Una falsa storia del conflitto israelo-palestinese
proposta da Suad Amiry al festival della letteratura di Mantova
Testata:
Data: 09/09/2005
Pagina: 25
Autore: Pierangelo Giovanetti - Mario Baudino
Titolo: Un architetto per la Palestina - Suad amiry: banalità del bene, fra le bombe
Ospite del festival letterario di Mantova la scrittrice palestinese Suad Amiry rilascia un'intervista a Pierangelo Giovanetti, inviato di AVVENIRE.

Afferma, tra l'altro, che gli israeliani nel 48 volevano "rubare la terra ai palestinesi", e che non vi sarebbe nessuna motivazione religiosa nel conflitto israelo-palestinese (nemmeno per i fondamentalisti di Hamas che considerano tutto Israele "terra islamica"?).

Tutto il conflitto, a suo dire, si risolverebbe se "domani Israele dice che non vuole più prendere la terra palestinese".
Debole la replica di Giovanetti, che, acconsentendo implicitamente alla tesi di fondo della Amiry, ricorda che "Però anche i palestinesi hanno le loro colpe. Pensiamo solo agli attentati, ai kamikaze, alla violenza verso gli israeliani. Israele chiede sicurezza, che non ha".
Ma si sarebbe dovuto ricordare anche il fatto che i palestinesi hanno avuto molte occasioni per ottenere la terra e lo Stato cui aspirano, occasioni sempre rifiutate dai loro dirigenti in nome dell'illusione della distruzione di Israele.
Invece, mancando questo indispensabile tassello, la Amiry può limitarsi a una vaga risposta "pacifista" che nulla dice su come sciogliere i veri nodi del conflitto: "È possibile vivere in pace e in sicurezza, israeliani e palestinesi assieme. Però ci deve essere il riconoscimento reciproco, e va riconosciuto il nostro diritto alla terra".

Ecco il testo completo dell'intervista:

In Italia è diventata popolare grazie ad un romanzo dal titolo bizzarro: Sharon e mia suocera. Diari di guerra da Ramallah (Feltrinelli), l'anno scorso vincitore del Viareggio Internazionale. Suad Amiry, architetto palestinese della diaspora, cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, torna ora alla ribalta con un nuovo libro, Se questa è vita. Dalla Palestina in tempo di occupazione (Feltrinelli, pagine 150, euro 12,00). Suad Amiry è la fondatrice del Riwaq, il centro per la difesa del paesaggio e l'architettura della Palestina, ed è una delle presenze più attese del Festivaletteratura di Mantova. Con divertente ironia e vibrante capacità di narrazione, racconta la vita di tutti i giorni a Ramallah, tra guerra, muri di separazione, soldati che entrano in casa...
Amiry, come si fa a raccontare con humour la guerra e l'occupazione?
«Quando un popolo vive sotto una pressione tremenda, l'unico modo per andare avanti è quello di scherzarci sopra. Se non ridi, piangi, diciamo noi. I palestinesi affrontano così la disperazione della vita. Quando vengono umiliati, l'unica risposta possibile è buttarla sul ridere, cogliere l'ironia delle situazioni. Io stessa lo faccio, nella vita e nei libri».
Non è una sorta di rassegnazione? «No, è l'unica forma di reazione che ci è consentita: prendersi gioco di loro. Quando un soldato ti entra in casa, ti dà ordini, ti fa restare sotto il sole per ore, non puoi infuriarti. La rabbia, quindi, si trasforma in ironia. Di fronte ai soldati che mi interrogano all'aeroporto e vogliono sapere cosa ho fatto a Londra, non posso rispondere: non è affar tuo. Così dico: a Londra ho ballato».
Lei ha detto che vuole essere l'«hakawati» della sua gente, il cantastorie, che racconta la memoria collettiva. Quanto è forte l'identità di popolo dei palestinesi?
«A volte troppo forte. Quando c'è questo senso d'identità, che si trasforma in un sentimento nazionalista acceso, non c'è più spazio per l'altro. L'identità diventa pericolosa. Io credo invece sia necessario avere un'identità aperta, capace di dialogare con l'altro e pronta a ricevere il meglio dell'altro. Il conflitto politico rende spesso un popolo egocentrico, e questa è una minaccia per gli altri. Che questo popolo sia palestinese o israeliano non importa».
Prima dell'occupazione israeliana, i palestinesi avevano un'identità di popolo? O paradossalmente sono stati i campi profughi a crearla?
«Certo che è stato così. Sono stati i soldati israeliani a creare una forte identità palestinese. Prima c'erano contadini, che non si domandavano se erano arabi o palestinesi. La volontà di annettersi la nostra terra, ha creato una coscienza di popolo. Io sono giordana di nascita, ma ricordo con forza il giorno in cui mi sono sentita palestinese. Era il 1967. Anche noi della diaspora non potevano non sentirci palestinesi».
Lo scontro fra israeliani e palestinesi ha creato un fossato ormai incolmabile fra i due popoli?
«Assolutamente no. Il conflitto ruota attorno ad un'unica cosa: la terra. Niente altro. Non c'entra nulla la religione, la razza, il colore della pelle. Se domani Israele dice che non vuole più prendere la terra palestinese, non c'è più conflitto».
Però anche i palestinesi hanno le loro colpe. Pensiamo solo agli attentati, ai kamikaze, alla violenza verso gli israeliani. Israele chiede sicurezza, che non ha.
«È possibile vivere in pace e in sicurezza, israeliani e palestinesi assieme. Però ci deve essere il riconoscimento reciproco, e va riconosciuto il nostro diritto alla terra. Io poi sono contraria all'uso delle armi. Sempre. La violenza non ha giustificazione, da qualunque parte venga».
Sharon e Abu Mazen sono gli uomini giusti per la pace?
«Sharon no. Chi conosce la sua storia, sa che non può essere l'uomo della pace. Lui non riconosce che la terra dei palestinesi appartiene ai palestinesi».
Però si è coraggiosamente ri tirato da Striscia di Gaza.
«Il ritiro è stato un passo giusto: lasciare che settemila coloni posseggano il 90% dell'acqua e il 40% della terra, e un milione e mezzo di palestinesi abbiano solo quello che avanza, non era più possibile. Il popolo palestinese pagherà però caro questo sgombero. In cambio saranno infatti accresciuti gli insediamenti ebraici in Gerusalemme e nella West bank».
A dieci mesi dalla morte di Arafat, la situazione dei palestinesi è in qualche modo cambiata?
«Arafat era un leader carismatico, non un costruttore di istituzioni. Da questo punto di vista, è meglio che non ci sia. Arafat ha poi una colpa grande: quella di non aver saputo fare la pace. Perché lui aveva le capacità di influenza e di convincimento sui palestinesi, necessarie per portare alla pace. Ma non l'ha fatto. Ha perso un'occasione storica».
Che vuol dire essere donna e araba?
«In Occidente ci sono molti stereotipi sulle donne arabe. Io sono una tipica donna della classe media palestinese. Le donne studiano, vanno all'università, hanno posizioni di rilievo nella società».
Il suo libro narra di un vecchio che cerca di ripiantare gli ulivi sradicati lungo il muro costruito dai soldati. Cosa rappresenta il muro per lei?

«La più grande stupidaggine, non solo verso i palestinesi ma verso gli stessi israeliani. Dal 1948, gli israeliani vogliono essere integrati, essere parte di quest'area. E poi cosa fanno? Costruiscono un muro per dividersi dagli altri. Ma tanto il muro, come a Berlino, cadrà anche da noi».
Anche nell'articolo di Mario Baudino "Suad Amiry:banalità del ben tra le bombe" troviamo la visione piuttosto faziosa della scrittrice palestinese, che accusa Israele anche per i fallimenti dell'Autorità nazionale palestinese, senza denunciare la politica terrorista e oltranzista che questa ha a lungo condotto.

Baudino, dal canto suo, evita di pronunciarsi sui giudizi politici della Amiry, asserendo che con essi si può o meno concordare.
Meglio sarebbe stato mettere in luce i motivi per cui non si può concordare con una visione falsata del conflitto israelo-palestinese

Ecco il testo:

«L’assassinio di Moussa Arafat? Come donna, e come laica, per quanto riguarda la Striscia di Gaza mi preoccupa di più Hamas», dice Suad Amiry all'indomani del sanguinoso regolamento di conti in Palestina. Architetto di spicco, membro della delegazione palestinese ai colloqui di pace fra il '91 e il '93, scrittrice «per caso» ma tradotta in 25 paesi, l'autrice di Sharon e mia suocera presenta al Festival il suo nuovo libro, Se questa è vita, sempre pubblicato da Feltrinelli, che ne rappresenta l'ideale continuazione. È, come il primo, un diario di vita quotidiana nei territori, scritto a Ramallah con humour e sarcasmo, ira e allegria. Anche questo è nato in inglese, ma non più, come accadde per il fortunatissimo esordio, dalle e-mail che lei mandava agli amici e che finirono più o meno contemporaneamente sui tavoli della Feltrinelli e di una casa editrice israeliana: col risultato che la «prima» mondiale se la contesero l'italiano e l'ebraico. Con la politica di Israele è, ovviamente, sempre durissima.
Suad Amiry tende a sbarazzarsi della battaglia di Gaza come di un episodio nella difficile lotta per unificare i servizi di sicurezza intrapresa dal successore di Arafat. Non le pare, chiediamo, un colpo molto grave alla credibilità dell'Olp? «Sì e no. Nessun governo al mondo riesce a funzionare in regime di occupazione». Basta per far ricadere ogni responsabilità sulla politica israeliana? «Per carità, riconosco anche i nostri errori: non tanto la corruzione, su cui si è molto enfatizzato, ma quello di non aver investito nella società creando istituzioni, evolvendoci da movimento politico a Stato. Qui si è infilata Hamas. E la politica europea e americana non ci aiuta a contenerla, anzi la rafforza». Preferisce allora parlare di quotidianità: «La situazione è terribile, certo. Ci sono i kamikaze, i bombardamenti di Sharon, il muro, la terra sequestrata, i posti di blocco, ma anche tre milioni e mezzo di gente normale, che vive la vita di tutti i giorni. I miei libri parlano di gente normale».
In questo sta la loro forza: nel riportare un mondo assordato dalle ideologie e dagli stereotipi alla realtà di chi ci vive tutti i giorni. Ma anche nell'evitare, come di lì a poco spiega Barbara Spinelli, la logica aberrante dei «capri espiatori». La giornata di Mantova si consuma tra due testimoni appassionate e severe: se infatti da una parte Suad Amiry ci invita a ritrovare una capacità di sguardo, anche al di là delle sue opinioni - che si possono condividere o meno -, Barbara Spinelli riporta la stessa situazione al livello di una modello culturale, un paradigma dello sguardo, parlando a margine del suo recente libro Ricordati che eri straniero (pubblicato da Qiqajon, l'editrice della comunità di Bose) con l'islamologo Khaled Fouad Allam. L'evento era atteso (in prima fila c'erano anche politici come Arturo Parisi e Mino Martinazzoli), soprattutto dopo le polemiche in corso sul relativismo, il meticciato, il rapporto con le altre culture e le religioni.
Barbara Spinelli mette infatti sotto accusa i cosiddetti «teo-con», sottolineando come il riferimento al cristianesimo venga ormai largamente usato in modo strumentale («persino quando si tratta di far fuori il direttore della Banca d'Italia», aggiunge con una punta amara di sarcasmo), e cita l'ormai celebre discorso del presidente del Senato Marcello Pera al Meeting di Rimini, collocandolo però in un contesto generale, che coinvolge anche il modo in cui guardiamo la realtà attraverso la televisione: un rituale che pareva antico e «archiviato» proprio dal cristianesimo, quello - per usare un'analisi del filosofo francese René Girard - del «capro espiatorio». Di volta in volta, avverte, zingari e ebrei, immigrati o islamici diventano il capro espiatorio delle nostre paure, del nostro desiderio di rinsaldare un ordine di certezze, di essere un «gruppo compatto». È un atteggiamento feroce, di cui spesso non ci rendiamo conto. Una lente deformante sulla realtà, che contagia tutti. «I politici possono brandire questo spettro», conclude, ma a noi toccherebbe non lasciarglielo fare. Come direbbe Suad Amiry, cominciando dalla gente comune.
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