L'"occupazione non è finita", per cui i palestinesi non hanno partecipato al passaggio di consegne la valico di Erez, mentre "gli israeliani (...) la loro parte l'hanno fatta seguendo il copione del disengagement" Il "copione", come se si trattasse di una recita teatrale.
La mancata demolizione delle sinagoghe di Gaza è, come dichiara il ministro per gli affari civili palestinesi "una trappola politica", dichiarazione che mira evidentemente ad eludere preventivamente le responsabilità per la tutela dei luoghi sacri ebraici, che ricadrebbe sull'Anp.
La cronaca di Roberto Caprile "Gaza, Israele ammaina la bandiera, L'Anp: l'occupazione non è finita", pubblicata da LA REPUBBLICA di lunedì 12 settembre apagina 13 2005 fin dal titolo è appiattita sulla posizione palestinese, cui non oppone nessuna critica e nessuna considerazione di buon senso (per esempio che se i palestinesi lottassero contro il terrorismo e garntissero la sicurezza di Israele potrebbero più facilmente ottenere il controllo dei valichi di frontiera e degli spazi aerei e marittimi) odi semplice informazione (per esempio che i palestinesi rifiutano la sostituzione del valico di Rafah per il passaggio delle persone, proposta da Israele, e le trattative su quello di Erez con l'argomento, falso e senza precedenti, che farebbe parte di Gaza) .
Ecco il testo:GAZA CITY - La storica consegna delle "chiavi" della Striscia di Gaza non c´è stata. Al valico di Erez i più delusi erano i cameraman delle agenzie televisive mondiali, tornati a casa a mani vuote. I palestinesi infatti all´ultimo momento si sono tirati indietro. "Non ci prestiamo ad avallare - hanno fatto poi sapere - quella che nelle intenzioni degli israeliani sancisce la fine di un´occupazione. Perché non è così. Se non abbiamo uno spazio aereo, terrestre e marittimo, se non siamo ancora liberi di circolare sulla nostra terra, continuiamo ad essere in gabbia, questa è la verità".
Gli israeliani invece la loro parte l´hanno fatta seguendo il copione del "disengagement". Nel tardo pomeriggio di ieri come previsto c´è stato il simbolico ammainabandiera dell´esercito a Neve Dekalim, uno dei 21 insediamenti di coloni ebrei, demoliti dai militari dopo essere stati sgomberati. Erano presenti circa duecento soldati. Poche ore dopo è iniziato il ripiegamento vero e proprio che sarà completato solo oggi. Un incidente ha però turbato la cerimonia: il ferimento di cinque ragazzi palestinesi - tre sono in gravi condizioni - avvicinatisi troppo al reticolato.
A Gerusalemme e a Tel Aviv gli israeliani hanno reagito quasi con indifferenza al ritiro dalla Striscia occupata da trentotto anni. Non così i palestinesi a Gaza e nelle zone più prossime agli insediamenti liberati. Dove la tensione è alta e Abu Mazen sta facendo di tutto per limitare i danni da euforia. Centinaia di soldati dell´Autorità appostati sul lungomare sono pronti ad arginare i più scalmanati. Hamas ha promesso di non interferire, ma decine di ragazzi con la bandiera nera della Jihad islamica si sono messi in marcia alla volta degli insediamenti liberati.
Certo rimane il problema delle 22 sinagoghe che gli israeliani hanno deciso di non demolire. "Una trappola politica", così l´ha definita il ministro per gli Affari civili palestinese, Mohammad Dahlan, che in sostanza ha accusato Gerusalemme di avere lasciato a loro la soluzione del problema. "Se le sinagoghe venissero attaccate, ha affermato Dahlan - questo darebbe agli estremisti ebraici il pretesto per assaltare le moschee. Noi - ha concluso il ministro - tratteremo quegli edifici, ormai spogli di ogni simbolo religioso, come qualunque altra costruzione presente negli insediamenti".
Quanto alla festa annunciata, l´Anp ha preso tempo. Avverrà solo dopo una riunione alla quale parteciperanno tutti i partiti e i movimenti della causa palestinese. Abu Mazen non vuole scontentare nessuno. Non fosse altro perché i sondaggi non gli attribuiscono tutto il merito del ritiro israeliano. Anzi.
Secondo il quotidiano Haaretz, per l´84 per cento dei palestinesi il disimpegno è conseguenza della lotta armata. Per gran parte degli intervistati (oltre il 40 per cento) il successo va ascritto agli estremisti di Hamas. Solo il 21 per cento del campione ritiene che sia stata l´azione politica di Abu Mazen a determinare il ritiro israeliano. Il sondaggio delinea anche le percentuali delle prossime elezioni legislative di gennaio. Al-Fatah, il movimento in cui milita il presidente, potrebbe conseguire il 47 per cento dei voti, contro il 33 per cento di Hamas, che però viene dato in ascesa.
L'articolo di Umberto De Giovannangeli "Israele dà l'addio a Gaza. Restano 12 sinagoghe" è incentrato sulla comunicazione di un solo messaggio: l'occupazione di Gaza è sato un terribile errore per Israele che non dovrebbe tornarvi nemmeno se subbisse attacchi terroristici a partire dalla Striscia.
Ma un conto sono gli insediamenti, tutt'altro la difesa militare. dalle aggressioni terroristiche, cui Israele non potrà mai rinunciare.
Nel descrivere gli scontri che hanno provocato tre feriti palestinesi u.d.g omette di scrivere che sono stati provocati da un assalto, descrivendo invece eufemisticamente una "folla che premeva ad una barriera della colonia di Nevè Dekalim", come all'ingresso di un concerto rock...
Ecco il testo:LE PRIME ORE della sera accompagnano la cerimonia di addio. La bandiera con la stella di Davide viene ammainata dall'edificio che ha
ospitato il comando di divisione a Nevè Dekalim, la «capitale» del Gush Katif, l'(ex) blocco di insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza. Una cerimonia breve, semplice, solenne, tenuta alla presenza dei vertici delle forze armate israeliane e in diretta televisiva. Un'epoca si chiude. Per sempre. Dopo l'ammainabandiera inizia il ripiegamento dei circa tremila soldati di Tzahal ancora rimasti nella Striscia, che include anche l'Asse Philadelphi, a ridosso del confine con l'Egitto. Si prevede che il ripiegamento si concluderà entro le otto locali (le sette in Italia) di questa mattina. L'ultimo militare ad uscire sarà il generale Aviv Kochavi, comandante delle truppe israeliane, che si chiuderà alle spalle il cancello di accesso alla Striscia. Era stato il governo israeliano, nella sua riunione domenicale, ad approvare all'unanimità la fine della sua amministrazione militare nella Striscia di Gaza e a ordinare di conseguenza il definitivo ripiegamento. La maggioranza assoluta dei ministri, su forti pressioni di influenti rabbini, ha inoltre deciso di non ordinare la demolizione delle 22 sinagoghe erette nelle aree dove una volta sorgevano gli insediamenti ebraici, revocando una precedente decisione. A giudizio dei rabbini le sinagoghe sono un luogo sacro che dovrebbe essere rispettato dai palestinesi. In ogni caso, a loro parere, è meglio che siano distrutte dai palestinesi che da organi dello Stato ebraico. E nella serata di ieri l’Autorità nazionale palestinese, per bocca del ministro palestinese per gli affari civili Mohammad Dahlan, ha comunicato che la distruzione dei luoghi sacri inizerà già da oggi. «Non si tratta più di sinagoghe - ha spiegato - e la loro sorte sarà la stessa degli altri edifici che sono stati abbandonati».
Ma anche un giorno di festa ha la sua scia di sangue. I soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro una folla di palestinesi che premeva ad una barriera della colonia di Nevè Dekalim. Tre persone, riferiscono fonti locali, sono state ferite. Segnale inquietante di un futuro denso di incognite, ma anche di speranze. Israele chiude con sollievo quel cancello di Gaza. Un sollievo che prende corpo nella prima pagina di Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano di Israele. I titoli raccontano di un sentimento liberatorio: «Si torna a casa» e «Gazia ciao e a non rivederci». Il soldato che domani (oggi, ndr.) si chiuderà alle spalle il cancello di ingresso a Gaza - annota il giornalista Alex Fishman - aprirà una nuova pagina di storia.
Di fatto quel soldato riporterà Israele al confine sud che aveva prima della guerra del conflitto del 1967. Sarà questo, a quanto pare, il primo passo di una lunga marcia alla fine della quale - riflette Fishman - saranno stabiliti i confini permanenti di Israele e potremo dirci dove è la «casa» e per cosa combattiamo: per Dir el Balah (Gaza) o per Ashkelon (città a sud di Tel Aviv). È possibile, conclude Fishman, che Gaza diventi uno Stato senza leggi governato da bande armate e che Tzahal sia di nuovo costretto a combattere su questo fronte «ma prima che a qualcuno venga l'appetito di tornare là di nuovo per periodi prolungati per ristabilire l'ordine è bene che si ricordi: ciò che cominciò come qualcosa di temporaneo, come una gita di famiglia, è finito dopo 38 anni e per che cosa?». La lezione del ritiro da Gaza, sottolinea su Ha'aretz l'editorialista Uzi Benziman «è che non c'è ragione e nemmeno speranza per il progetto di insediamenti nei territori occupati. È condannato al fallimento». «L'avidità di territori - aggiunge Benziman - è stata sostituita dall'aspirazione alla normalità e l'arroganza militare dai rimorsi di coscienza davanti alle sofferenze dei palestinesi». Ma la voce della speranza più toccante è quella di Shlomo Vishinsky, un noto attore teatrale il cui figlio soldato è stato ucciso più di due anni fa nell'esplosione di una mina a Gaza. «Per me - dice - è ormai troppo tardi ma sono lieto che finalmente usciamo da Gaza. La nostra permanenza là non era giusta e nemmeno corretta strategicamente…Questa uscita mi fa bene e io so che avremo meno morti. Forse sarà questo il primo passo verso relazioni normali con i palestinesi».
Nella sua analisi "Mafiosi «fai da te» nei territori dell’anarchia" pubblicata a pagina 9 de IL MATTINO di domenica 11 settembre Vittorio Dell'Uva attribuisce alla "morte di Arafat" a al ritiro "decretato da Sharon" le cause dell'attuale caos a Gaza.
Nessuna responsabilità ovviamente per la corruzione e il sostegno al terrorismo che caratterizzarono il potere del vecchio rais.
Ecco il testo:
È nell'ingranaggio della strisciante anarchia della «libera» striscia di Gaza, da cui la stessa Anp ha consigliato appena tre giorni fa agli occidentali di tenersi lontani, che è incappato ieri l'inviato del «Corriere della Sera» Lorenzo Cremonesi. Ma dietro il suo sequestro-lampo, non privo di drammaticità per la presenza di uomini armati dal volto coperto, si intravede più lo spirito del «cartello di Medellin» che la miscela esplosiva e spesso letale dei ribelli di Bagdhad. Le frange oltranziste palestinesi non cercano, attraverso odiosi ricatti, particolari interlocutori in Occidente disponibili a pagare riscatti. Né hanno proclami di natura politico-religiosa da diffondere sul pianeta. Agiscono piuttosto come disinvolti banditi da strada, trovando che disporre di stranieri in ostaggio possa procurare qualche vantaggio nel proprio ambito territoriale. È alla nuova dirigenza palestinese che si vuole fare, soprattutto, paura. Se non imporre tangenti di varia natura. Nel puzzle ancora difficile da ricomporre che la scomparsa di Arafat prima e il ritiro decretato poi da Sharon, hanno determinato a Gaza, si consumano quotidianamente grandi e minuscole battaglie dell'illegalità. Ad operazioni in grande stile come quella compiuta per eliminare, pochi giorni fa Mussa Arafat già capo della intelligence militare palestinese, si affianca il «fai da te» di matrice mafiosa di quanti hanno molto da perdere dal delinearsi di un nuovo ordine. È per ottenere il rilascio di un congiunto arrestato che miliziani di una delle grandi «famiglie» di Khan Yunis hanno sequestrato a metà agosto due funzionari dell'Unwra l'agenzia Onu per i rifugiati. È in cambio della liberazione di due ostaggi occidentali, detenuti da «amici» che un ufficiale non proprio esemplare messo a riposo è riuscito di recente a riconquistare il posto perduto. E non passa giorno che vecchi capi militari dell'intifada temendo di essere estromessi non provino in qualche misura a «marcare» il territorio per poter poi negoziare un ruolo, quale che sia, con il potere centrale. Il caso di Lorenzo Cremonesi sembra più che mai rientrare in questa casistica. Nell'area di Deir el Balah poche ore prima del suo sequestro, le brigate dei martiri di Al Aqsa, chiamate oggi ad occuparsi dei disoccupati dopo la grande stagione della sfida quotidiana ad Israele, avevano dato l’assalto al palazzo del governatore per ottenere alcuni posti di lavoro. Tenere un giornalista straniero in ostaggio ha «internazionalizzato» la loro protesta favorendo probabilmente l'apertura di un tavolo negoziale. È Abu Mazen più che il governo di Roma che per qualche ora è stato nel mirino. Mai si è avuta la sensazione che il giornalista del Corriere della Sera potesse correre qualche serio rischio. Per alcune ore altro non è stato che un mezzo per il raggiungimento di altri fini nell’ambito della faida palestinese. Ciò che si intravede, dietro prevaricazioni, mortali regolamenti di conti e sequestri di cittadini stranieri è l'indubbia debolezza del nuovo potere centrale palestinese chiamato, a breve, a gestire la «sovranità» di Gaza. Dalla stratificazione di 17 corpi di polizia non ne è venuto fuori uno efficiente e ben armato. «Impenetrabili» sono alcune aree del dissenso antiebraico più duro. La vecchia guarda di Al Fatah, formata dai «tunisini» che seguirono Arafat in esilio, chiede di non perdere i privilegi e di essere rispettata come una icona. Il senso dell'unità nazionale che l'addio di Israele alla «striscia» avrebbe dovuto alimentare si dissolve per le faide interne che vanno ben oltre la normale contrapposizione di natura politica. Che a Sharon dispiaccia non è detto. Ma l'instabilità non può che tenere lontani donatori ed investitori senza i quali la Palestina, già abbastanza depredata e impoverita, non può sperare davvero in un futuro.
LA STAMPA di domenica 11 settembre pubblica un'intervista di Guido Ruotolo a Nemer Hammad, rappresentante dell'autorità nazionale palestinese in Italia, il quale, mai contestato dal giornalista, addossa a Israele la responsabilità del caos di Gaza.
Israele, in realtà, non ha mai "distrutto" le forze di sicurezza palestinesi, sebbene le abbia combattute quando operavano di concerto con i gruppi terroristici. Sono semmai la corruzione il frazionamento e la sostanziale anarchia di tali forze di sicurezza a fornire un consistente contributo alla degenerazione della situazione a Gaza
Ecco il testo:La voce arriva disturbata. Nemer Hammad, il rappresentante dell’Autorità palestinese in Italia, è in macchina. E’ una giornata speciale per la sua famiglia, è il giorno del matrimonio della figlia, e tra la cerimonia e il ricevimento, appena passate le otto di sera, l’ambasciatore palestinese nel nostro Paese racconta: «Cremonesi è libero. Non è stato sequestrato dalle Brigate Al Aqsa, ma da una banda criminale». Hammad coglie l’occasione per rivolgersi al governo italiano: «Ancora una volta chiedo al governo Berlusconi di aiutarci, di mandare uomini e mezzi nella Striscia di Gaza».
Ambasciatore, perché è stato sequestrato Lorenzo Cremonesi?
«Questo non lo so. Posso soltanto dire che ho parlato con Abu Mazen che mi ha detto di tranquillizzare il governo italiano. Erano le sette e mezza, molto prima che si diffondesse la notizia della liberazione del mio amico Lorenzo Cremonesi. Abu Mazen mi ha detto che il giornalista era stato liberato e che i sequestratori erano dei criminali. Ho chiamato subito l’ambasciatore Riccardo Sessa che mi ha ringraziato prima di informare il ministro Fini».
Ma secondo Lorenzo Cremonesi i sequestratori erano uomini delle Brigate Al Aqsa.
«Abu Mazen ha negato questa circostanza: la politica non c’entra nulla con il sequestro del giornalista italiano, i sequestratori sono delinquenti, li conosciamo. Vede, la situazione nella Striscia di Gaza è complicata perchè la polizia palestinese non controlla tutto il territorio, ci sono ancora militari israeliani e muoversi da una parte all’altra non è facile. L’opinione pubblica italiana deve sapere che la polizia palestinese in questi anni è stata distrutta dagli israeliani. C’è un vuoto di potere reale, di controllo del territorio nella Striscia di Gaza. Da ogni famiglia può nascere un gruppo, una banda. Ogni gruppo può dire di essere parte delle Brigate Al Aqsa anche se poi non è vero. E’ una situazione molto pericolosa anche perché queste bande presenti sul territorio non sono organizzate verticisticamente, non hanno una loro gerarchia. Questo complica anche la possibilità di dialogo con loro».
Insomma, i territori sono allo sbando, terra di nessuno?
«In parte è vero, anche se non mi rassegno a questa rappresentazione. La paura è il miglior regalo che si possa fare agli estremisti».
E voi cosa fate per contrastare queste bande?
«Quello che possiamo. Sappiamo che occorrerà un intervento di medio e lungo periodo. Avremo bisogno almeno di due, tre anni di lotta durissima. Voglio raccontare un episodio accaduto un mese fa a Nablus. Una ragazza stava per sposarsi quando a casa sua, della sua famiglia, fece irruzione un gruppo armato di quattro, cinque persone. Uno del gruppo disse al padre che la ragazza doveva andare in sposa a uno di loro. Il padre, naturalmente non ne volle sapere e per questo è stato ucciso».
La striscia di Gaza non è comunque controllata da voi?
«Dovrebbe ma non lo è. E’ inutile negarlo. Molti sequestri avvenuti in queste settimane sono a scopo estorsivo. Come per esempio quello di un tecnico del suono di una televisione francese di origine algerina, Mohammed Ouathi, tenuto in ostaggio per più di una settimana».
Ora che Lorenzo Cremonesi è stato liberato possiamo tirare un sospiro di sollievo. Certo, una vicenda dalla quale l’Autorità palestinese non esce molto bene..
«E’ importante che l’opinione pubblica italiana sia informata correttamente sulla realtà della Striscia di Gaza. Che si faccia una opinione, che capisca le nostre difficoltà. Dobbiamo recuperare il tempo perduto. Ricostruire le nostre forze di polizia. L’Italia può giocare un ruolo importante».
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