Molta disinformazione sui quotidiani italiani di mercoledì 15 febbraio 2006 circa le "rivelazioni" del New York Times su un presunto piano americano e israeliano per far cadere un governo palestinese guidato da Hamas, la cui esistenza è stata seccamente smentita sia da Washington che da Gerusalemme.
Il CORRIERE della SERA pubblica una cronaca di Lorenzo Cremonesi, il quale, dopo aver riferito le smentite di Washington, scrive " tra gli ambienti diplomatici occidentali in Israele c'è chi conferma «il delinearsi dell'eventualità» di cui parla il New York Times", per poi citare il solo James Wolfensohn, inviato dell'Unione Europea, nel cui ufficio anonimi funzionari dichiarano: «È chiaro che americani e israeliani guardano all'arma economica per strangolare il prossimo governo di Hamas». Ma le pressioni economiche sull'Anp potrebbero benissimo essere finalizzate ad ottenere da Hamas il riconoscimento di Israele e la cessazione del terrorismo, come dichiarato il portavoce della Casa Bianca. Inoltre, va rilevato che l'articolo di Cremonesi, come molti altri, non considera un aspetto essenziale della questione. L'intera Anp è una struttura burocratica e di potere che si regge esclusivamente sui finanziamenti esterni. Finanziarla qualora Hamas ne prendesse il controllo, non significherebbe "aiutare i palestinesi", ma sostenere il clientelarismo politico di un'organizzazione terroristica, e la preparazione di un un futuro conflitto volto alla distruzione di Israele. Ecco il testo:
GERUSALEMME — Bloccare i salari, congelare i finanziamenti ai grandi progetti in Cisgiordania e Gaza, impedire i movimenti di uomini e merci, boicottare qualsiasi tipo di contatto con i dirigenti del futuro governo palestinese. In poche parole, strangolare Hamas. Imporre una sorta di embargo totale, che conduca gli oltre 3 milioni e mezzo di palestinesi residenti nei territori occupati da Israele nel '67 a rivoltarsi contro i leader eletti democraticamente alle elezioni del 25 gennaio. E soprattutto adoperarsi per spingere il presidente Mahmoud Abbas a sciogliere il Parlamento e proporre una nuova tornata elettorale nella speranza che gli estremisti islamici siano battuti.
Sarebbe questa la strategia scelta da israeliani e americani per impedire la creazione di un governo palestinese che, a differenza di quello diretto dal Fatah (la corrente maggioritaria dell'Olp) dal '94 a oggi, si rifiuta di riconoscere il diritto all'esistenza di Israele e sostiene nella sua piattaforma la piena legittimità della lotta armata, inclusi gli attentati suicidi. Un piano esposto ieri con dovizia di particolari dal New York Times.
Da Washington la Casa Bianca smentisce. «Un piano del genere non esiste», ha detto ieri il portavoce del presidente Bush. «La nostra strategia è costringere i nuovi leader palestinesi a compiere una scelta precisa tra la trasformazione in un legittimo interlocutore, oppure l'isolamento internazionale», dicono al ministero degli Esteri di Gerusalemme. La Russia e la Francia hanno provato a lanciare segnali d'apertura verso Hamas, la Turchia s'è proposta come mediatore. E ieri anche il ministro degli Esteri tedesco, Steinmeier, si è detto favorevole a un «tentativo di mediazione di Ankara», se questa «può influenzare Hamas» a rinunciare alla violenza e a riconoscere lo Stato ebraico.
Ma tra gli ambienti diplomatici occidentali in Israele c'è chi conferma «il delinearsi dell'eventualità» di cui parla il New York Times. «È chiaro che americani e israeliani guardano all'arma economica per strangolare il prossimo governo di Hamas», dicono nell'ufficio a Gerusalemme di James Wolfensohn, l'inviato dell'Unione Europea che sino a settembre era stato incaricato di provvedere agli aiuti economici per Gaza, dopo il ritiro israeliano, e ora segue l'evoluzione anche in Cisgiordania. Una conferma indiretta è giunta ieri sera anche dal premier israeliano ad interim Ehud Olmert. «Il giorno in cui Abbas nominerà un rappresentante di Hamas a capo del governo, rivedremo tutti i nostri contatti. Non negozieremo e non tratteremo con un'autorità palestinese dominata totalmente o parzialmente da un'organizzazione terroristica».
I tempi sono stretti. Sabato si riuniranno per la prima volta i 132 deputati del nuovo Parlamento, dominato dai 74 deputati di Hamas. Israele impedisce la libertà di spostamento a questi ultimi, così la sede parlamentare di Ramallah sarà collegata in videoconferenza con quella di Gaza, dove si trovano i massimi leader del movimento islamico. «Entro il 1˚marzo sarà nato il nuovo governo, che potrebbe essere di unità nazionale col Fatah. Il premier dovrebbe essere Ismail Haniye, considerato uno dei capi più pragmatici di Hamas », sostengono i circoli giornalistici a Gaza vicini al gruppo islamico. L'impressione è che comunque Mahmoud Abbas non abbia intenzione di indire nuove elezioni. Hamas ha già duramente criticato un'eventualità del genere. «Gli Stati Uniti, che si definiscono la madre di tutte le democrazie, hanno l'obbligo di rispettare il risultato delle urne. Queste sono state le elezioni più democratiche e corrette di tutto il Medio Oriente», sostiene Mushir al-Masri, uno tra i portavoce di Hamas. È tra l'altro netta l'impressione che una nuova tornata elettorale non farebbe altro che confermare e addirittura rafforzare i risultati di gennaio.
«Se si tornasse alle urne su pressione di Israele e Usa, i radicali islamici potrebbero avvicinarsi ai 100 seggi. Sarebbe una follia solo provarci», osserva Danny Rubinstein, esperto dei territori occupati per il quotidiano
Haaretz. Ancora secondo i consiglieri di Wolfensohn, anche l'arma economica per fare pressione su Hamas ha una valenza relativa: «Il governo palestinese necessita di circa un miliardo di dollari all'anno in finanziamenti dall'estero per funzionare. Sono in difficoltà, ma per il 2006 sono coperti».
Alberto Stabile su La REPUBBLICA esordisce lamentando che "mentre la Russia e la Francia aprono un dialogo con Hamas per verificarne le intenzioni, gli Stati Uniti e Israele, secondo il New York Times, discutono su come «destabilizzare» il futuro governo a maggioranza islamica e costringere il presidente dell´Autorità palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ad indire nuove elezioni". Seguono descrizioni degli effetti "devastanti" che il blocco economico di Israele e Usa avrebbe sui palestinesi. Naturalmente Stabile non si chiede se, per evitare tali supposte conseguenze (vi sarebbero comunque i finanziamenti dei paesi islamici) Israele sarebbe tenuta a finanziare il terrorismo di chi vuole la sua distruzione. Ecco il testo:
GERSUALEMME - Mentre la Russia e la Francia aprono un dialogo con Hamas per verificarne le intenzioni, gli Stati Uniti e Israele, secondo il New York Times, discutono su come «destabilizzare» il futuro governo a maggioranza islamica e costringere il presidente dell´Autorità palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ad indire nuove elezioni. I mezzi considerati come i più efficaci per raggiungere lo scopo sono principalmente due: la cessazione d´ogni aiuto economico proveniente dall´Occidente e l´isolamento internazionale dei palestinesi.
Immediata la reazione di Hamas: «Gli Stati Uniti che rivendicano d´essere la madre della democrazia, devono rispettare i risultati delle elezioni e la volontà espressa dal popolo palestinese», come dire che dopo aver voluto a tutti i costi le elezioni, gli Usa vista la vittoria di Hamas non ci stanno più.
Il «piano», come è stato battezzato dai giornali israeliani, va catalogato tra gli strumenti di pressione messi in campo da Israele e dal suo più prezioso alleato, gli Stati Uniti, per costringere Hamas a cambiare la sua Carta fondamentale, tuttora incentrata sulla distruzione dello Stato ebraico, abbandonare il terrorismo e riconoscere il diritto d´Israele ad esistere. Non a caso, prima di passare ai fatti, secondo le fonti diplomatiche americane e i dirigenti israeliani che in forma anonima hanno suffragato le rivelazioni del New York Times, ad Hamas sarà data una possibilità di cambiare i punti fondamentali del suo programma.
Ma il tempo stringe. Sabato prossimo s´insedierà formalmente il parlamento palestinese eletto il 25 gennaio e da lì a qualche settimana il nuovo governo vedrà la luce. Governo d´unità nazionale, con tutte le fazioni chiamate a farne parte? Governo di tecnici o, come farebbero capire le più recenti dichiarazioni dei dirigenti integralisti, governo monocolore, verde, guidato dal numero uno della lista integralista, Ismail Haniyeh? Tutte le ipotesi sono valide, ma è certo che Hamas sarà magna pars del nuovo esecutivo.
La cosa preoccupa Israele, colto di sorpresa dall´ampiezza del successo islamista. Alle profferte di tregua, seppur illimitata, avanzate da Hamas in cambio del ritiro israeliano entro i confini del ´67, non viene dato credito. Piuttosto, queste aperture vengono interpretate come manovre tattiche. Quello che il governo israeliano vuole da Hamas è una chiara e irrevocabile abiura dei suoi principi fondamentali.
«La nostra strategia - ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Mark Regev, in una dichiarazione che smentisce solo a metà le rivelazioni del Times - è di presentare alla nuova leadership palestinese una chiara scelta: o si trasformano in un legittimo interlocutore politico o dovranno confrontarsi con l´isolamento internazionale». A questo fine, il ministro della Difesa, Shaul Mofaz, presenterà alcune proposte concrete ai Paesi donatori per indebolire Hamas.
A Gerusalemme, in sostanza, nessuno crede alla possibilità che intavolare un dialogo preventivo possa portare ad alcun risultato, né si crede che le responsabilità di governo obbligheranno Hamas a cambiare la propria strategia. L´invito di Putin è stato etichettato con le definizioni più crude: «Una pugnalata alla schiena», «uno sputo in piena faccia».
E, come sempre nei momenti cruciali, Israele si ritrova accanto l´alleato americano. Fosse uno Stato nazionale, l´Autorità palestinese sarebbe oggi sotto minaccia di sanzioni. La logica del piano di destabilizzazione è la stessa. Impoverire l´autorità palestinese tagliandogli gli aiuti indispensabili per far fronte ad un deficit di un miliardo di dollari l´anno. Creare un cordone sanitario. Chiudere i varchi tra Israele e Gaza (quelli tra Gaza e la Cisgiordania non sono mai esistiti). Le ripercussioni potrebbero essere devastanti per tre milioni e mezzo di palestinesi, ridotti ai limiti della sopravvivenza da quattr´anni d´intifada, paralisi economica, blocchi e chiusure.
Sarà il governo guidato da Hamas considerato responsabile delle nuove privazioni o i palestinesi indirizzeranno la loro protesta contro coloro che riterranno colpevoli di volerli affamare? Le fonti del New York Times affermano di aver valutato i pro e i contro.
In qualche modo, il cauto Abu Mazen sembra prepararsi a fronteggiare l´ipotesi estrema prospettata nel piano di destabilizzazione. Tutti si aspettano che sabato, nel suo discorso inaugurale del nuovo parlamento di Ramallah, il presidente dell´Autorità palestinese chiederà ad Hamas di proseguire sulla via del negoziato tracciata dall´Olp, riconoscendo l´interlocutore israeliano e gli accordi stretti con lo stesso. Ma nel frattempo, Abu Mazen ha fatto approvare una legge dal parlamento uscente (e, secondo Hamas non più idoneo a legiferare) che, conferendogli il potere di nominare direttamente i giudici della Corte Costituzionale gli da, in pratica, la facoltà di sciogliere il parlamento di propria iniziativa. Un colpo di mano, hanno accusato gli islamismi.
Paola Caridi sul RIFORMISTA descrive lo scontro diplomatico tra Israele e Hamas come un "muro contro muro" e accredita all'organizzazione terroristica una diponibilità al dialogo assolutamente inesistente. Scrive: "Hamas vuole un mutuo riconoscimento e la fuoriuscita di Israele dai Territori occupati, e ha fatto capire a chiare lettere che si tratta di quelli occupati dall'esercito israeliano dopo il 1967". Hamas vuole un "mutuo riconoscimento"? Tutti i suoi leader ripetono che non riconosceranno mai Israele. Vuole che Israele torni nei confini del 1967? Tutti i suoi leader ripetono che i "territori occupati" includono tutta Israele. Ecco il testo:
Il volume si alza, i toni si fanno più duri. E inizia il tam tam delle indiscrezioni. Perché, dietro l'angolo, c'è l'apertura del parlamento palestinese a maggioranza Hamas. E, verso metà marzo, potrebbe concretizzarsi un governo islamista. Via, dunque, alla prevista accentuazione delle pressioni sull'Autorità Nazionale in procinto di compiere il più importante giro di boa della sua breve storia. La vigilia inizia con lo scoop di ieri del New York Times. Stati Uniti e Israele, dice il più autorevole giornale americano, stanno pensando di «destabilizzare» il prossimo governo targato Hamas, strangolando l'Anp dal punto di vista economico. Niente soldi, dunque, per spingere i palestinesi a reagire, costringere il presidente Mahmoud Abbas a indire nuove elezioni e far vincere Fatah.
Se fosse un pourparler, lo scoop non sarebbe tale. A discuterne invece, dice Steven Erlanger, sarebbero alti dirigenti del dipartimento di Stato americano e del governo israeliano. Pur sapendo, gli stessi interessati, che il gioco sarebbe molto pericoloso.
Com'è costume, le smentite sono arrivate subito dopo la pubblicazione dell'articolo. Eppure, la strategia politica ed economica di Israele e degli Stati Uniti è perfettamente in linea con quello che scrive il Nyt. Poche ore dopo le indiscrezioni di stampa, il ministro della Difesa Shaul Mofaz, parlando dal Cairo dopo un colloquio con Hosni Mubarak, ha messo l'Anp guidata da Hamas all'interno dell'asse del male, assieme - nell'ordine - a Iran, Siria e Hezbollah. Mentre il vicepresidente della Corte suprema israeliana, Michael Cheshin, ha detto che l'Anp è ormai un «paese nemico de facto». Gerusalemme, dunque, prosegue nella strategia indicata sin dal giorno seguente alle elezioni palestinesi dal premier Ehud Olmert, e spiegata alla comunità internazionale dal neoministro degli Esteri Tzipi Livni.
Le ripercussioni economiche sull'Anp, peraltro, hanno già avuto le prime avvisaglie. Consistenti nella quotidiana e capillare prudenza con la quale i paesi donatori tentano di capire con chi si parla nei Territori palestinesi, e a chi si sta dando i soldi. Anche se Hamas non è ancora formalmente al potere, insomma, la prudenza delle cancellerie sta già influendo sul restringimento dei cordoni della borsa. I palestinesi, dal canto loro, non sembrano molto sorpresi dalle indiscrezioni di stampa. Anzi. Alcuni, soprattutto nell'intellighentsjia, hanno una reazione sardonica. «Ma gli occidentali pensano veramente - dice uno di loro - che la dignità e l'orgoglio di un popolo si possano comprare con i soldi?». Altri fanno notare che ai palestinesi della strada i soldi già non arrivavano prima, perché venivano succhiati dall'apparato e dalle clientele. La chiusura del rubinetto degli aiuti, dunque, non cambierebbe molto nella vita quotidiana della stragrande maggioranza della gente che vive nei campi profughi o nei villaggi più poveri. La dirigenza palestinese è, però, preoccupata dalla possibilità di un isolamento politico e di uno strangolamento economico. E tenta di rafforzare i legami dentro il mondo arabo. Lo fa Hamas, che con Khaled Meshal sta continuando il suo tour, con la tappa sudanese di ieri. Lo fa il ministro dell'Economia Mazen Sinnokrot, considerato vicino agli islamisti, che è andato negli Emirati Arab. A latere, poi, continuano le mosse di avvicinamento con la Giordania, dove - dicono i ben informati - ci sarebbero stati i primi contatti diretti tra Hamas e le autorità del governo hashemita.
Rompere l'accerchiamento sembra, insomma, la priorità per Hamas e la necessità per l'Anp. Hamas, però, non intende indietreggiare dalle posizioni che gli hanno fatto vincere le elezioni. Resistenza e riconoscimento dei «diritti legali» dei palestinesi, come li ha definiti Meshal. Hamas vuole un mutuo riconoscimento e la fuoriuscita di Israele dai Territori occupati, e ha fatto capire a chiare lettere che si tratta di quelli occupati dall'esercito israeliano dopo il 1967. A rendere, però, i toni ancor più duri, è stata la notizia resa pubblica due giorni fa da Haaretz: Israele avrebbe effettivamente annesso la valle del Giordano, impedendo l'accesso dei palestinesi a un terzo della Cisgiordania, quella che corre lungo la frontiera con il regno hashemita, se non ai residenti. Le restrizioni dell'esercito israeliano sono in linea con quello che Ehud Olmert ha dichiarato nella piattaforma politica di Kadima. Israele vuole conservare i tre grandi blocchi di colonie e avere il controllo sulla valle del Giordano. Hamas, e con Hamas la maggioranza dei palestinesi, vuole che Israele lasci la Cisgiordania, dopo aver lasciato Gaza. Il muro contro muro è cominciato.
Il MANIFESTO, dal canto suo, denuncia il piano americano-israeliano (date per certe le rivelazioni del NYT) come una destabilizzazione ai danni della "democratica" Palestina guidata da Hamas. Ecco l'articolo di Michele Giorgio:
Il nuovo parlamento palestinese si riunirà soltanto sabato prossimo eppure è già pronto un piano elaborato da Stati uniti e Israele per destabilizzare il potere del movimento islamico e «costringere» il presidente Abu Mazen ad indire nuove elezioni nei prossimi mesi per rimettere in sella il suo partito, Al-Fatah. Lo sostiene il New York times, di solito ben informata sulle intenzioni dell'Amministrazione Bush in Medio Oriente. Si tratta di un progetto definito in ogni particolare che rischiano di patire tutti i palestinesi più che Hamas. Una conferma indiretta dell'iniziativa congiunta è stata fornita dal ministro della difesa israeliano Shaul Mofaz secondo il quale «un'Anp controllata da Hamas farà parte di un asse del male che inizia in Iran, passa attraverso la Siria e l'Hezbollah e raggiunge Hamas». Mofaz ha aggiunto che, nel momento in cui sabato presterà giuramento il nuovo parlamento palestinese, i rapporti fra Israele e l'Anp «cambieranno». In serata è arrivato l'avvertimento del premier ad interim Ehud Olmert che ha messo in guardia Abu Mazen dall'incaricare un esponente di Hamas per la formazione del nuovo governo altrimenti, ha minacciato, Israele rivedrà totalmente la sua linea verso l'Anp. Obiettivo del piano di Stati uniti e Israele, secondo quando riferito dal New York times, è «mettere Hamas con le spalle al muro», ovvero isolare economicamente il nuovo esecutivo palestinese. L'Anp è già in forte difficoltà: ogni mese ha bisogno di spendere 60-70 milioni di dollari, in gran parte necessari per pagare i salari a circa 140 mila dipendenti pubblici. Gli unici fondi sicuri però sono i 50-55 milioni di dollari, in Iva e dazi doganali, che appartengono ai palestinesi e che vengono raccolti da Israele ai transiti di frontiera (i 600-700 milioni di dollari all'anno garantiti sino ad oggi da Usa e Unione europea finanziano in gran parte progetti di infrastrutture nonché Ong ed agenzie internazionali che assistono i civili palestinesi). Israele ha già fatto sapere che non trasferirà più i fondi palestinesi all'Anp - in violazione del Protocollo economico di Parigi del 1994 - non appena Hamas assumerà formalmente il potere. L'Anp guidata dal movimento islamico dovrà fare i conti con un deficit che a fine anno sarà di alcune centinaia di milioni di dollari, senza dimenticare che Usa e Ue potrebbero congelare i loro finanziamenti. Non solo, ma Tel Aviv potrebbe anche chiudere i transiti commerciali con Cisgiordania e Gaza e strangolare ciò che rimane della malandata economia palestinese. Il governo israeliano ha smentito l'esistenza di tali piani con Washington ma è difficile credere che un quotidiano autorevole come il New York times abbia pubblicato indiscrezioni prive di qualsiasi fondamento. Nel frattempo piani già ben evidenti sono in atto in Cisgiordania. Il centro israeliano per i diritti umani Betselem ha riferito che Israele di fatto si è già annesso la parte di Valle del Giordano che rientra nei Territori occupati. In pratica i palestinesi residenti in altre aree non hanno più accesso alla regione, ora delimitata da una catena di posti di blocco. «L'annessione di fatto della Valle del Giordano è simile a quella di porzioni della Cisgiordania avvenuta dopo la costruzione della barriera di separazione (il muro)», ha denunciato Betselem. La scorsa settimana il premier ad interim, Ehud Olmert, aveva annunciato che Israele non avrebbe restituito in alcun caso ai palestinesi la Valle del Giordano, l'area della «grande Gerusalemme» e i territori dove sono stati costruiti i principali blocchi di insediamenti colonici ebraici (in violazione delle leggi internazionali).
Nella Valle del Giordano, un territorio molto fertile e con potenzialità turistiche, vivono circa 53mila palestinesi (e circa 6 mila coloni ebrei, in 21 insediamenti). Il capitano Ishai David, un portavoce dell'esercito, ha confermato che Israele "per motivi di sicurezza" chiede ai non residenti un permesso per recarsi nella Valle del Giordano, simile a quello richiesto per entrare nello Stato ebraico. Betselem da parte sua ha aggiunto che un numero crescente di manovali e contadini palestinesi stanno perdendo il lavoro a causa dell'isolamento della Valle.
Cliccare sui link sottostanti per inviare una e-mail alle redazioni del Corriere della Sera, La Repubblica, Il Riformista e Il Manifesto
lettere@corriere.it ; rubrica.lettere@repubblica.it ; cipiace@ilriformista.it ; redazione@ilmanifesto.it