L'UNITA' di martedì 20 settembre pubblica in prima pagina e a pagina 24 un articolo di Leonardo Paggi su Amos Oz e sulla sua visione del Medio Oriente e dei suoi rapporti con l'Europa.
Due sono le affermazioni centrali dell'analisi di Paggi e, nella sua ricostruzione forse parziale, di Oz stesso.
L'equivalenza tra colonialismo e antisemitismo come pagine buie della storia europea e la negazione del diritto storico degli ebrei sulla terra di Israele.
L'attribuzione di queste posizioni ad Oz non è supportata da nessuna precisa citazione di suoi scritti o dichiarazioni, cosa che, se possibile, sarebbe stata opportuna.
La critica sostanziale, comunque, è di merito, dato che Paggi palesemente condivide le idee che attribuisce ad Oz.
L'equiparazione tra colonialismo e antisemitismo si trova su una linea culturale che rimonta all'accademico palestinese Edward Said, il quale, cofondendo fenomeni diversi e non pargonabili, è riuscito a montare una gigantesca frode culturale che fa del sionismo l'ultima incarnazione dell'antisemitismo e della Shoah un'episodio della storia del colonialismo.
Nella logica più moderata di Paggi l'Europa in quanto colonizzatrice del Medio Oriente e in quanto persecutrice degli ebrei è l'unica reponsabile del conflitto israelo-palestinese. Chi oggi nei paesi arabi e islamici rifiuta l'esistenza di Israele, promuove l'antisemitismo e il terrorismo non ha alcuna responsabilità.
La legittimità di Israele, d'altro canto, discende esclusivamente dalle colpe che l'Europa ha verso gli ebrei, non dal legame storico di questi ultimi con la terra di Israele, nè dal diritto all'autodeterminazione dei popoli, o, semplicemente, dal fatto di essere l'unico Stato della regione a rispettare i diritti individuali. Se le cose stessero davvero come sostiene Paggi non si vede perché mai gli arabi dovrebbero accettare l'esistenza di Israele, tanto più che le corresponsabilità delle loro leadership filonaziste nella persecuzione degli ebrei europei e le persecuzioni subite dagli ebrei orientali sono dimenticate (sono "accuratamente dimenticate", sarebbe forse opportuno scrivere, nonostante l'ossimoro) enon riantrano nel quadro.
Sarebbe allora naturale che il ruolo dell'Europa nella vicenda mediorientale, rimanesse in sostanza quello, assolutamente dannoso, giocato in questi anni. Quello cioè di chiedere a Israele di fare sempre nuove concessioni a senso unico agli arabi, per "comprare" (senza mai ottenerlo) il proprio diritto all'esistenza e il diritto dell'Europa a una immeritata buona coscienza, verso gli arabi da lei colonizzati e verso gli ebrei da lei sterminati.
Paggi resta nel vago quando si tratta di delineare concretamente il ruolo dell'Europa nel Medio Oriente, che lui auspica diventi più significativo.
Ma, tra le righe del suo articolo, nella lettura storica inconsistente (per esempio perché dimentica completamente che le potenze coloniali europee hanno soltanto colmato, in Medio Oriente, lo spaventoso vuoto di potere lasciato dalla caduta dell'Impero Ottomano, un processo epocale che non poteva non avere strascichi di guerre e conflitti per la definzione di un nuovo ordine geopolitico) che dà del conflitto mediorientale si leggono chiaramente i termini essenziali della psicopatologia geopolitica europea. Che, seguendo l'analisi di Paggi, potrebbe solo rimanere com'è o peggiorare.
Ecco il testo dell'articolo:La motivazione con cui è stato recentemente assegnato ad Amos Oz il premio Goethe fa riferimento, oltre che alle qualità artistiche, anche all’impegno civile del sempre più celebre scrittore israeliano. Oz è infatti anche un leader riconosciuto del movimento Peace Now che, fondato nel 1979 in occasione della restituzione del Sinai agli egiziani, ha sempre sostenuto la tesi della creazione di due Stati lungo i confini del 1967, battendosi contro quella spinta alla colonizzazione dei territori palestinesi innescata dalla guerra dei sei giorni.
Una spinta che, paradossalemnte, non sembra essersi esaurita nemmeno oggi, dopo la evacuazione di Gaza.
Ripercorrendo in questa prospettiva alcuni scritti di Oz si rimane colpiti non solo dalla fortissima circolarità di temi che si stabilisce tra la saggistica politica e la produzione letteraria, ma anche dalla estrema centralità che assume, nelle due modalità di scrittura, il rapporto con l’Europa. Si tratta di un dato assai peculiare nel panorama della cultura israeliana, che merita forse una riflessione specifica.
Il conflitto arabo-israeliano dice Oz (Contro il fanatismo, Feltrinelli, 2004, p.65) chiama in causa due vittime dello stesso oppressore: «L’Europa che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura, è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia, e infine sterminato in massa gli ebrei». Si tratta di uno spunto ricco di implicazioni sul terreno dell’analisi storica. Colonialismo e antisemitismo sono in effetti le due grandi derive catastrofiche dello stato nazione europeo dal 1875 al 1945. Gli ingredienti fondamentali della crisi mediorientale hanno radici qui, da noi, sono un prodotto della nostra storia, a partire dalla svolta che si determina all’indomani della prima guerra mondiale in ragione di due fattori diversi e tuttavia strettamente concomitanti: a) la spartizione dell’area tra Francia e Inghilterra in omaggio agli accordi Sykes-Picot del 1916, che stracciano l’impegno coevo per la ricostituzione di una unica grande nazione araba, e che approdano alla creazione diffusa di un regime mandatario di tipo classicamente imperiale; b) un flusso emigratorio degli ebrei che si fa ora per la prima volta ininterrotto e massiccio per il dilagare dell’antisemitismo prima nell’Europa orientale e poi in Germania e che determina rapidamente la massa critica necessaria alla futura costituzione dello Stato.
Assumendo una prospettiva concretamente storica sulle origini del conflitto attuale Oz può sostenere una legittimazione della presenza ebraica in Palestina, che mettendo da parte la tesi rocambolesca del "ritorno" in Palestina dopo diciannove secoli di esilio (Yehoshua svolgendo una critica analoga ha parlato di un presunto, ma inesistente «diritto storico»), insiste invece sul «rischio della sopravvivenza». Ebrei e palestinesi si trovano pertanto in una situazione simmetrica: il loro conflitto assume la forma di uno scontro tra due diritti egualmente validi, diventando proprio per questo tragedia. Senza citarla Oz sembra richiamare quasi alla lettera la interpretazione hegeliana dell’Antigone di Sofocle come raffigurazione di uno scontro tra inconciliabili «potenze etiche contrapposte». Dalla assenza di una possibilità di superamento del conflitto scaturisce la tesi del compromesso inevitabile, da intendersi non come il prodotto di una astratta mediazione della politica, ma come approdo di un riconoscimento reciproco, di una accettazione dell’altro, inevitabilmente dolorosa perché in entrambi i casi lesiva della propria identità, e tuttavia non per questo meno essenziale in ordine all’obbiettivo primordiale: la preservazione della vita.
Questo quadro analitico trova riscontro nell’ultimo romanzo autobiografico di Oz (Una storia di amore e di tenebra, Feltrinelli, 2003). Le vicende della famiglia Klausner (questo il vero nome di Oz) si allargano alla storia del complicato processo di formazione dello stato di Israele. Assai prima della esplosione della violenza nazista, di cui nessuno, in realtà, riesce a prevedere la intensità e le dimensioni, il proliferare dei nazionalismi e degli antisemitismi nell’Europa orientale convince una consistente avanguardia intellettuale e politica che il tempo degli ebrei si sta ormai chiudendo in un’area che pure li ha "ospitati" per secoli.
Si determina così nella coscienza di questi esuli una ambivalenza, che il romanzo di Oz ricostruisce con una eccezionale finezza di dettagli. Da un lato la ripresa della persecuzione provoca una reazione di orgoglio che porta ad abbracciare incondizionatamente il programma sionista. Dall’altro inestinguibile si rivela il loro rapporto con l’Europa, che pure li ha cacciati. La nuova comunità di ebrei russi, polacchi, lettoni, ucraini che si forma a Gerusalemme riproduce un tratto tipico dei personaggi cechoviani: la nostalgia per i luoghi lontani. Dinanzi all’insorgere dei pangermanesimi e dei panslavismi gli ebrei si rivelano essere in quegli anni, dice Oz, gli unici veri europei di Europa. Il mondo emotivo della madre dello scrittore continuerà sempre a ruotare intorno alla sua Rovno, anche dopo che il 7 e l’8 novembre del 1941 l’esercito di Hitler ha massacrato 23 mila ebrei, ossia l’intera comunità, in quei boschi circostanti alla città, che continuano ad ospitare le sue memorie più dolci e struggenti. In questo senso il suo suicidio avvenuto nel 1950, tema assolutamente centrale del romanzo, diventa quasi simbolo del prezzo umano che è stato pagato nella transizione dall’Europa alla Palestina.
Torna tuttavia nel romanzo di Oz con insistenza, e quasi come un contrappunto, anche la figura del pioniere, agricoltore e guerriero, che nel kibbutz lavora per la costruzione di un "nuovo ebreo", non solo diverso ma anche esplicitamente alternativo a quello cosmopolita della diaspora. Un ebreo completamente risolto nella costruzione di una nuova identità nazionale, deciso a rescindere tutti i fili che lo legano al suo trascorso europeo, inteso ora esclusivamente come passato di debolezza. Si potrebbe aggiungere che anche il pioniere è un perfetto europeo, nella misura in cui imita e riproduce la spinta nazionalista da cui fugge. Per chi si identifica con questo "nuovo inizio" sarà persino difficile guardare con empatia ai sopravvissuti della Shoah: il genocidio si è reso possibile anche in ragione della loro acquiescenza (solo con il processo Eichmann del 1961 la memoria della Shoah diventerà memoria ufficiale dello Stato). L’ebraismo diventa così un progetto autosufficiente e totalitario, che innalza i propri livelli identitari, e riafferma costantemente la propria unicità, man mano che si esercita nella lotta contro il mondo esterno.
Anche Amos Oz dopo la morte della madre si trasferisce quindicenne nel kibbutz di Hulda in cerca di una rigenerazione psicologica, che lo distanzi dal passato e dalle memorie dei genitori. Ma la vocazione letteraria lo costringe presto al recupero del suo retaggio: «Sono diventato scrittore anche perché vengo da una famiglia di profughi dal cuore a pezzi. Tutti i miei parenti erano degli europei devoti. In sostanza dei grandi appassionati dell’Europa». Del resto è parte integrante dello scrivere la costante immaginazione del possibile, ossia dell’altro, la percezione di una complessità sempre immanente, quindi l’esercizio continuo del dialogo. In questa pratica di riconoscimento si brucia il mito dell’«ebreo nuovo» che ha alimentato il revisionismo di Jabotinski e poi quello di Begin. Certo nella diaspora c’è stata persecuzione e umiliazione, ma anche una esperienza della pluralità e una convivenza col diverso che ha determinato la forza intellettuale dell’ebraismo. È di per se evidente quali siano le precipitazioni politiche di questo complesso retroterra culturale: l’occupazione dei territori non è un successo, ma anzi una minaccia, un rischio. Sentenzia Efraim, il protagonista del romanzo Fima: «la nostra vittoria ha decretato la nostra distruzione» (Feltrinelli, 2004, p. 171). Gli storici forse diranno un giorno - pensa ancora Efraim - che il vero vincitore della guerra dei sei giorni è stato Nasser!
Dinanzi a questa autobiografia di Amos Oz, così segnata dalla rievocazione storica della società europea, è difficile non domandarsi quale possa essere il ruolo dell’Europa di oggi, a partire da una sua collocazione che nell’insieme è tuttavia obbiettivamente distante dai sentimenti e dalle simpatie dell’opinione pubblica israeliana. Certo il nostro umanitarismo, il nostro buonismo, non è sufficiente a delineare un ruolo preciso di politica estera, e la difesa salomonica del più debole è esercizio troppo facile, proprio di chi intende limitarsi a guardare dall’esterno. La fine del colonialismo(nel 1956) e dell’antisemitismo, quale è rappresentato emblematicamente dalla Germania di oggi (anche se è giusto continuare a suonare il campanello di allarme), non bastano tuttavia a renderci semplici spettatori di quel conflitto. Il Medioriente di oggi può essere visto anche come una sorta di ritratto di Dorian Gray in cui sono scolpiti tutti gli aspetti più ripugnanti del nostro passato. Lì c’è tuttora carne della nostra carne, sangue del nostro sangue. La costituzione di una nuova Europa, in quanto definito soggetto politico, si giocherà forse tutta nella ridefinizione del rapporto tra le due sponde del Mediterraneo. Ma intanto l’evacuazione di Gaza, una "discontinuità" di cui è difficile sottovalutare la portata, è paradossalmente caduta nel silenzio più totale della politica estera europea.
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