LA STAMPA di martedì 13 settembre 2005 pubblica a pagina 5 un articolo di Fiamma Nirenstein sull'assalto alle sinagoghe di Gaza "Una saga dell'odio più che della gioia".
Lo riportiamo:Prima che il sole sorga sulle dune di Gaza, i carri armati escono in una rumorosa, monotona teoria. L'aria è calda e umida. Affacciati dal loro tank due soldati tengono la bandiera del loro Paese in mano, senza enfasi, senza gioia ma come ha detto ieri il Capo di Stato Maggiore ammainando le insegne israeliane da Gaza, «a testa alta». Ormai da anni la pace ha assunto il volto dell'araba fenice. E' ancora buio quando l'ultimo ufficiale israeliano, Avi Kochavi, chiude il cancello. Dice, come il comandante di tutta l'area del Sud, che questo è un momento di speranza «per noi e i nostri vicini».
Nel buio ancora fondo era cominciata la saga della gioia e dell'odio palestinese: a niente servono gli 8500 uomini armati dispiegati lungo il confine, la folla di migliaia di ragazzini e i camion strapieni di gente col mitra imbracciato si precipita nella parte ex-ebraica della Striscia, e certo non è facile riconoscere i segni di un futuro migliore per la pace in quello che accade di lì a poco: le sinagoghe di Kfar Darom, Netzarim e Nevet Dkalim sono le prime a venire assalite dalla folla come un corpo vivo. Non è solo il fuoco, sono le picconate, il lancio di pietre e anche la decisione del leader di Hamas Mahmoud Zahar di pregare (secondo l'antico uso musulmano di conquista) proprio nelle rovine del tempio a forma di Stella di David di Nevè Dkalim, sono le espressioni di trionfo che danno da pensare: tutto quello che la gente dice riflette le indagini per cui il 90 per cento dei palestinesi pensa che l'uscita di Israele da Gaza sia il frutto dell'attacco terrorista portato a Israele dal settembre 2000, e non certo una mano tesa.
Poco lontano, a Alei Sinai, col sole alto, Mahmoud Abbas promana un messaggio diverso quando pianta la bandiera palestinese sulle sabbie di fronte al mare: ristabiliremo l'ordine, comincia un periodo nuovo, l'Autonomia palestinese garantirà benessere e tranquillità. Ma per compiacere il pubblico sia Abu Mazen sia i suoi, come Jibril Rajub, ripetono nelle orecchie di Hamas la promessa di non disarmarli; e per galvanizzare la popolazione Abu Mazen ripete che quello di Gaza e solo un passo, il prossimo è Gerusalemme. E se da una parte esalta il coraggio di Sharon, dall'altra ne sminuisce il gesto dichiarando che Gaza può diventare semplicemente una cella più grande.
Insomma, già da ieri due sono le letture dello sgombero: da una parte, i palestinesi lo leggono come vittoria militare e seguitano a proporre l'idea che anche dentro Gaza continui l'oppressione israeliana. E tuttavia il messaggio politico dei fatti è anche la scelta, persino da parte di Hamas, di aver fatto uscire l’esercito israeliano tranquillamente, e non sotto il fuoco: anche Hamas sa che la reazione sarebbe stata durissima e non vuole venire accusato di aver lasciato inutili «martiri» sul terreno. Dall'altra la lettura israeliana: come si è sentito ieri dire del ministro della difesa Shaul Mofaz sul bordo di Gaza, i palestinesi hanno ora in mano un patrimonio prezioso: esso consiste non solo nel territorio di Gaza, ma anche nella possibilità di costruirsi, affrontando i gruppi terroristi, una credibilità che riconduca alla road map. E se l'Autorità Palestinese si sottrarrà alle sue responsabilità, allora ci sarà una più dura e «nuova» reazione israeliana, dice Mofaz.
Ma mentre le ceneri delle sinagoghe ancora sono calde, insopportabili a tutti gli uomini di buona volontà e condannate dal sempre mite Presidente della Repubblica Moshe Katzav, una parola di speranza viene da Shimon Peres da Kiriat Shmone, al Nord: «Qui quando siamo usciti dal Libano la gente temeva di essere bombardata ogni giorno: invece la vita si è fatta molto più quieta. I palestinesi riusciranno a controllare la situazione».
Affianca l'analisi di Fiamma Nirenstein la cronaca di Aldo Baquis. In rilievo una notizia che riportiamo senza commenti:In migliaia si tuffano per festeggiare nel mare dell'ex colonia Shirat ha-Yam: cinque muoiono annegati.
IL FOGLIO pubblica a pagina 3 l'editoriale "Sinagoghe di nuovo in fiamme". Ecco il testo:Fa una certa impressione l’insensibilità con la quale è stata accolta la notizia che il primo atto dei palestinesi, una volta allontanatesi le truppe israeliane dalla Striscia di Gaza, è consistito nell’incendiare le sinagoghe abbandonate dai coloni, in scene di tripudio popolare. Nessuno degli intellettuali che ci spiegano ogni giorno come sia necessaria la trasformazione "multietnica, multiculturale e multireligiosa" della società ha osservato che la distruzione sistematica di luoghi di culto di un’altra religione non corrisponde affatto ai principi che predicano, ma solo ad altri e in altre occasioni.
Bruciare le sinagoghe non è un atto di antisemitismo? Lo si potrebbbe chiedere a quelli che spiegano sempre che bisogna distinguere tra la politica del governo israeliano, alla quale ci si può opporre per ragioni diverse dall’ostilità al popolo ebraico, e l’antisemitismo, che invece è sempre condannabile. In questo caso il governo israeliano ha deciso di ritirarsi da Gaza, e per questo sembra difficile possa essere criticato. Le sinagoghe non rappresentano nessun governo, sono sedi di culto religioso: darle alle fiamme in un clima di giubilo popolare ha un senso sinistro, che riporta alla mente precedenti terribili. Ma su questo gli ebrei, perché in questo caso si tratta dell’ebraismo, non di Israele, non hanno ricevuto alcuna comprensione, persino l’America ha criticato la mancata distruzione delle sinagoghe da parte degli israeliani perché questo avrebbe messo i palestinesi in condizione "di essere criticati qualunque cosa facciano". Insomma le vittime sarebbero i palestinesi, "costretti" a incendiare le sinagoghe. Con tutta la comprensione per la realpolitik, per l’esigenza di dare all’Autorità palestinese qualche possibilità di acquisire un minimo di controllo sulla situazione di Gaza, è difficile non ribellarsi a una visione così squilibrata. La pace si costruisce sul compromesso e sul rapporto di forza, non sull’illusione di una fraternità impossibile tra popolazioni che la storia ha reso ostili, e meno che mai sulla negazione delle più elementari verità.
LIBERO pubblica a pagina 8 l'articolo di Angelo Pezzana "I palestinesi festeggiano: a fuoco le sinagoghe"
Ecco il testo:L i abbiamo visti nei telegiornali di ieri i palestinesi mentre abbattevano le sinagoghe abbandonate da Israele nella striscia di Gaza. Li abbiamo visti avventarsi su quei poveri muri con la violenza di chi crede che distruggere un edificio sacro equivalga alla libertà finalmente raggiunta. Così come nello scorso mese avevano finto di evacuare le colonie ebraiche con esercitazioni fasulle, perché l'impresa che non gli era mai riuscita nei decenni precedenti e ora si avverava per sola e unilaterale decisione israeliana, così oggi si stanno autoesaltando con un'azione miserabile, che tale non può essere definita diversamente. Mohammed Dahlan, il braccio destro di Abu Mazen a Gaza, ha poco da accusare Israele di averle lasciate in piedi per permettere alle televisioni di riprendere « l'azione di un popolo non civilizzato » . Distruggere un edificio religioso è azione tipica di gente non civilizzata. Se non voleva che le Tv riprendessero quell'orrido scempio aveva soltanto da impedirlo. NIENTE È CAMBIATO Ma sappiamo che era chiedere troppo. I palestinesi, abituati a regolare la loro vita non in base a dei criteri che attengono a principi di giustizia ma in base ai voleri del rais di turno questo hanno imparato e questo mettono in pratica. Se avessero rispettato quello che rimaneva degli edifici religiosi ebraici avrebbero dimostrato che effettivamente qualcosa stava cambiando negli usi e costumi di una popolazione che si sta avviando all'autogoverno. Avrebbero dimostrato ai loro ex occupanti che, per quanto li riguardava, la via della pace era di nuovo aperta. Invece no, hanno ancora una volta rimproverato Israele di essere l'unica responsabile del mancato abbattimento delle ventisei sinagoghe di Gaza, dando vita a un osceno balletto attorno a quei muri che stavano cadendo sotto i colpi di badili e martelli. Certo, Israele avrebbe potuto distruggere le proprie sinagoghe, il governo l'aveva già previsto a giugno, quando Abu Mazen chiese e ottenne da Sharon che tutte le case dei coloni venissero rase al suolo invece di rimanere in piedi ed essere consegnate dopo una trattativa ai palestinesi. Abu Mazen, conoscendo i suoi polli, temeva che ci sarebbe stata una folle corsa verso chi se ne impossessava per primo, facendo scattare chissà quali violenze proprio nel giorno nel quale avrebbe voluto essere libero di « festeggiare l'uscita del nemico » . DISINFORMAZIONE Un particolare, questo, che non ha trovato molto spazio sui nostri giornali, visto che molti credono che la distruzione delle case dei coloni sia stata una decisione di Israele e non di Abu Mazen. Israele ha sperato fino all'ultimo che un barlume di intelligenza sfiorasse le menti obnubilate di chi finora ha solo saputo adoperare la violenza per raggiungere l'obiettivo politico dell'indipendenza. Invano. Adesso cominceranno, sono già cominciate, le recriminazioni contro Israele che non fa abbastanza, che non cancella i controlli, che non restitutisce ad Hamas mare e cielo perchè organizzi meglio i suoi attentati, che si ostina ad impedire che le sue città di frontiera con Gaza vengano colpite dai missili Kassam. Invece di discutere di confini sicuri e condivisi, come farebbe qualunque popolo che avesse veramente a cuore la costruzione del proprio Stato, si direbbe che l'Autorità palestinese miri ancora e sempre alla distruzione dell'altro. Ma l'uscita da Gaza li ha spiazzati, urlino, gesticolino, abbattano sinagoghe, adesso il mondo, dopo aver aperto gli occhi su quel bandito di Arafat, è un po' meno pronto a mettersi sull'attenti e dire di si. La smettano di chiedere sempre aiuto, si rimbocchino le maniche, la smettano di distruggere e incomincino a costruire. Di sabbia a Gaza ce n'è tanta, comincino a strapparla al deserto e la facciano fiorire. Per imparare a farlo non devono poi guardare neanche lontano.
Il CORRIERE DELLA SERA pubblica a pagina 8 la cronaca di Davide Frattini "Gaza, festeggiamenti e caos. La folla incendia le sinagoghe".
Ecco il testo:All'alba il generale Aviv Kochavi ha chiuso i cancelli del valico di Kissufim e si è lasciato dietro le dune della Striscia di Gaza: «La missione è compiuta. Dopo trentotto anni, la nostra presenza è finita». Al tramonto il presidente Mahmoud Abbas ha issato la bandiera nera-bianca-verde-rossa a Rafah, sul confine con l'Egitto: «Negli ultimi cent'anni i palestinesi non hanno vissuto un giorno di felicità e gioia come questo».
In mezzo, dodici ore storiche che stanno già lasciando il segno sui rapporti futuri tra Autorità e Stato ebraico. Con le immagini delle sinagoghe in fiamme, la folla che porta via quel che può dagli insediamenti evacuati, il caos sulla Philadelphi Road pattugliata da 750 uomini delle forze speciali egiziane, il primo Kassam lanciato dagli estremisti sulla città di Sderot.
«I palestinesi non hanno fatto alcuno sforzo reale per proteggere i templi. Sono atti barbarici perpetrati da chi non ha alcun rispetto per i luoghi sacri», ha commentato il ministro degli Esteri Silvan Shalom, che domenica aveva tentato un ultimo appello con Kofi Annan, segretario generale dell'Onu, perché intervenisse per salvaguardare gli unici edifici (ventisei) rimasti in piedi. «Sono vandali, inumani e non civilizzati», ha detto il presidente Moshe Katsav. L'ufficio del premier Ariel Sharon aveva chiesto di garantire la dignità delle strutture («lasciarle bruciare non è tollerabile»). «I roghi dimostrano — ha reagito Yuval Steinitz, presidente della commissione Esteri e Difesa alla Knesset — che non abbiamo dall'altra parte un partner per la pace franco e responsabile».
A Hebron i coloni sono scesi per strada armati bloccando il traffico della città in Cisgiordania e i rabbini che li guidano hanno dichiarato che «i roghi dimostrano che è in corso una guerra di religione contro l'ebraismo in sé e non una battaglia motivata da ragioni politiche». La polizia israeliana ha rafforzato i controlli attorno alle moschee nel Paese e soprattutto a Gerusalemme per paura di rappresaglie dell'estrema destra religiosa. Il presidente Abbas aveva confermato che i templi sarebbero stati abbattuti. «Hanno abbandonato degli edifici vuoti, dopo aver rimosso tutti i simboli religiosi. Non sono più dei luoghi sacri», ha poi ripetuto camminando tra le macerie di Neve Dekalim, dove prima dell'alba uomini di Hamas erano saliti sul tetto urlando «Allah è grande, qui non deve restare nulla che ci ricordi dell'occupazione». Nella sinagoga semidistrutta, Mahmoud Zahar, leader del movimento integralista, ha voluto recitare le preghiere musulmane «come segno di trionfo».
I militanti sono stati i primi a impadronirsi delle aree evacuate, in una corsa per piantare la bandiera del movimento sul punto più alto. «Possono sventolare quello che preferiscono. Ci aspettiamo che l'Autorità palestinese prenda il pieno controllo, la responsabilità adesso è sua», ha commentato il generale israeliano Dan Harel, comandante del settore Sud. Dopo il lancio di un missile Kassam su Sderot, il ministro della Difesa Shaul Mofaz ha dichiarato: «La nostra strategia è tolleranza zero verso il terrorismo». In questa fase iniziale, la dottrina dello Stato maggiore prevede di lasciare il primo intervento alle forze palestinesi. Se non fosse efficace, arriva la risposta militare, delineata dal viceministro della Difesa Zeev Boim: «Le regole del gioco sono cambiate. La Striscia è adesso sotto la loro sorveglianza. Un razzo è come un colpo d'artiglieria, noi risponderemo con le nostre batterie». Migliaia di palestinesi sono corsi verso le spiagge degli insediamenti, prima inaccessibili, e cinque ragazzini sono affogati tra le onde. Un uomo è stato ucciso, quando la folla ha invaso la Philadelphi Road pattugliata dagli egiziani. Il Cairo ha smentito, «i colpi non sono partiti dalle nostre guardie di frontiera». Che nei prossimi giorni dovranno dimostrare di poter sorvegliare la zona, dopo che una bandiera di Hamas è sventolata anche in Egitto.
IL RIFORMISTA pubblica a pagina 3 un articolo di Anna Momigliano, "Anp, anarchia nazionale palestinese a Gaza". Molto esplicito il richiamo in prima "Antisemiti a Gaza"
Ecco il testo dell'articolo:A cominciare dal day after
dopo il ritiro israeliano,a Gaza è
il caos. Le forze dell’ordine Anp
non sono riuscite a tenere sotto
controllo la folla che ha preso
d’assalto le colonie ebraiche abbandonate,
benché i patti prevedessero
che gli ex insediamenti
sarebbero rimasti sottochiave
per tre giorni almeno. Secondo
fonti israeliane, tra privati cittadini
e miliziani, si è trattato di
«diverse migliaia» di persone:
hanno saccheggiato quanto resta
delle case e dei raccolti nei
campi, tanto che il quotidiano
Yediot Ahronot ironizzava che
«mai come oggi si è avvertito
quanto gli abitanti della Striscia
di Gaza abbiano sofferto la
penuria di mango e di alluminio
». Ma è stato il fuoco appiccato
a quattro sinagoghe (Kfar
Darom, Morag, Netzarim e Neveh
Dekalim) a suscitare l’indignazione
israeliana.
Sono stati uomini del Fronte
Popolare, guerriglia d’impostazione
marxista, a appiccare
il fuoco alla sinagoga di Kfar
Darom,dopo scontri con le forze
di sicurezza dell’Autorità
palestinese, che ha dimostrato
la propria determinazione a
prevenire forme di vandalismo
dispiegando l’unità d’elite attorno
all’edificio. A Netzarim
la polizia palestinese ha perso il
controllo quasi immediatamente:
dalle prime ore del mattino,
uomini di Hamas e della Jihad
islamica hanno posto le loro
bandiere sul tetto della sinagoga,
per poi appiccare il fuoco.
Mentre Abu Mazen sostiene
che è impossibile disarmare
la guerriglia e chiede tempo
per ristabilire l’ordine, a molti
in Israele sembra chiaro che
l’Autorità palestinese «non ha
passato il test», nelle parole del
ministro degli Esteri Silvan
Sharlom, che ha definito gli incendi
delle sinagoghe «un atto
barbarico compiuto da gente
che non ha rispetto per i luoghi
santi» e accusa il presidente
Anp di non aver saputo impedirli.
«Ora la responsabilità
è in mano ai palestinesi - ha ricordato
Shalom - Abu Mazen
deve ricordarsi che oggi tutto
gli occhi di tutto il mondo sono
puntati su Gaza, e che questa
anarchia minaccia la sua
posizione più di quanto non
minacci la nostra».
La «battaglia per l’opinione
internazionale» - battaglia
in cui gli analisti di Haaretz rintracciano
il punto cruciale delle
relazioni israelo-palestinesi nei
prossimi mesi - vede a questo
punto l’Autorità palestinese in
posizione di netto svantaggio:
Abu Mazen e i suoi uomini hanno
un bel dire che il ritiro da Gaza
«è solo il primo passo».Dopo
i fatti di ieri, sostengono gli analisti,
buona parte del mondo comincia
a domandarsi se le istituzioni
palestinesi siano in grado
di mantenere il controllo sui
Territori nel prossimo futuro.
Gli Stati Uniti in particolare potrebbero
smorzare le pressioni
sul governo di Gerusalemme
perché smantelli altri insediamenti
in Cisgiordania.
Da quando era stato approvato
il ritiro da Gaza, il governo
israeliano aveva previsto che le
sinagoghe sarebbero state distrutte:
fino all’ultimo si era pensato
di affidare all’esercito il
compito di radere al suolo i luoghi
di culto, come già accaduto
con le abitazioni. Come a dire:
smantelliamone noi, prima che
le bruci il nemico.L’Autorità palestinese
aveva deciso di demolire
le sinagoghe a partire da ieri
mattina, soluzione criticata dal
governo israeliano, ma che
avrebbe pur sempre risparmiato
le scene di vandalismo che tanto
hanno nuociuto all’immagine
palestinese. In ogni caso la folla
e gli uomini delle milizie hanno
preceduto le autorità. I piani
prevedevano che la popolazione
avrebbe avuto accesso alle ex
colonie ebraiche solo quando le
operazioni di demolizione fossero
state completate dagli esperti:
entro domenica sera i saccheggiatori
avevano invaso gran
parte degli insediamenti. Ieri le
ruspe Anp hanno comunque cominciato
a demolire quanto rimasto
in piedi dopo gli incendi.
Resta il fatto che l’anarchia
a Gaza è reale, e se è possibile
peggio del previsto. L’insurrezione
contro il governo Anp,
giudicato debole e corrotto,
troppo legato all’eredità di Arafat,
è stata condotta non tanto
da Hamas (vero centro di potere
nella Striscia, che ha ottime
possibilità di battere Abu Mazen
nell’arena politica, ma conferma
la propria determinazione
alla lotta armata), bensì dai
molti gruppuscolo nati dall’Olp
e dalla stessa Fatah: a cominciare
dalle Brigate dei martiri di
al-Aqsa, sul cui «rapimento dimostrativo
» del giornalista Lorenzo
Cremonesi tanto si è
scritto sulla stampa nostrana. E
poi: l’uccisione di Mousa Arafat,
uomo simbolo della corruzione
istituzionale in Palestina
a causa del suo dossier personale
tanto quanto della parentela
con il più celebre Yasser, da
parte del Comitato di resistenza
popolare, fondato durante la seconda
Intifada da Jamal Abu
Samhadana e altri fuoriusciti di
Fatah; fino agli scontri armati
tra le forze di sicurezza Anp e
gli uomini del Fronte Popolare
per il controllo della sinagoga
di Kfar Darom.
Molto duro con l'Autorità nazionale palestinese che non solo non ha fermato l'incendio sacrilego, ma neppure l'ha condannato, l'editoriale di Umberto De Giovannangeli " Un silenzio pesante", in prima pagina e pagina 24.
Ecco il testo:Quelle fiamme «bruciano» un giorno che doveva essere di festa. Quelle fiamme «raccontano» di una delle pagine più tristi, e inquietanti, di una storia di odio e di sangue. Le sinagoghe di Gaza assaltate, bruciate, saccheggiate. E le forze di sicurezza palestinesi impotenti, simulacro di un’Autorità tale solo sulla carta. Avevamo chiesto a Israele di distruggere quei luoghi di culto prima di ritirarsi - si giustificano i dirigenti palestinesi - li avevamo avvertiti che non potevamo garantirne l’integrità.
Ma l’impotenza connivente non può, non deve essere giustificata. Le immagini di quelle sinagoghe in fiamme hanno fatto il giro del mondo. E hanno riportato alla memoria altri tempi, tempi terribili, e altre sinagoghe date alle fiamme.
Allora sulle macerie fumanti non erano issate le bandiere verdi della Jihad islamica; a far tetra mostra di sé erano i vessilli con la croce uncinata del Terzo Reich nazista. Nessuna causa, anche la più giusta, la più fondata, può mai giustificare il terrorismo stragista o atti il cui valore simbolico devasta la coscienza e la sensibilità di un popolo che ha conosciuto nella sua tormentata storia il significato devastante dei ghetti bruciati, delle sinagoghe violate, distrutte.
Chi ha assaltato quei luoghi di culto, chi ha incendiato quelle sinagoghe, si è rivelato il peggior nemico della causa palestinese. E chi non ha alzato un dito per evitare questo scempio, si è dimostrato succube di una violenza senza freni. Succube di un odio atavico, nemico della pace. In un discorso alla Nazione, il presidente dell’Anp, il moderato Abu Mazen, ha descritto quello di ieri come «un giorno di gioia, senza eguali per i palestinesi negli ultimi cento anni». Poi ha rilevato che si tratta di una gioia non completa: il valico di Rafah con l’Egitto resta per il momento chiuso in assenza di una intesa con Israele, mentre altre limitazioni sono imposte ai palestinesi per qunato riguarda il controllo dello spazio aereo e delle coste. Nessuna parola di condanna per le sinagoghe devastate. Un silenzio pesante. Grave. Inaccettabile. I miliziani mascherati che tra le fiamme della sinagoga di Nevè Dekalim scandivano slogan come «Allah è grande» e «Niente deve ricordare l’occupazione», non davano libero sfogo a una rabbia covata in 38 anni di occupazione. Quei miliziani in armi e col volto coperto si facevano interpreti di un jihad (guerra santa) il cui obiettivo non è una pace giusta, duratura, tra pari con Israele. Ma è la distruzione dello Stato degli Ebrei. Con il ritiro da Gaza, tramonta il sogno del Grande Israele, ideologia e politica che per decenni ha guidato l’azione della destra nazionalista israeliana. Si tratta di un salutare ritorno alla realtà.
È la presa d’atto che la sicurezza di un popolo (quello israeliano) non può fondarsi sull’oppressione esercitata su un altro popolo (quello palestinese). Così come le immagini di quei bambini palestinesi che cercano tra le macerie delle case degli (ex) insediamenti abbattute da Tzahal, qualcosa da portar e via, raccontano di una miseria su cui non è possibile innestare una speranza di pace. Perché i diseredati di Gaza sognano, chiedono una vita normale: una casa, un lavoro, un futuro degno di essere vissuto. Ma questo insopprimibile bisogno di normalità non potrà mai ricevere soddisfazione dai signori dell’odio e della guerra, che stanno trasformando la Striscia «liberata» in una sorta di Far West mediorientale, una terra di nessuno nella quale l’unica legge che funzione è quella imposta con la forza. Abu Mazen ha promesso di fare di Gaza l’embrione di uno Stato palestinese indipendente. Ha garantito di avere volontà e mezzi per ristabilire ordine e sicurezza. La comunità internazionale, l’Europa non devono lasciarlo solo. Ma Abu Mazen sa che le parole nella tormentata Terra Santa pesano come pietre. E le parole che oggi si attendono da lui quanti credono e si battono per una pace fondata sul principio dei due Stati, sono parole di condanna, senza se e senza ma, della devastazione delle sinagoghe.
Lo deve a Israele. Lo deve al popolo palestinese. Che non può essere arruolato a forza in una assurda guerra di religione.
La mancata condanna del rogo delle sinagoghe potrebbe essere rimproverata però anche all'edizione on-line del quotidiano. Sulla Home page del 12-09-05 campeggiava infatti un articolo di Maurizio Debanne che già dal titolo era "tutto un programma": "Gaza, palestinesi in festa. Sinagoghe deserte in fiamme".
Vi si legge: "i palestinesi non hanno atteso il completamento della partenza dei soldati israeliani dalla Striscia di Gaza per esprimere la propria gioia per la conclusione di 38 anni di occupazione militare. Fin dalla nottata tra domenica e lunedì gruppi di manifestanti sono entrati nelle ex colonie, che via via venivano abbandonate dai soldati israeliani, per prenderne possesso. A Netzarim (Gaza), Kfar Darom (deir el-Ballah) e Nevé Dekalim (Khan Yunes) i dimostranti hanno presto dato l'assalto alle ex sinagoghe dei coloni e le hanno date alle fiamme"Incendiare sinagoghe, per altro dietro le bandiere di organizzazioni terroristiche, per Debanne significa "manifestare" o "dimostrare"?
Grande rilievo viene poi dato nell'articolo alle rimostranze palestinesi e alle critiche americane a Israele (che provengono, il che non viene precisato, da un portavoce del Dipartimento di Stato), sulle quali rimandiamo all'editoriale del FOGLIO sopra pubblicato.
Il testo integrale è reperibile all'indirizzo: http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=44585
Spesso più equilibrato che in passato nella sua edizione cartacea, L'UNITA' mantiene in quella on-line una linea faziosamente antiisraeliana. Sarebbe il caso di correggere questa dissociazione, dando al giornale una linea univoca e, ovviamente, corretta.
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