Contro l'intolleranza del fondamentalismo islamico
un articolo di Amir Taheri e un'intervista a Rafik Shami
Testata:
Data: 09/02/2006
Pagina: 15
Autore: Amir Taheri - Mario Baudino
Titolo: «Ma l'Islam ha sempre amato l'umorismo» - «Siamo il medioevo con il computer»

IL CORRIERE della SERA  di giovedì 9 febbraio 2006 pubblica un intervento di Amir  Taheri sulla vicenda delle vignette danesi. Ecco il testo:

«La furia musulmana»strilla in prima pagina un quotidiano. «La rabbia dell'Islam travolge l'Europa» replica un altro. «Si avvicina lo scontro di civiltà» avverte un commentatore. Tutti si riferiscono ovviamente alle violenze scatenate dalle vignette sul profeta Maometto pubblicate da un giornale danese quattro mesi fa. Da allora ci sono state manifestazioni ovunque e le ambasciate e i consolati dei Paesi scandinavi sono sotto assedio.
Fino a quale punto questi manifestanti possono essere considerati rappresentativi dell'Islam? La «macchina dell'odio» è stata messa in moto dai Fratelli Musulmani, un'organizzazione di natura politica piuttosto che religiosa che ha spinto nelle piazze i simpatizzanti in Medio Oriente e Europa. Yussuf Al Qaradawi, uno sceicco appartenente ai Fratelli che conduce un programma su Al Jazira, ha emesso una fatwa. Non volendo essere da meno, il Partito della Rivoluzione Islamica e il Movimento degli Esuli, rivali dei Fratelli, si sono gettati nella mischia. E sperando di trarre qualche vantaggio, i leader del Baath siriano hanno abbandonato sei decenni di rivendicazioni «laiche» per guidare a Damasco e a Beirut l'attacco alle sedi danesi e norvegesi.
Secondo Tariq Ramadan, un giovane membro dei Fratelli che stranamente è consigliere del ministero dell'Interno britannico, la posizione dell'organizzazione potrebbe riassumersi così: raffigurare Maometto (ma anche gli altri profeti dell'Islam) è contro i principi della religione; il mondo islamico non è abituato a ridere della religione. Ma entrambe queste affermazioni sono false.
Il Corano non contiene ingiunzioni contro le immagini di Maometto o di chicchessia. Ai tempi della sua diffusione in Medio Oriente l'Islam venne a contatto con gruppi di cristiani iconoclasti.
Alcuni teologi musulmani pronunciarono fatwa contro le raffigurazioni del volto di Dio. La tendenza si è rafforzata perché l'Islam ha inoltre fatto propri i dieci comandamenti dell'ebraismo, uno dei quali vieta proprio di rappresentare il divino. La questione non è mai stata decisa in maniera definitiva e la pretesa di vedere nel divieto delle immagini «un principio assoluto dell'Islam» è puramente politica. L'Islam poggia su un solo principio assoluto: l'unicità di Dio. Dal punto di vista della teologia islamica, il voler inventare altre regole assolute non ècheshirq, idolatria, ossia appropriarsi da parte di Molti degli attributi di colui che è Uno.
La storia ha confutato l'argomentazione secondo cui il divieto di raffigurare Maometto e i profeti costituisce un principio assoluto dell'Islam. Molti artisti musulmani, spesso ingaggiati da governanti credenti, hanno firmato ritratti di Maometto. Sarebbe impossibile elencarli tutti, ma ecco alcuni dei più famosi. Sultan Muhammad- Nur Bukhairi nel Cinquecento raffigurò Maometto sul cavallo Buraq nel suo viaggio notturno verso il paradiso. In una miniatura persiana del Seicento il profeta è insieme a Hurairah, il suo gatto preferito. Due secoli più tardi Kamaleddin Behzad dipinge una miniatura di Maometto che contempla una rosa formata da una goccia di sudore caduta dalla sua fronte. Del Settecento abbiamo un ritratto di Maometto con sette seguaci e nell'Ottocento Kamal ul-Mulk dipinge
Maometto che indica con una mano all'unicità di Dio.
Alcuni di questi ritratti sono conservati nei musei di Turchia, Uzbekistan, Iran. Ma anche in Europa troviamo miniature del Profeta coperto da un manto o da una maschera. Diversi scultori iraniani e arabi contemporanei hanno realizzato busti del Profeta. Nella sede della Corte Suprema degli Stati Uniti, a Washington, fra le statue dei grandi legislatori dell'umanità, ce n'è proprio una di Maometto. Per non dire della testa di Maometto, la sabz qaba, incisa sui medaglioni indossati dai giannizzeri, il corpo d'élite dell'esercito ottomano.
Che il mondo islamico non sia abituato a ridere della religione è vero, ma solo se lo limitiamo a Fratelli Musulmani, salafiti, Hamas, Jihad islamica e Al Qaeda. Tutte queste, però, sono organizzazioni politiche mascherate da movimenti religiosi, non rappresentano l'Islam, così come il partito nazista non era l'unica espressione della cultura tedesca. Il loro tentativo di far apparire l'Islam come una cultura grigia e priva di senso dell'umorismo è parte dello stesso concetto che vede nel martire suicida il modello a cui devono aspirare i veri credenti.
In verità, l'Islam ha sempre avuto senso dell'umorismo, non ha mai invocato il taglio della mano dei disegnatori satirici. Lo stesso Maometto perdonò il poeta della Mecca che per oltre un decennio si era preso gioco di lui. Sia la letteratura araba che quella persiana pullulano di «prese in giro» della religione talvolta persino irriverenti. Anche qui sarebbe impossibile fare un elenco completo. Ma chi conosce la letteratura islamica sa che in Mush va Gorbeh (Il topo e il gatto), Ubaid Zakani non ha nulla da invidiare a Rabelais. Il monologo di Sa'adi sul tema del diavolo si fa beffa dei più «puri e duri», e Attar se la ride dello sceicco ipocrita che cadendo nel Tigri affoga nella sua lunga barba. Il punto più alto della satira è raggiunto da Rumi, dove un pastore entra in combutta con Dio contro Mosè. Alla fine i tre si fanno una bella risata.
L'etica islamica poggia su «limiti e proporzioni». Questo significa che la risposta a una vignetta offensiva deve essere un'altra vignetta offensiva e non l'incendio di una sede diplomatica o il rapimento di coloro i quali sono stati scelti come nemici.
L'Islam rifiuta l'idea della colpevolezza per associazione. I musulmani non devono biasimare tutti gli occidentali per le vignette di cattivo gusto di un disegnatore satirico che mirava a offendere. E chi prova sgomento di fronte alle folle assoldate per saccheggiare ambasciate in nome dell'Islam non può né deve biasimare tutti i musulmani per queste espressioni di violenza fascista.

La STAMPA pubblica a pagina 15 un'intervista allo scrittore siriano, esule in Germania,  Rafik Shami. Ecco il testo:

«Non siamo marionette in mano altrui. Noi arabi sappiamo benissimo distruggerci da soli». Sta provocando? «No, purtroppo è proprio così. L’idea che quel che accade nei paesi islamici sia il prodotto della colonizzazione o dell’incomprensione o ancora di politiche sbagliate dell’Occidente può forse solleticare il masochismo europeo, ma è sbagliata». Rafik Shami vive in Germania dal ‘71, e cioè da quando era studente. Scrive in tedesco. Siriano, nato nel quartiere cristiano di Damasco, si è ritrovato automaticamente esule, e oppositore del regime che governa il suo paese, per il semplice fatto di dire e pubblicare - anche sui giornali tedeschi - quel che pensava. «Basta che uno pronunci parole tabù come “riconciliarsi con Israele” o coordini un incontro fra palestinesi e israeliani, come mi è accaduto a Francoforte, per diventare un “nemico” del regime»
In Siria non è mai tornato, ma sulla Siria ha scritto il libro della vita: una saga famigliare che racconta un secolo di storia dal punto i vista della minoranza cristiana. Rafik Shami ha trovato la sua Macondo e ne ha fatto «Il lato oscuro dell’amore» (Garzanti), un romanzo di oltre 800 pagine Il parallelo con Garcia Marquez è quasi ovvio, date le dimensioni del racconto, la capacità analitica, l’epicità alternata al lirismo, il respiro narrativo. Niente «realismo magico», invece. E niente parole d’ordine. «Il lato oscuro dell’amore» si chiude negli Anni Settanta, fermando l’immagine su una Siria governata dal solito regime dispotico e corrotto, ma anche attraversata da fermenti di modernità e di apertura nella vita quotidiana.
Salvo dispotismo e corruzione, ora tutto sembra cambiato.
«Gli Anni ‘70 sono stati il punto di rottura, subito dopo è arrivato il passo indietro. Si è passati dalla speranza alla frustrazione. Nessun progresso, nessun brevetto, che è un ottimo indice per capire se una società è in movimento o meno, pensi alla Corea del Sud e al suo boom di quegli anni; niente democrazia, va da sé; niente letteratura; e niente politica, se non per quanto riguarda il petrolio».
Un mondo congelato?
«Quando si scivola verso il basso, si tenta di aggrapparsi a qualcosa. Disgraziatamente, l’appiglio erano sciocchezze come il califfato, e in genere il fondamentalismo».
Che ora è in agitazione per le vignette su Maometto.
«Le caricature sono brutte, rasentano l’antisemitismo, insomma propongono una rappresentazione offensiva. Il fatto è che siamo in presenza di due fondamentalismi, uno con la cravatta e uno con la barba: si fronteggiano cercando di manipolare gli umori della gente».
Anche secondo lei proteste violente, gli assalti alle ambasciate, non sono un fenomeno spontaneo?
«A Damasco se cinque persone si riuniscono senza autorizzazione, finiscono subito in galera. Quegli incendi sono una vergogna, e i boicottaggi ovviamente una sciocchezza».
Una tesi corrente è che tanto rancore derivi da un «amore tradito» verso l’Europa e l’Occidente.
«Saddam Hussein mi pare un perfetto prodotto tribale arabo. Oppure il mio paese: credo nessun europeo abbia mai consigliato a un arabo di lasciare una repubblica in eredità a suo figlio. Questo sì che è un brevetto. Siriano».
Lei è molto pessimista sulle possibilità che la situazione possa cambiare?
«Diciamo che non sono disperato, ma dubbioso sì. La società araba e islamica segna il passo; si maschera di una certa modernità, ad esempio nei consumi o nell’uso delle tecnologie, ma è appunto una maschera. All’interno non è cambiato nulla».
In un’intervista con «La Stampa», il filosofo Sebastiano Maffettone parlava di una postmodernità in salsa premoderna, nel nostro Sud come nei paesi arabi. Lei è d’accordo?
«Ma certo. E’ quel che emerge anche in Camilleri, scrittore che adoro. Nella sua Sicilia vedo la mia Siria».

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