Il CORRIERE DELLA SERA di giovedì 8 settmbre 2005 pubblica un articolo di Davide Frattini sulla figura di Yasser Arafat e sulla sua disastrosa eredità politica, che riporta interessanti testimonianze raccolte dal giornalista americano David Samuels per un suo articolo pubblicato da "Atlantic Monthly"
Ecco il testo:Quando ancora i fiori delle corone erano freschi e la gente si metteva in fila per visitare il mausoleo, quattro sentinelle stavano immobili attorno alla tomba di Yasser Arafat. Ogni ora le guardie d'onore si davano il cambio, con un cerimoniale che per Muhammad Mukbel, ex capo del protocollo dell'Olp, doveva ricordare il rituale di Buckingham Palace.
Ora i militari sono rimasti in due, si muovono inquieti e sorridenti attorno alle pietre di marmo bianco, pronti a dare informazioni ai pochi turisti in visita. Che della Mukata degli anni dell'assedio israeliano non respirano più neppure la polvere. Mahmoud Abbas, il successore, ha fatto pulizia delle pile di macerie e delle macchine sfasciate, dei sacchi di sabbia alle finestre. E di un fantasma con la kefiah: è bianco il muro di tre piani dove una volta campeggiava l'enorme ritratto del raìs morto l'11 novembre del 2004.
La purga di simboli e ricordi non sembra aver indignato i palestinesi. «La gente è più preoccupata dalle difficoltà di tutti giorni. Arafat se n'è andato, se ne rendono conto, preferiscono pensare a come fronteggiare i problemi reali», spiega Bazem Ezbidi, docente di Scienze Politiche alla An-Najah University. «Perché l'uomo che ha creato la Palestina è anche il leader che l'ha devastata» ha commentato David Samuels sulla rivista Atlantic Monthly. Il giornalista americano ha speso otto mesi tra Gaza, la Cisgiordania e Israele per raccogliere aneddoti e foglietti d'appunti, ricevute bancarie e memorie del raìs. Il puzzle ricostruito spiega come «l'obiettivo di creare uno Stato indipendente sulle rovine d'Israele ha annientato tutto il resto, compreso il benessere del suo popolo».
RIMBOCCARE E IMBOCCARE — Samuels ha incontrato Abu Helmi, una delle guardie più fedeli. Per molti anni — racconta — Arafat si svegliava all'improvviso la notte e andava nella stanza delle sentinelle per verificare che fossero coperte, che stessero dormendo. «A tavola, insisteva perché mangiassimo. Se era particolarmente bendisposto verso qualcuno, si ostinava a volerlo imboccare dal suo piatto».
SOGNANDO CALIFORNIA — Dennis Ross, alla guida dei negoziatori americani tra il 1993 e il 2000, descrive il primo incontro nella villa dell'esilio tunisino. «E' stato come tornare ai tempi di Berkeley, quand'ero un attivista. Una tana di rivoluzionari in stile campus universitario. Dietro una tenda, un gruppo di miliziani stava guardano un vecchio telefilm americano». Ross ricorda la prima volta in cui ha protestato con il raìs per un attentato, nell'aprile del 1994: «Mi ha sussurrato "è Barak, ha messo su una squadra segreta". Ho replicato "non essere ridicolo, gli israeliani non si ammazzano tra di loro". Questo era il classico Arafat: non voleva mai essere responsabile».
LA VALIGIA DI YASSER — «Negli ultimi anni della sua vita — scrive Samuels — Arafat era diventato capriccioso e lunatico. I palestinesi accettavano le sue bizzarrie perché era il loro padre». Pagava per i loro matrimoni. E per i loro funerali. «Quando visitava le città e i villaggi, un assistente lo seguiva con una Samsonite rigida piena di denaro che lui distribuiva alla folla lungo la strada». Il circolo ristretto dei fedelissimi riceveva ancora più quattrini. «Il Fondo Monetario Internazionale ha calcolato che tra il 1995 e il 2000 Arafat abbia sottratto 900 milioni di dollari dalle casse dell'Autorità palestinese. Il suo tesoro personale è stimato tra 1 e 3 miliardi di dollari, sparpagliato in duecento conti bancari».
PREGHIERA AL CREMLINO — Yasser Abd Rabbo, uno dei consiglieri, racconta una delle prime visite a Mosca negli anni Settanta. «All'improvviso ci comunica che vuole pregare. Lo imploriamo "non farlo, Allah farà un'eccezione". Non ci ascolta, si inginocchia rivolto alla Mecca in mezzo a una stanza del Cremlino e comincia a pregare. Il messaggio era per i sovietici: sono un nazionalista, sono un musulmano, sono indipendente».
I SAUDITI — «Credo che i sauditi abbiano giocato un ruolo nel convincere Arafat a continuare la seconda intifada». Mamdouh Nofal, ora poeta ed editorialista, è stato uno dei comandanti militari. Illustra a Samuels i mesi che hanno portato a quasi cinque anni di violenze e attentati. «Il presidente Clinton aveva messo sul tavolo la sua proposta, ma nel dicembre 2000 Arafat visita Riad. La leadership saudita deve avergli detto "aspetta, non giocarti questa carta con Clinton. Arriva Bush, Bush è figlio di un nostro amico. Da lui otterremo molto di più per te". Poi scoprimmo che l'Arabia Saudita non poteva fare nulla».
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