prende una posizione cieca e il suo è un messaggio complesso». La questione era ed è soprattutto terminologica. Perché quel «Palestine», messoaccanto al titolo della pellicola non va giù. Di elementi, in questo «teatro dell’assurdo, ne sono due al posto di uno», diceva qualche giorno fa il conservatore Jerusalem Post, arrivando alla conclusione che, in fondo, la Palestina è entrata nel linguaggio comune. E persino i diplomatici israeliani hanno perso la voglia di obiettare ogni volta che il termine viene pronunciato al posto quello «politicamente corretto». Paradise Now, insomma, è diventato l’ennesimo strumento in mano al conflitto. Anche se il regista si era guardato bene dal fare non solo una pellicola di propaganda, ma anche un film di denuncia. La pellicola, che è indubbiamente un gran bel film dal punto di vista della qualità cinematografica, della sceneggiatura, della bravura degli interpreti, lascia in primo piano gli uomini che sono protagonisti, e nasconde nella nebbia la guerra guerreggiata. Motivo per quale è riuscito ad attirarsi le critiche di entrambe le parti. I palestinesi accusano il film dimenticare del tutto la seconda intifada, l’occupazione, le sofferenze quotidiane, le umiliazioni e le vittime. Gli israeliani attaccano Hani Abu Assad perché non ha mostrato il sangue dell’attentato kamikaze che uno dei due ragazzi decide di compiere Tel Aviv, perché non ha preso posizione, perché non fa vedere le vittime. L’intelligenza di Abu Assad è, invece, stata proprio quella di concentrarsi sull’umanitàdue ragazzi, in un posto dove la tendenza quella a disumanizzare il prossimo, dall’una dall’altra parte del muro.A renderlo trasparente, a non osservarne il viso e le sofferenze. Niente carri armati e incursioni dell’esercito israeliano, nel film, ma solo un check point. Niente israeliani cattivi, in pellicola che è solo concentrata su una città dimenticata come Nablus, ma solo lo skyline incredibile di Tel Aviv quando i due aspiranti kamikaze arrivano per compiere l’attentato. Abu Assad aveva deciso di far vedere quello nessuno era riuscito a mostrare, tra noi giornalisti intenti a registrare - becchini - il numero morti.Aveva deciso di vedere, con linguaggio scarno, la follia e le ragioni della follia, nelle ultime 48 ore di due aspiranti attentatori suicidi. Che sono tetragoni, ma che anzi covano dentro la loro anima tutti i dubbi di un’azione così disperata. Tanto che, alla fine, uno sceglierà di essere un kamikaze. L’altro tornerà indietro, in una Nablus da probabilmente non uscirà più.di parte. Che pure guarda, e con sguardo altrettanto critico, dentro il mondo palestinese. Portandone in superficie rapporto ormai sfilacciato tra la retorica della lotta nazionalista e la vita reale, regista mostra magistralmente nella della registrazione del video che il kamikaze gira prima di partire per Tel L’occhio di Abu Assad è tutto dentro realtà dei palestinesi di Nablus. E non potrebbe essere altrimenti. Come invece chiedono alcuni dei familiari delle vittime degli attentati suicidi che si sono schierati contro la nomination all’Oscar come miglior film straniero e premono perché l’opera non venga premiata.Abu Assad ha fatto un film su due kamikaze, senza esaltarli, senza trasformarli in eroi, ma - anzi - descrivendone la debolezza, la disperazione, questo senso di rivalsa verso l’umiliazione. Niente di eroico, niente di bello, niente di entusiasmante traspare da un che, anzi, lascia l’amaro in bocca della guerra e dell’odore acre che rimane attorno a un autobus appena dilaniato da attentato kamikaze. Lo testimoniano israeliani che, in tanti, hanno visto questo film, senza abbandonare la sala. 

cipiace@ilriformista.it