Hamas al potere ora diventa un "esperimento democratico". A impegnarsi per sdoganare Hamas è, su La REPUBBLICA del 7 febbraio 2006 Bernardo Valli. Ecco l'articolo:
Lo stesso invito mi viene da più parti. Il primo a rivolgermelo è un consigliere di Mahmud Abbas (Abu Mazen). Lo incontro all´Hotel Gran Park, dominante la città bianca, quasi immacolata vista dall´alto, da dove non si vedono i quartieri tarlati, nascosti tra le pieghe dei nuovi edifici costruiti, mi dicono, «dai palestinesi d´America». Per convincermi il consigliere del presidente dell´Autorità palestinese usa parole appassionate. Un identico discorso mi viene tenuto più tardi nel recinto della Muqata, dove è sepolto Yasser Arafat e lavora il successore Abu Mazen. Tutti ripetono la stessa esortazione, come se ubbidissero a una parola d´ordine: liberati dallo scetticismo, dalla diffidenza, dal pessimismo di cui ti sei abbeverato a Gerusalemme e a Gaza, in Israele o nel resto della Palestina, raccogliendo i giudizi sul 25 gennaio. Il giorno del voto conclusosi con la sconfitta di Al Fatah e il successo di Hamas. «È una zavorra, ti impedirebbe di capire», mi dicono. Capire cosa? «Che stiamo vivendo quel che nessuna altra società araba ha conosciuto». Anzitutto, spiegano, è in corso un´alternanza democratica. Un partito, sconfitto in libere elezioni, sta cedendo le redini del governo al partito vincente. Non è un miracolo? Ricordo l´Algeria del ‘92? Là i fatti presero un´altra piega. Quando il Fis, il partito islamico, stava vincendo, l´esercito intervenne, sospese le elezioni, e cominciò la guerra civile. Qui, al contrario, tutto avviene, almeno per ora, nel rispetto della legalità. È in corso una trattativa, inedita come l´alternanza democratica, tra una forza laica, pragmatica, e una forza religiosa, non proprio fondamentalista, ma senz´altro vincolata a dei dogmi, ai principi coranici. Una forza, aggiungo io, per ora non disposta a rinunciare all´uso delle armi (vale a dire al terrorismo). Certo, ammettono i due consiglieri, ma il dialogo, senz´altro difficile, tra le due correnti del mondo musulmano dovrebbe arrivare a un compromesso politico, nel rispetto di valori condivisibili, accettabili, si spera, anche dal resto del mondo. Replico che la « zavorra» pesa. È ingombrante. Da Gerusalemme, in poco più di mezz´ora si raggiunge Ramallah. Il viaggio si allunga se i posti di blocco israeliani sono intasati da colonne di automobili. Questa volta il passaggio tra i due mondi in aperta tenzone è rapido, senza intoppi, ma per me non privo di sorprese. Pensavo di trovare tensione, smarrimento, confusione, come a Gaza, l´altra parte della Palestina, isolata, ma non più occupata, e invece scopro un´atmosfera in apparenza distesa. Non ci sono neppure state manifestazioni di protesta, come a Gaza, per i fumetti danesi raffiguranti il Profeta. La prima spiegazione è che Ramallah è una città più laica, e anche meno depressa economicamente. Eppure il naufragio politico di Al Fatah, il partito-stato, da quarant´anni detentore del monopolio del potere, le cui tessere erano e sono ancora le carte di identità dei centosessanta mila e più dipendenti pubblici, dai funzionari ai poliziotti ai netturbini, dovrebbe essere stato un trauma. E in effetti il trauma c´è stato. Ma Abu Mazen, rappresentante del partito laico, pragmatico, non è uscito di scena. È rimasto al potere. Ha imposto un equilibrio alla svolta. Ha posto le sue condizioni a Hamas. Adesso nei suk, o nell´attesa ai posti di blocco israeliani, la gente riesce persino a scherzare sull´imminente avvento al governo del partito religioso. Dice ridendo: «Presto andremo a prendere lo stipendio nelle moschee. Speriamo che siano più puntuali nel pagarlo». In gennaio, per mancanza di fondi, l´Autorità palestinese gli stipendi non li ha pagati. Per le strade di Ramallah non ci sono più ragazze del solito col fazzolettone bianco che copre i capelli, come accade a Gaza. Hamas ha vinto le elezioni, avrà la maggioranza nel nuovo Parlamento (del quale è prevista la prima riunione il 16 febbraio), ma Abu Mazen resta alla testa dell´Autorità Palestinese, resta il capo di quello che sarà lo Stato palestinese (se un giorno vedrà infine la luce). La legge fondamentale, equivalente a una Costituzione, ha un´impronta semipresidenziale, assai simile al sistema francese. Quindi, eletto a suffragio universale un anno fa, Abu Mazen rimane in carica fino alla fine del mandato, dotato di ampi poteri, nonostante il suo partito, Al Fatah, sia stato sconfitto alle legislative. Egli dovrà «coabitare», come si dice a Parigi, con un governo formato da Hamas. Un compito senz´altro più arduo di quello affrontato dal socialista Mitterrand costretto a convivere con un governo di destra; o dal gollista Chirac costretto a convivere con un governo socialista. Abu Mazen, sia pure dimezzato nelle prerogative presidenziali, dispone tuttavia, almeno formalmente, di più poteri di quelli di un capo di Stato francese nelle stesse condizioni. Sui problemi essenziali, quali la sicurezza e l´economia, il Parlamento può ostacolare le sue decisioni soltanto con una maggioranza di due terzi, di cui Hamas non dispone. Abu Mazen ha fatto valere questa sua posizione di forza subito, appena conosciuto il risultato elettorale. Lo ha fatto con fermezza. Ha precisato anzitutto che gli impegni assunti dall´Autorità palestinese, dagli accordi di Oslo in poi, saranno rispettati. Questo significa che il riconoscimento dello Stato ebraico, nonostante il rifiuto di Hamas, resterà valido. Intoccabile. Come resta immutabile l´obiettivo, condiviso da Hamas, di creare uno Stato palestinese. E Abu Mazen, per sottolineare la necessità di uno stretto rapporto con gli Stati Uniti, ha ricordato che quest´ultimo impegno, la creazione di uno Stato palestinese, è condiviso dal presidente americano. Più in generale il presidente palestinese ha elencato i punti chiave del suo programma, dal rispetto della libertà di espressione all´uguaglianza dei diritti di donne e uomini. È su questa base che si svolgono le trattative tra il presidente laico e moderato e il partito religioso, pronto a entrare in Parlamento, ma senza rinunciare alle armi («perché il Paese è occupato»), pronto a trattare con Israele, ma senza riconoscere la legittimità dello Stato ebraico. Altri problemi cruciali sono sul tappeto: in particolare il controllo delle forze di polizia e il ruolo delle milizie armate di Hamas, più robuste ed efficaci di quelle dell´Autorità palestinese. Hamas vorrebbe mettere le mani anche su queste ultime, ma Abu Mazen non sembra disposto a cedere. Non sarà semplice raggiungere un compromesso. Lo scetticismo, la diffidenza, il pessimismo, di cui dovrei liberarmi, secondo i consiglieri di Abu Mazen, restano forti. Ma non sfugge l´importanza della posta in gioco, non soltanto per quanto riguarda la questione israelo-palestinese. Quel che è sul tappeto è la possibilità di inserire un partito armato, islamista, a lungo dedito al terrorismo, in un processo politico. È possibile recuperarlo? La Palestina non è ancora uno Stato, ma è un laboratorio in cui si tenta di riciclare i terroristi. Il protagonista di questa impresa è Abu Mazen, un uomo politico di scarso valore sul mercato locale e internazionale, fino a due settimane fa. Il capo di uno Stato inesistente. L´interlocutore giudicato fino a ieri non abbastanza forte per essere preso sul serio. Un successore sbeffeggiato perché troppo incolore per raccogliere l´eredità di Arafat. E, ancora, il leader deriso perché caduto nella trappola di una libera elezione da lui stesso voluta, e conclusasi con la sconfitta del suo partito. Quest´uomo, che sembrava destinato a un´inevitabile morte politica, è adesso al centro di un´avventura politica senza precedenti in una società araba. Su di lui sono appuntati gli sguardi, sia pur scettici, dei governi vicini e lontani, arabi e occidentali. Non solo di quello israeliano, che occupa militarmente il territorio su cui lui, Abu Mazen, esercita ufficialmente la suprema autorità. Il professor Nazmi al-Ju´beh, insegnante di storia all´Università di Birzeit, è un laico liberal. Come molti altri intellettuali palestinesi non nasconde di essere stato traumatizzato dalla vittoria elettorale di Hamas. È convinto che questo non cambierà la vita quotidiana della gente perché la stragrande maggioranza non vuole sottomettersi a leggi religiose, e i dirigenti di Hamas sanno che gli elettori hanno votato contro la corruzione e l´inefficienza di Al Fatah, e non per i Fratelli Musulmani. Ma il professor al Ju´beh è altrettanto convinto che Hamas non rinuncerà ad alcuni suoi principi. Ad esempio, non riconoscerà lo Stato ebraico. Pur essendo pronto a importanti compromessi. Partecipando alle elezioni, Hamas è incorso nella condanna di Al Qaeda, che come movimento fondamentalista rifiuta di inserirsi nelle istituzioni ritenute di tipo occidentale. Respinge persino l´idea di nazione o di Stato moderno, i confini essendo soltanto quelli che dividono i musulmani dagli infedeli, e le sole leggi valide e praticabili sono quelle del Corano e testi annessi. In quanto all´azione terroristica, mentre Al Qaeda non pone dei limiti, Hamas la considera legittima soltanto nei paesi occupati. Hamas non appartiene a una corrente integralista, fa parte della confraternita dei Fratelli musulmani, assai più elastici. È quindi pronto a partecipare a qualsiasi tipo di sistema politico, compreso quello democratico, o rappresentativo, e a rispettare la libertà di espressione che esso comporta. Le tregue, i compromessi, possono durare a lungo, e sono rinnovabili. La società deve essere trasformata attraverso il consenso e non con la forza. Alcuni esperti considerano i Fratelli musulmani degli "entristi", come una volta venivano definiti i trozkisti nel mondo comunista. Sanno cioè acquattarsi in una istituzione, o una società, nell´attesa di poter raggiungere i loro obiettivi. Le attese possono essere senza limiti di tempo. Messi alla prova, stretti dagli imperativi di chi governa, e al centro della società forse più laica, o meno religiosa, del mondo arabo, i dirigenti di Hamas potrebbero rivelarsi riciclabili. I consiglieri di Abu Mazen lo sperano.
Sul RIFORMISTA Mario Ricciardi sostiene che tra le condizioni che l'Unione Europea presumibilmente porrà per la continuazione degli aiuti all'Anp non dovrebbe figurare il riconoscimento del diritto all'esistenza di Israele. Basta che sia garantito che nell'Anp si torni a votare "democraticamente"... Ecco il testo:
La vittoria di Hamas nelle elezioni in Palestina ha provocato nella classe politica del nostro paese reazioni di sorpresa, sgomento, condanna. Sentimenti e giudizi comprensibili e, in qualche misura, condivisibili. Tuttavia, soprattutto se confrontati con la discussione che sta avendo luogo in altri paesi, essi tradiscono una certa superficialità. Un osservatore malizioso potrebbe pensare che maggioranza e opposizione avessero fretta di dire la «cosa giusta» senza perdere troppo tempo, per tornare a occuparsi di cose più importanti (tipo la prossima trasmissione di Michele Santoro). Malizia a parte, quel che sta accadendo in Palestina ci riguarda almeno quanto ciò che avviene negli studi Rai o Mediaset, se non altro perché potrebbe avere conseguenze significative non solo per il Medio Oriente ma anche per l'Europa. Su sorpresa e sgomento c'è poco da dire: le elezioni sono state vinte da un partito fondamentalista, che appoggia un terrorismo particolarmente odioso, e non ha mai fatto mistero delle proprie intenzioni malvagie. Ciò nonostante, ci sarebbe ragione di non farsi prendere troppo la mano dall'emotività, e formulare giudizi un po' più sfumati, che tengano conto dei diversi aspetti della situazione. Non solo perché, come ha sostenuto Emanuele Ottolenghi, la portata del successo di Hamas potrebbe costringere i dirigenti del partito a prendersi fino in fondo la responsabilità di dare una risposta praticabile al problema palestinese. Ci sono anche altre considerazioni che dovrebbero far valutare in modo non del tutto negativo il risultato elettorale, traendone spunti di riflessione per la politica estera europea e italiana.
In primo luogo nessuno, neanche gli sconfitti, ha seriamente messo in discussione la correttezza di queste elezioni. Per quel che ne sappiamo il popolo palestinese ha votato liberamente formulando, nei limiti imposti dalle circostanze tutt'altro che favorevoli, un giudizio sulla classe dirigente che ne ha guidato le sorti per anni. Che il giudizio sia stato così nettamente negativo non può dipendere soltanto dal fanatismo di candidati ed elettori. Una parte, probabilmente significativa, dei palestinesi, avendone l'opportunità ha ragionato come farebbe qualunque essere umano mediamente razionale e informato, scegliendo il minore dei mali. In un paese afflitto da condizioni economiche disastrose, che la vecchia leadership di Fatah non è riuscita ad alleviare, liberarsi di governanti corrotti e inefficienti è apparsa la cosa migliore da fare, dunque Hamas il minore dei mali. Per quanto la prospettiva di una Palestina governata da un partito fondamentalista non sia una cosa che può farci piacere, dal punto di vista dello sviluppo di una normale dialettica democratica essa non può essere trascurata. Certo sono molte le condizioni che devono essere soddisfatte perché l'ambiente in cui un regime democratico può fiorire diventi stabile, e non è facile capire come sia possibile realizzarle con Hamas al governo.
Tuttavia, sarebbe irragionevole negare che un piccolo passo avanti in tal senso è stato fatto. La cosa non è priva di interesse per il dibattito, in buona parte di maniera, che c'è stato nel nostro paese sulla possibilità che una forma di governo democratica prenda piede anche presso popoli e culture che non ne hanno mai avuta una. Recandosi alle urne e facendo le proprie valutazioni di principio e di interesse i palestinesi (come gli iracheni e gli iraniani) hanno mostrato che essere in grado di influire sul proprio destino non è una cosa importante solo per gli occidentali. D'altro canto, la possibilità di votare non è sufficiente perché ci sia una società nella quale ciascuno abbia il diritto di perseguire i propri progetti di vita (e di felicità) liberamente, senza interferenze e nel rispetto dell'eguale libertà altrui. Che questo, molto più ambizioso, obiettivo si realizzi è la sfida che abbiamo davanti, e ci sono diversi modi in cui i paesi occidentali possono contribuire agli sforzi che sono necessari per superarla con successo.
L'Unione europea sembra intenzionata a usare i finanziamenti come strumento di pressione. L'idea è buona, ma si dovrebbe riflettere con attenzione sul modo di attuarla. Piuttosto che chiedere un riconoscimento di Israele che, per quanto giusto sul piano dei principi, ha poche possibilità di essere accettato oggi, si dovrebbe stabilire requisiti rigorosi ma ragionevoli che abbiano in primo luogo l'obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei cittadini di Palestina, qualunque sia la loro origine o fede religiosa. Rispondere alla domanda di buon governo che viene dal voto impegnandosi perché la corruzione diminuisca, la sicurezza sia garantita, la legge rispettata. Non può esserci giustizia in Medio Oriente senza riconoscimento del diritto all'esistenza di Israele, ma è giunto il momento di lasciarsi alla spalle una neutralità che è soltanto la maschera della pigrizia e della viltà, e sfidare Hamas dall'interno dei meccanismi della democrazia palestinese per evitare che dopo averla usata la strangoli sul nascere. Per realizzare questo scopo la politica europea deve abbandonare la prospettiva formalista che fino a oggi ha consentito che i finanziamenti venissero gestiti in modo poco trasparente da un governo corrotto. Bisogna individuare interlocutori locali, che non siano solo governanti e politici, per promuovere la fioritura di una società civile in Palestina. Il compito è ambizioso e la probabilità di realizzarlo non alta, ma dal portarlo a termine dipendono le prospettive di una pace duratura che non si regga solo sulla forza.
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