Anp, Egitto e Iran: l'"osservatorio privilegiato" sull'Iraq
secondo Umberto De Giovannangeli
Testata:
Data: 01/03/2006
Pagina: 10
Autore: Umberto De Giovannageli
Titolo: Come fermare l'ondata di terrorismo generata dalla guerra in Iraq

Catena di attentati in Iraq, uno dei quali, senza vittime, contro gli italiani a Nassirya. L'UNITA' vi vede dimostrazione del fallimento della guerra di liberazione del paese dalla dittatura di Saddam Hussein e, per rafforzare il concetto, sottopopone a a quattro intellettuali del mondo islamico 2 tendenziosi quesiti:

1 ) La guerra in Iraq vista dal versante arabo e musulmano. La nuova escalation di violenza segnata da forti connotati etnico-religiosi rischia di sfociare in una sanguinosa guerra civile. Cosa è diventato l’Iraq del dopo-Saddam e come la guerra preventiva condotta dagli Stati Uniti e dai loro alleati ha impattato sullo scontro interno al mondo arabo e islamico tra l’anima radicale e le forze che puntano ancora sul dialogo?

2 ) Nei propositi dei neocon americani, l’abbattimento del regime dispotico di Saddam Hussein avrebbe dovuto aprire una nuova stagione di libertà nel martoriato Medio Oriente. Dal vostro osservatorio privilegiato, quale bilancio è possibile trarre delle ricadute della guerra preventiva e in che modo è possibile scongiurare una estensione devastante di quello Scontro di civiltà su cui puntano i «nuovi crociati» e il network del terrorismo jihadista?

Ponendo gli stessi quesiti ad altri (magari a un iracheno liberato dalla dittatura di Saddam Hussein) si sarebbero probabilmente ottenute risposte diverse. Ma la selezione dell'UNITA' é stata ovviamente accurata. Ecco il testo delle risposte:  

Sari Nusseibeh, intellettuale palestinese.
1) «L'eroica resistenza” alle forze di occupazione occidentali. Così viene percepito dalle masse arabe il sanguinoso dopoguerra iracheno. Se uno dei propositi dei leader occidentali che hanno mosso guerra all'Iraq di Saddam era quello di provocare un benefico effetto domino nell'area mediorientali, in termini di sviluppo di un processo di democratizzazione, la realtà ha dimostrato l'esatto contrario: la "trincea" irachena si è estesa, il laboratorio terroristico impiantato da Al Qaeda in Iraq ha aperto sue filiali in Giordania, Egitto, nei Territori palestinesi. Alla base di questa strategia fallimentare più che una volontà imperiale da parte americana io leggo una incapacità di relazionarsi con il mondo arabo, di fare i conti con la sua storia, il suo punto di vista, la sua cultura. Soprattutto, gli Usa non hanno tenuto in alcun conto un dato connotativo della identità araba: l'orgoglio. L'orgoglio che porta comunque a rigettare qualsiasi imposizione, anche quella più nobilmente motivata, che proviene dall'esterno: ciò vale anche per l'idea, propria dell'America neocon, della esportazione forzata della democrazia. Non è in discussione l'eroismo dei tanti iracheni che hanno partecipato alle consultazioni elettorali, ma quel voto ha ribadito un'appartenenza etnico-religiosa che offusca fino a negarlo il senso di appartenenza nazionale».
2) «La vittoria elettorale di Hamas ha delle ragioni autoctone che riguardano un duplice fallimento: quello della logica gradualista che ispirava il processo di pace avviato con gli accordi di Oslo-Washington, e il fallimento di una leadership che non ha saputo o voluto compiere il necessario salto di mentalità, e di qualità, da movimento di liberazione a classe dirigente di uno Stato (di diritto) in formazione. Resta il fatto che la resistenza irachena, così come per altri versi l'esperienza di Hezbollah in Libano, hanno determinato, specie tra i giovani palestinesi, un meccanismo di identificazione che, al momento dl voto, ha finito per premiare quel movimento, Hamas, identificato come il più vicino ai modelli "vincenti", o come tali percepiti, di movimenti che intrecciano lotta armata e penetrazione istituzionale. Di certo, il dopoguerra iracheno non ha seminato frutti benefici nei Territori».

Nabil El Fattah, studioso egiziano dell’Islam.
1)«Doveva portare democrazia e invece ciò che sta determinandosi è una guerra civile etnico-religiosa. Doveva costruire le basi di uno Stato democratico e invece il voto stesso ha riproposto una divisione profonda tra sciiti e sunniti. Doveva servire a sradicare il terrorismo jihadista dallo scenario mediorientale, invece mai come oggi il network terrorista di Al Qaeda ha esteso i suoi tentacoli. Da qualsiasi parte la si analizzi, la guerra in Iraq non può che essere giudicata, non per pregiudizi ideologici ma per i risultati prodotti, un fallimento. L'abbattimento del regime-Stato baathista ha prodotto la frantumazione identitaria, e in prospettiva statuale, dell'Iraq; sul piano della lotta al terrorismo, l'Iraq resta il campo di addestramento ideale per i terroristi di ogni genere. Il fenomeno innescato è semmai di segno opposto: dall'Iraq, le cellule qaidiste sono penetrate in Giordania e di lì verso l'Egitto o i territori palestinesi, ed oggi l'obiettivo dichiarato degli strateghi di al Qaeda è quello di scatenare e gestire in proprio in Palestina una terza Intifada jihadista. Ma ciò che è ancora più grave è che agli occhi delle moltitudini arabe e musulmane dopo la guerra in Iraq, l'Occidente assomiglia sempre più a quel mondo ostile e neocolonizzatore evocato da Osama Bin Laden. E in Iraq le forze occidentali sono sempre più percepite come forze di occupazione e non di liberazione».
2)«L'abbattimento del regime dispotico di Saddam Hussein non solo non ha pacificato l'Iraq ma non ha nemmeno neutralizzato l'influenza di altri regimi radicali, semmai ne ha rafforzato l'influenza: è il caso dell'Iran, che lungi dall'essere emarginato dallo scenario regionale, ha finito per attirare nella sua rea di influenza anche una parte significativa, e non solo quella tradizionalmente più oltranzista, della comunità sciita. Di fronte al fallimento della strategia, e dell'ideologia, della guerra preventiva, non basta più invocare il ritiro delle forze militari occidentali né appellarsi all'Onu: occorre invece puntare sulla politica e "arabizzare" la crisi irachena. Per arginare una situazione che rischia di avere conseguenze devastanti sull'intero medio Oriente, è necessario un coinvolgimento attivo dei Paesi dell'area e della Lega Araba».

Bijan Zarmandili, scrittore e analista iraniano.
1)«L’Iraq soprattutto sta diventando progressivamente e pericolosamente un laboratorio di guerra; un laboratorio in scala ridotta rispetto alle dimensioni reali di una regione di fatto allargata; una regione che, dal punto di vista geopolitico, parte dal cuore del Medio Oriente, con l’epicentro della crisi israelo-palestinese, e si estende fino al Golfo Persico e rischia di comprendere anche vaste aree dell’Asia centrale e orientale. In questo scenario, l’Iraq rappresenta il laboratorio in funzione permanente di un possibile conflitto più allargato e devastante. Un “laboratorio” che il mondo aveva già sperimentato, sia pure con gradazioni differenti, in Libano, dove, negli anni della Guerra fredda, a scontrarsi erano fazioni interne, potenze regionali e potenze mondiali; per altri versi questo laboratorio di guerra si è riproposto nella ex Jugoslavia. In Libano, in particolare, il Medio Oriente ha conosciuto cosa significhi una guerra civile alimentata da rivendicazioni di carattere etnico-religiose, ambizioni di potenze locali e l’incapacità della Comunità internazionale a giocare un ruolo politico super partes. La degenerazione della situazione in Iraq può portare peraltro all’apertura di un altro teatro di conflitto: quello iraniano».
2)«La guerra preventiva ha fallito i suoi obiettivi politici perchè ha completamente disconosciuto l’esistenza di una dialettica interna al mondo arabo e musulmano. È stata una sconfitta politica fondata su una bancarotta culturale, perchè non si è inteso tenere in lacun conto peculiarità storiche, identitarie, tradizioni e culture che esigevano un percorso autonomo nei processi di democratizzazione. Anche da questo punto di vista, la situazione non solo non è migliorata ma sta al contrario drammaticamente peggiorando, e soprattutto sta acuendo tensioni su scenari che gli Stati Uniti non riescono a controllare. La strategia della guerra preventiva non solo non ha definito una forma di democratizzazione ma sta impedendo anche lo sviluppo di una dialettica vera interna che permetta di giungere alla soluzione di una democrazia più avanzata, o comunque a sistemi più avanzati. Il caso dell’Iran è in questo senso paradigmatico».

Nawal Saadawi, scrittrice egiziana
1)«Le guerre preventive non sono servite né serviranno mai a contrastare e sconfiggere il fanatismo oltranzista e terrorista; le guerre preventive, come quella in Iraq, finiscono solo per alimentare l'odio verso l'Occidente nel mondo arabo e musulmano. Da questo punto di vista, la stessa "rivolta delle vignette" può essere considerata anche come il frutto avvelenato di questa percezione ostile dell'Occidente che la guerra in Iraq aveva sedimentato. Il fanatismo jihadista evoca, pratica, lo scontro di civiltà; il fanatismo jihadista usa la religione come arma da scatenare contro chiunque, nel mondo arabo e musulmano, si opponga ad una deriva teocratica e liberticida. La domanda da porsi è se la guerra in Iraq abbia rafforzato o meno nei vari Paesi arabi quelle forze della società civile che si battono per la democrazia. La mia risposta è "No", questa guerra non ci ha aiutato. La guerra in Iraq così come l'irrisolta questione palestinese hanno aperto ferite profonde nella coscienza collettiva delle masse arabe e musulmane. E di ciò i gruppi integralisti approfittano, riempiendo un vuoto di iniziativa politica. Un vuoto che rischia di trasformarsi in un abisso capace di fagocitare intere generazioni».
2)«La guerra in Iraq è la risposta sbagliata, tragicamente sbagliata, ad un errore strategico compiuto dall'Occidente: l'aver considerato regimi corrotti e dispotici di cui è pieno il mondo arabo e islamico come un "male minore" rispetto al diffondersi del "cancro fondamentalista". In questo modo si è finito per mantenere al potere leadership screditate che hanno dilapidato ricchezze e risorse, impoverendo il popolo, creando rabbia e frustrazione tra i giovani e ingrossando così le fila dell'integralismo, percepito come l'unica forma di opposizione. E quando l'Occidente si è reso conto dei mostri che aveva alimentato, se non addirittura partorito, ha imboccato stoltamente una scorciatoia rivelatasi peggiore del "male" che si intendeva estirpare: quella dell'imposizione forzata, dall'esterno, della democrazia. Con la guerra preventiva: il secondo, grande regalo fatto al radicalismo islamico, perché la democrazia non può essere imposta con la forza».

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