L'addio di Israele a Gaza
le cronache e le analisi di Davide Frattini, Fiamma Nirenstein e Gian Micalessin
Testata:
Data: 12/09/2005
Pagina: 17
Autore: Davide Frattini - Fiamma Nirenstein - Gian Micalessin
Titolo: Gaza, via la bandiera israeliana. L'Anp, abbattiamo le sinagoghe - Il tormento di Gerusalemme, non potevamo distruggerle noi - Grana per Sharon, trappola per Abu Mazen L'addio d'Israele a Gaza, via gli ultimi soldati
Il CORREIRE DELLA SERA di lunedì 12 settembre 2005 pubblica pagina 2 la cronca di Davide Frattini "Gaza, via la bandiera israeliana. L'Anp, abbattiamo le sinagoghe".

Ecco il testo:

L’operazione è stata battezzata Ultimo Sguardo. Come quello delle macchine fotografiche che hanno tenuto occupati i soldati per tutto il giorno. Chi non era impegnato nei turni di guardia (negli scontri attorno alle colonie evacuate sono rimasti feriti cinque palestinesi) ha girato tra le basi militari e le torri d’osservazione ormai ridotte in macerie, raccogliendo le immagini storiche della fine della presenza israeliana a Gaza.
Dopo 38 anni, l’ufficiale che chiuderà i cancelli e si porterà via la chiave è il generale Aviv Kochavi, l’ultimo ad aver servito come comandante di Tsahal nella Striscia. È stato lui a presiedere la cerimonia al tramonto a Nevé Dekalim, quando la bandiera è stata ammainata mentre suonava l’inno nazionale e il capo di Stato maggiore Dan Halutz assicurava: «L’esercito sta partendo a testa alta, la decisione del ritiro è stata presa da una posizione di forza e nella speranza di un futuro migliore». Poche ore prima, i palestinesi avevano annunciato di non voler partecipare per protesta a quello che avrebbe dovuto essere il rito ufficiale del passaggio delle consegne, al valico di frontiera di Erez. «Non abbiamo ottenuto risposte sui punti di confine - ha spiegato un ufficiale dell’Autorità -. Soprattutto non sappiamo fino a quando resterà chiuso Rafah, alla frontiera con l’Egitto».
I militari israeliani contano di terminare le operazioni di sgombero per questa mattina all’alba. Nelle aree sgomberate, nella notte, hanno già cominciato a entrare i soldati palestinesi, che hanno issato la loro bandiera. Quando il passaggio di consegne sarà terminato «il nostro Stato tornerà, almeno a Sud, ai confini del 1967. Forse sarà il primo passo per una lunga marcia che ci porterà alla definizione di un confine permanente. Una marcia alla fine della quale decideremo cosa chiamare "patria" e per che cosa vogliamo combattere», ha commentato Alex Fishman su Yedioth Aharonoth.
«L’evacuazione da Gaza ha migliorato l’immagine di Israele nel mondo - ha detto il premier Ariel Sharon, che sta partendo per New York dove interverrà all’Assemblea Onu -. Ora il presidente Mahmoud Abbas deve combattere i terroristi. Può fare molte cose, è importante che le faccia. La nostra risposta agli attentati sarà molto dura». Al Washington Post , il premier ha confermato che le costruzioni nei grandi blocchi di insediamenti in Cisgiordania continueranno: «So che gli americani non saranno contenti, noi andiamo avanti».
Ieri il governo israeliano ha votato (14 a 2) contro la demolizione delle 26 sinagoghe rimaste nella Striscia, ribaltando il via libera dei giudici della Corte Suprema e la decisione presa a giugno, quando i ministri avevano approvato il piano di ritiro. L’Autorità palestinese - ha annunciato il ministero degli Interni - abbatterà oggi i templi. «Non sono più delle sinagoghe e verranno trattate come degli edifici abbandonati - ha commentato Mohammed Dahlan, ministro per gli Affari civili -. Israele non ha voluto distruggerle per fare apparire i palestinesi agli occhi del mondo come un popolo non civilizzato». «Per noi sono un simbolo dell’occupazione e non accetteremo mai che restino i piedi» ha proclamato Ghazi Hamed, portavoce di Hamas. Nell’insediamento di Morag nella notte uno dei templi abbandonati è stato incendiato.
Sempre a pagina 2, Frattini descrive "Il tormento di Gerusalemme, non potevamo distruggerle noi".

Ecco il testo:

Alla fine della telefonata i due ministri si sono ritrovati a consolare l’anziano rabbino, quando le sue parole sono state spezzate dalle lacrime e dai singhiozzi. Ovadia Yosef venerdì ha chiamato Shaul Mofaz e Shimon Peres per un ultimo appello: ribaltare il parere della Corte Suprema che aveva dato il via libera alla distruzione delle ventisei sinagoghe rimaste nella Striscia di Gaza. Al ministro della Difesa ha chiesto di intercedere con Ariel Sharon, al vicepremier di esortare i palestinesi a non toccare i templi.
La campagna che ha portato alla decisione del governo ha coinvolto destra e sinistra, tutti impegnati a chiamare durante la pausa di Shabbat per esercitare pressioni su questo o quel ministro. Il rabbino Ovadia, leader spirituale del partito Shas, ha contattato subito il presidente Moshe Katsav, che non aveva bisogno di essere convinto dopo aver ricevuto messaggi dalle comunità ebraiche di tutto il mondo: «La demolizione creerebbe un precedente, anche le sinagoghe di altri Paesi sarebbero in pericolo». Katsav ha avuto una conversazione notturna con Sharon («non facile», dicono i consiglieri del premier) e ha ottenuto che la questione venisse ridiscussa nel Consiglio dei ministri.
Sharon ricorda ancora quando entrò a Hebron dopo la guerra dei Sei Giorni e vide una sinagoga del 1600 trasformata dalle truppe giordane in latrina e stalla per le pecore. Si è sempre opposto all’idea che l’abbattimento avrebbe fornito una giustificazione per attacchi in altre parti del mondo, ripetendo che non si potevano fare paragoni con il caos a Gaza. «Poi si è persuaso - ha spiegato una fonte al Jerusalem Post - che lasciare i templi intatti rappresenta un test per l’Autorità. Se le strutture verranno distrutte o dissacrate, lo dovranno fare sotto i riflettori e l’ultima cosa di cui hanno bisogno in questo momento è cattiva pubblicità».
La decisione di giovedì della Corte Suprema è stata letta dai leader dei coloni come «l’ennesima sentenza anti-religiosa». «I giudici si sono autorimossi dalla società», ha commentato Eli Yishai. «Nabucodonosor e Tito non avrebbero potuto trovare eredi migliori», ha citato Eran Sternberg ricordando il babilonese e il romano che distrussero il Primo e il Secondo tempio a Gerusalemme.
Mofaz ha espresso da subito i suoi dubbi. «Come ebreo cresciuto in una famiglia religiosa e come ministro della Difesa, è molto difficile per me dare l’ordine all’esercito di far saltare le sinagoghe». E se Mofaz (come Sharon) può aver subito le pressioni del comitato centrale del Likud, contro la demolizione hanno votato anche i ministri laburisti Benjamin Ben-Eliezer e Shalom Simhon. «La comunità internazionale si è indignata - ha scritto il Jerusalem Post in un editoriale - quando i talebani hanno ridotto in macerie le statue di Buddha in Afghanistan. Ma non si sono sentite proteste, quando i dimostranti hanno attaccato la Tomba di Giuseppe a Nablus. Perché il mondo non è capace di imporre ai palestinesi il rispetto degli stessi standard di civiltà che vengono richiesti ad altri?». Il «Roman Abramovich israeliano» aveva proposto una soluzione, spazzata via dalla decisione palestinese di abbattere i templi. Arkady Gaidamak, l’uomo d’affari russo che ha appena acquistato la squadra di calcio Beitar Yerushalayim, avrebbe voluto fare una donazione all’Autorità perché trasformasse le sinagoghe in scuole.

Davide Frattini

LA STAMPA pubblica a pagina 10 l'articolo di Fiamma Nirenstein sulle sinagoghe di Gaza, "Grana per Sharon, trappola per Abu Mazen".
Ecco il testo:

La pace a Gaza non è vicina anche se l’atmosfera di questo ripiegamento è simile a quella dell’uscita dal Libano, un piccolo vento di speranza che ha asciugato le lacrime: non sono tristi i ragazzi in divisa che si preparano alla lunga notte in cui il grande tramestio dei mezzi corrazzati, coprirà gli ordini gridati. Si lasceranno luoghi in cui si è salutato un amico per l’ultima volta, o si è cenato nelle case ormai distrutte delle famiglie che non abitano più su quelle sabbie. I palestinesi non sono venuti al passaggio delle consegne; le mappe relative all’elettricità, all’acqua, ai sistemi fognari non sono venuti a prenderle perché vince su tutto la rabbia e anche la sorpresa che il governo di Sharon abbia decido all’ultimo momento, ieri mattina, 14 ministri contro 2, che la ventina di templi ebraici della Striscia non verranno distrutti dall’esercito.
E’ stata una decisione che è tornata sulla scelta precedente, e che onora la richiesta dei rabbini che non siano ebrei a distruggere vestigia ebraiche: i templi resteranno, scheletri bianchi, in piedi, in attesa della folla palestinese che vede in loro soltanto il simbolo dell’odiato nemico. Le macchine da presa sono in agguato. Mentre Gaza ribolle, i palestinesi si preparano a prendere possesso della Striscia con un senso di rabbia e rivendicazione: vedono la scelta di lasciare in piedi le sinagoghe come una trappola preparata da Sharon contro di loro. Sentiamo a Gaza Ishan Abd el Razeh, mentre nelle strade intorno si preparano le bandiere le magliette e l’ Autonomia Palestinese e le organizzazioni armate fanno i loro piani perché l’eccitazione dia loro in mano il nuovo grande, appetibile spazio vuoto sul quale la sovranità significa terra, denaro, lavoro, e anche scelte strategiche per i prossimi anni. Dice molto arrabbiato Abd el Razek: «Le sinagoghe a Gaza non sono per i palestinesi luoghi sacri, perché vedono in esse solo il segno dell’occupazione. Sharon doveva portarsi via tutti quante le sue tracce. In nove mesi non ha aiutato Abu Mazen, e adesso addirittura lo mette in difficoltà lasciando là queste mura che verranno assalite e distrutte come simbolo dell’occupazione, così che tutto il mondo ci consideri incapaci di controllare la situazione».
Ma la decisione degli israeliani, spiega il ministro degli esteri Silvan Shalom, non ha niente a che fare con i problemi di Abu Mazen, per quanto seri essi possano essere. «Gli ebrei - spiega Shalom - stabilirebbero un pericoloso, scandaloso precedente per tutti gli antisemiti del mondo: se essi stessi distruggessero le sinagoghe, i nostri nemici lo vedranno come un segno di vigliaccheria da parte nostra e di incoraggiamento per i loro crimini. Abu Mazen ha un difficile compito, è vero, ma la leadership è talvolta molto impegnativa e pesante, e i nostri vicini adesso sono chiamati a un compito pesante e indispensabile». La polizia palestinese sul vecchio confine che da questa notte non esisterà più, già da giorni respinge torme di giovani e di ragazzi che cercano di entrare e spazzare l’area simbolo per certi soprattutto simbolo di libertà, per altri di una supposta sconfitta israeliana. E’ una pentola a pressione che rischia di far saltare il coperchio ad ogni momento, con grave rischio per il gruppo dirigente del Fatah. Tutto è pericolosamente aperto nella prima e ultima notte di solitudine delle dune della Striscia.
IL GIORNALE pubblica a pagina 17 la cronaca di Gian Micalessin, "L'addio d'Israele a Gaza, via gli ultimi soldati":
Una nebbia di fumo e polvere galleggia sul mare di rovine. La bandiera bianca azzurra scende lenta. Ora è silenzio dopo un pomeriggio di esplosioni, fiammate e distruzioni. Ora anche le basi militari sono solo un tappeto di macerie. Come le colonie. Nel deserto di detriti restano in piedi solo due dozzine di sinagoghe, l'estremo simbolo di 38 anni di presenza israeliana a Gaza. Tra quel silenzio di rovine s'alza il canto di Hativka, l'inno d'Israele intonato per l'ultima volta tra le sabbie di Gaza. Ancora qualche ora e nella Striscia non ci sarà più un solo soldato, un solo israeliano, un solo ebreo.
Gli ultimi sei battaglioni attendono chiusi nei blindati. Alle otto di stamattina dovranno aver raggiunto il territorio israeliano qualche chilometro più indietro. «L'esercito lascia Gaza a testa alta», declama con orgoglio il generale Avi Kochavi in mezzo ai suoi uomini allineati tra blindati con i motori accesi, davanti alle bandiere ripiegate nella luce dorata del tramonto. «Questo è l'inizio di una nuova realtà, ma se i venti cattivi torneranno a soffiare noi saremo pronti a rispondere a tono».
Parole che il vento porta oltre reti e recinzioni. Anche lì si attende. Lì l'incognita è assai più grande. L'avvertimento di Kochavi vale già per i giorni a venire. Se Gaza diventerà, come molti temono, un santuario del terrore da cui lanciare nuovi e più sofisticati attacchi contro Israele allora Tsahal tornerà. Ma ora deve andarsene in fretta. Deve farlo senza perdite. Deve farlo prevenendo l'eventuale tentativo di milizie fuori controllo decise a provare che l'esercito nemico fugge sotto il fuoco palestinese. Non riuscirci equivarrebbe a condannare a morte politicamente il premier Ariel Sharon tenuto sotto tiro dai dissenzienti del Likud. L'Anp ha promesso di schierare quindicimila uomini, ma in un territorio dove i gruppi armati occupano edifici, eliminano esponenti della stessa Anp e rapiscono giornalisti le promesse non sono garanzie. Dunque l'esercito se ne va tenendo gli occhi aperti fino all'ultimo metro. E gli ultimi a farne le spese sono stati tre palestinesi. Colpiti dalle pallottole israeliane nella sparatoria seguita alla carica di una folla decisa a sfondare le barriere per entrare anzitempo negli insediamenti.
Nonostante quegli spari il generale Dan Harel, comandante di Tsahal per il sud saluta l'ammaina bandiera augurandosi «un migliore futuro per entrambi i popoli».
Per ora non se ne vede traccia. La prevista cerimonia congiunta per la consegna di Gaza è stata cancellata per il rifiuto palestinese di parteciparvi. Il niet dell'Anp è arrivato dopo la decisione israeliana di mantenere chiuso il valico di Rafah con l'Egitto e di non distruggere le due dozzine di sinagoghe rimaste nelle colonie. «Ci hanno sbattuto in faccia questi due problemi con una mossa estremamente sleale», sostiene il negoziatore palestinese Saeb Erakat. Di fatto fino a quando non si troverà una soluzione per il controllo congiunto del valico di Rafah, l'unico da cui i palestinesi possono passare in Egitto, Gaza resterà una gabbia chiusa. «Fino a quando controlleranno lo spazio aereo le acque territoriali e i passaggi di confine Gaza resterà occupata», accusa il ministro palestinese Sufian Abu Zaydeh. Più complesso il problema delle sinagoghe. Per l'Anp la mossa israeliana è una trappola ordita per esporla al biasimo internazionale quando quei luoghi religiosi finiranno distrutti.
Ma questo non le ha impedito di annunciare che entro oggi le sinagoghe sranno demolite.
La questione delle sinagoghe lacera anche l'opinione pubblica israeliana divisa tra chi - rispettando l'opinione dei rabbini - s'oppone a una distruzione per mano ebraica e chi sostiene l'impossibilità di lasciarle esposte alla rabbia palestinese. Sharon, preoccupato anche per il ritardo determinato da un eventuale smantellamento e trasporto in territorio israeliano, ha deciso di seguire il consiglio dei religiosi. Così ieri mattina i ministri dell'esecutivo hanno deciso - con 14 voti a favore e due contrari - di abbandonarle intatte. Il ritiro degli ultimi soldati e la consegna di Gaza ai palestinesi è stata invece votata all'unanimità.
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