Pubblichiamo dal Riformista di venerdì 23 gennaio 2006 un'allarmata analisi di Stefano Cingolani sulle prossime elezioni palestinesi e sul generale fenomeno di affermazione elettorale del fondamentalismo islamico nel mondo arabo. Cingolani avverte che si commette un'errore tentando di costruire istituzioni liberali attraverso il metodo democratico. Il percorso produttivo è quello inverso. Prima le istituzioni liberali, poi il voto. Che si condivida o meno la sua analisi, è bene riflettervi. Ecco il testo:
Il voto palestinese chiude un ciclo elettorale che ha visto alle urne quasi duecento milioni di musulmani in un arco che va dall’Egitto all’Iran passando per l’Afghanistan, l’Iraq (ha votato ben tre volte in un solo anno) e il Medio oriente (Libano e Palestina). Ovunque i movimenti e i partiti che si ispirano all’Islam radicale hanno avuto dei buoni risultati. In Iran hanno portato al potere il populista Ahmadinejad. Nei paesi arabi non hanno vinto (anche per la ferrea presa dei regimi autocratico- nazionalisti) ma sono in grado di condizionare la vita politica. Se s’afferma Hamas nei territori palestinesi (Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est) questo condizionamento sarà pesantissimo e avrà un impatto al di là dei confini nazionali. Il vento radicale soffia anche sul corpo vivo del gruppo politico principale, quello di Fatah, diviso in fazioni, con la corrente di Marwan Barghouti in crescita (ha tentato la scissione per creare un nuovo partito, Al Mustaqbal, Il futuro) e le milizie armate che durante la campagna elettorale hanno scorrazzato per mostrare muscoli e kalashnikov. I sondaggi attribuiscono a Hamas almeno un terzo dei 132 seggi.Ma nessuno è in grado di calcolare l’equilibrio interno a Fatah, tra la vecchia guardia di Mahmoud Abbas e i giovani leoni che vogliono prendere il potere.Dunque,mercoledì si gioca una doppia partita, quella tra Fatah e Hamas e quella dentro Fatah tra Barghouti e Abu Mazen. Molti osservatori danno per scontata una grande coalizione tra Fatah e Hamas. E in Israele i realisti pensano che sia l’unico modo per assicurare una leadership solida con la quale trattare. La scorsa settimana, Shimon Peres ha detto che bisogna aprire un negoziato vero e proprio con Hamas.Naturalmente, se rinuncia alla violenza e depone le armi. Ma tutti sanno che nelle trattative con le milizie combattenti, le armi vengono deposte ad accordo raggiunto (Nord Irlanda insegna). E’ probabile che questa sia l’unica strada verso una pace (almeno temporanea) e tutti in Israele e in Palestina dovranno fare di necessità virtù. Del resto, la strategia inclusiva porta più frutti di quella esclusiva: la partecipazione alla politica rappresenta un passo avanti. E ciò vale anche per l’Iraq: i combattenti sciiti si sono già trasformati in partito, quelli sunniti si muoveranno sulla stessa strada. Ma, quando sarà concluso questo grande movimento verso la democrazia che si è innescato, anche grazie alla strategia americana, che cosa ne uscirà? L’arco della «democrazia illiberale» (come la chiama Fareed Zakaria) sarà diventato più ampio.E ciò è la fonte di nuovi potenziali pericoli. Non c’è dubbio che i partiti radicali (i Fratelli musulmani in Egitto, Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, i pasdaran in Iran, i gruppi sciiti in Iraq) spingono per costruire regimi islamici, democratici molto più di quelli attuali, ma ancor meno liberali. Ovunque la stessa strategia, ovunque le stesse parole d’ordine: lotta alla corruzione del potere, legame con gli strati più poveri della popolazione, organizzazione di strutture di assistenza (un vero welfare diffuso) e di sicurezza, con milizie che proteggono dai soprusi del governo, fino a diventare uno stato nello stato. E il Corano come legge fondamentale, architrave dell’intero corpus giuridico e politico. «I politici americani e israeliani - scrive Zakaria nel suo libro Il futuro della libertà - hanno spesso criticato l’Autorità palestinese per la sua mancanza di democrazia. Ma in realtà Yasser Arafat era il solo leader del mondo arabo scelto attraverso elezioni ragionevolmente libere. Il problema dell’autorità palestinese risiede non nella sua democrazia, ma nel suo liberalismo costituzionale, ovvero nella sua mancanza». L’arco delle democrazie illiberali si estende ben al di là del Medio oriente. Entra nel cuore dell’Asia musulmana e post-sovietica. Certo, sempre meglio prendere il potere con il voto che un colpo di stato come quello di Musharraf in Pakistan, che ha cancellato un regime democratico semiliberale già scosso alle fondamenta durante la dittatura del generale Zia. Le elezioni sarebbero un passo avanti (che forse non verrà mai compiuto) nel più storico e strategico alleato degli americani, l’Arabia Saudita. Dunque, attenti alle fughe in avanti.Tuttavia è paradossale (e irrealistico) credere che il mondo islamico possa compiere un cammino inverso a quello dell’occidente, dove la libertà attraverso le leggi affermatasi nel 700 ha condotto alla democrazia quasi due secoli dopo. E’ questo il vero punto debole della rivoluzione democratica versione neo-con del quale non si discute, mentre ci si divide (e non solo a sinistra) su un aspetto tutto sommato secondario, cioè se la democrazia sia esportabile, pacificamente o con le armi. Sarebbe ora di cambiare ordine del giorno.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Riformista