L'UNITA' di sabato 3 settembre 2005 pubblica a pagina 25 un editoriale di Leonardo Paggi.
Esordisce definendo le città israeliane di Gaza e Cisgiordania "insediamenti coloniali".
Quindi introduce una nota polemica con chi "ha già proposto Sharon per il premio Nobel della pace", diversamante dal quotidiano Ha'aretz che "ha messo esplicitamente in guardia dalla «teoria della non-reversibilità», ossia dall'idea che la politica di disingagement non possa, da qui in poi, che avanzare trionfalmente fino alla sue estreme conclusioni": un modo per dire che Israele non ha ancora fatto abbastanza per la pace, e dunque di riconoscimenti a Sharon non è il caso di parlare. Siano essi premi nobel o più concrete posizioni politiche.
Riguardo a queste ultime, infatti, il copione scritto da Paggi è noto: Israele deve "definire i suoi confini" se vuole ottenere la pace, la barriera di separazione, contro ogni evidenza, è dichiarata inutile a garantire la sicurezza degli israeliani e da abbattere.
Come sempre il terrorismo e l'intransigenza araba sono del tutto ignorati dall'equazione di una "pace" mediorientale che Israele potrebbe e dovrebbe ottenere da sola soltanto attraverso continue e crescenti concessioni.
Una cecità spinta fino a rimproverare a Israele l'abbandono del progetto sionista originario, disponibile al compromesso con gli arabi, senza considerare, dall'altra parte, il costante rifiuto arabo dell'esistenza dello Stato degli Ebrei.
"Fu Ben Gurion nel 1937, ossia in pieno mandato inglese," scrive Paggi, "ad accettare immediatamente la prima proposta di partizione della Palestina." Senza citare assolutamente il rifiuto arabo di quella stessa proposta.
Nello stesso modo in cui, oggi, per Paggi, il terrorismo palestinese e le posizioni oltranziste di Hamas e Jihad non sono ostacoli sulla via della pace, ma, semmai, incentivi alla "decolonizzazione".
Un editoriale, in sintesi, che esprime alla perfezione la posizione di chi, non vuole imparare nulla dal fallimento di tutte quelle politiche che hanno puntato a risolvere il conflitto israelo-palestinese muovendo dall'assunto che Israele, e solo Israele ne fosse responsabile.
Ecco il testo:Ora che la prevista prima fase della evacuazione degli insediamenti coloniali si è conclusa è lecito, anzi necessario, domandarsi quale sarà il prossimo passo. Diversamente da chi (a casa nostra) ha già proposto Sharon per il premio Nobel della pace, il quotidiano Haaretz ha messo esplicitamente in guardia dalla «teoria della non-reversibilità», ossia dall'idea che la politica di disingagement non possa, da qui in poi, che avanzare trionfalmente fino alla sue estreme conclusioni. Ma quali conclusioni, più precisamente? Troppe volte il processo di pace si è rovesciato catastroficamente nel suo opposto! E anche ora non mancano segnali inquietanti.
La recente dichiarazione di Nethanyau di scendere in campo per la guida del Likud su di un programma che osteggia radicalmente ogni evacuazione, e che raccoglie la larga maggioranza dei consensi nel partito, ha già spostato l'asse del dibattito politico. Nel caso perdesse, come è assai possibile allo stato attuale delle previsioni, la battaglia per la nomination, Sharon potrebbe volgersi alla creazione di una formazione politica centrista, si dice in ambienti a lui vicini. Ma molti sono i segnali che egli stia piuttosto cercando di riconquistare il consenso del partito. Inevitabilmente al centro, come oggetto di manovra e di trattativa, il tema degli insediamenti.
Il ministero degli interni ha recentemente fornito il dato ufficiale secondo cui i coloni della West Bank sono 246.000, con una crescita nell'ultimo anno di ben 12.800 unità, pari al 5% del totale. Il numero è destinato a crescere in primo luogo per la riallocazione degli sfollati da Gaza. Il primo ministro non ha fatto mistero di vedere di buon occhio il progredire della colonizzazione in direzione dei cinque, sei maggiori blocchi di insediamento, che egli ha dichiarato di considerare come parte integrante del territorio di Israele. Fuori discussione, ad esempio, la colonia di Ariel, con la rete circostante di insediamenti minori. Ma in particolare Ma'aleh Adumim dovrebbe crescere, con una colata di cemento di 3500 unità abitative, fino a ricongiungersi con la zona del Monte Scopus, nella parte orientale di Gerusalemme. Anche il Vice primo ministro Ehud Olmert (con molta probabilità destinato a svolgere un ruolo decisivo nella lotta che si è aperta nel Likud) si è dichiarato incondizionatamente a favore della realizzazione del progetto, che è destinato a svolgere un ruolo strategico: tagliare in Cisgiordania la comunicazione tra Nord e Sud, e prevenire la possibilità che la parte orientale di Gerusalemme possa divenire la sede di una autorità palestinese.
Una linea di compromesso volta a ricompattare la unità del Likud potrebbe dunque essere quella di una sorta di piano di razionalizzazione dello stato attuale degli insediamenti con il ritiro dalle aree che vengono ritenute non più sostenibili, specialmente sul medio periodo, in ragione del crescente divario demografico, e l'ulteriore espansione e il definitivo consolidamento delle colonie maggiori. In questa prospettiva non è difficile prevedere un rincrudimento della lotta palestinese in ragione della forte precarietà e incertezza in cui tornerebbe a cadere la prospettiva della creazione di una loro espressione politica autonoma. D’altra parte non molto chiare, per ora, le strategie all'interno del partito laburista, che dovrà comunque, anch'esso, procedere alle sue primarie in tempi rapidi. In considerazione della estrema fluidità in cui si trova attualmente tutta la situazione politica in Israele pare ragionevole dire che qualsiasi ulteriore mossa nella politica di disingagement non potrà determinarsi senza un nuovo passaggio politico, quale si avrà in coincidenza con l’appuntamento elettorale del 2006.
Sottolineare la incertezza della prospettiva non significa tuttavia sottovalutare il vero e proprio terremoto che si è determinato nel corrente discorso politico israeliano con il precipitare di una scelta che, sebbene presentata come assolutamente «unilaterale», giunge in realtà dopo anni di lacrime e sangue. La disperazione della prima intifada produsse il primo riconoscimento ufficiale tra le due parti, gli accordi di Oslo, per concludersi con l'assassinio di Rabin. La seconda intifada, con i prezzi atroci che ha imposto ad ebrei e palestinesi, ha finito per portare in un vicolo cieco la politica fondata esclusivamente sulla ritorsione e la rappresaglia, rendendo ad un certo punto improcrastinabili correzioni e aggiustamenti di qualche tipo. Almeno due le grosse novità che si sono determinate con il ritiro da Gaza.
Anzitutto il potere di ricatto e l’apparente invincibilità della destra religiosa ha subito un colpo decisivo. Al rabbino che chiedeva si smontasse la sua sinagoga e la si rimontasse pietra su pietra oltre la linea verde non si è dato più ascolto.
Il ritiro da Gaza e l'ampia fascia di consenso in cui si è prodotta ha reso, di contro, forse per la prima volta politicamente visibile una componente della società israeliana fortemente secolarizzata, per certi aspetti edonistica (in alcuni quartieri di Tel Aviv si vive ormai come a Manhattan), che preme per una esistenza quotidiana forse meno eroica, ma più ricca di concreti contenuti umani. Si tratta di una porzione del corpo elettorale fino ad ora silenziosa ma che da ora in poi potrebbe avere molto da dire nella politica israeliana. Ad essa si rivolgerà obbligatoriamente il nuovo centrismo di Sharon.
In secondo luogo esce in qualche modo delegittimato il tema della sicurezza, come motivazione più strettamente politica della espansione degli insediamenti. Si comincia a prendere atto che questa sicurezza fondata sulla occupazione preventiva di territorio palestinese si è rovesciata sempre nel suo opposto.
La politica del muro, che proprio in nome della sicurezza è stata pervicacemente difesa contro una diffusa opinione pubblica internazionale, sembra difficile possa coesistere a lungo con il permanere di una qualche prospettiva di disingagement.
Si delinea concretamente la possibilità di una strada alternativa per garantire la sicurezza del cittadino israeliano: quella della definizione certa e irrevocabile dei confini. Il presidente della repubblica Moshe Katsav, in un discorso alla nazione pronunciato alla vigilia dell'inizio delle operazioni di sgombero, ha affermato non senza ragione che il passaggio attuale è il più decisivo vissuto da Israele dai tempi della dichiarazione di indipendenza. In effetti, se portata ad una qualche ragionevole conclusione, la evacuazione delle colonie rappresenterebbe il modo concreto in cui fare i conti con il paradosso di uno stato che ha visto crescere ininterrottamente il suo peso economico e militare, sempre passando di successo in successo, e che tuttavia non ha mai definitivamente risolto la questione pregiudiziale dei suoi confini. Il progetto di una grande Israele, dal Mediterraneo al Giordano, che mette radici profonde nel 1967, non solo ha prodotto delegittimazione internazionale - come sta a dimostrare il record ormai pluridecennale delle votazioni alle Nazioni Unite - ma ha imposto prezzi altissimi alla popolazione ebraica, in primo luogo alla sua gioventù.
Uno stato senza confini è uno stato aperto, condannato a vivere costantemente in una situazione di emergenza e di mobilitazione, che affida la propria determinazione territoriale esclusivamente alla logica dei rapporti di forza e che accetta quindi la guerra come dimensione di vita quotidiana e come modalità di costruzione del consenso interno.
La partita politica in atto in Israele da oggi ai prossimi mesi va in questo senso oltre una sia pur cruciale riapertura di un percorso di pace: chiama in causa la fondazione dello stato, le sue modalità di esistenza nel contesto internazionale, lo stesso modo di intendere il futuro dell'ebraismo.
Rompere con la logica paradossale dello «stato di eccezione» in permanenza significherebbe approssimarsi a quella soglia della «normalità» auspicata da Yehoshua, nella direzione di una identità nazionale progressivamente sganciata dallo zelotismo e dal senso ossessivo della propria unicità. Sarebbe un ritorno alla tradizione secolare del sionismo. Fu Ben Gurion nel 1937, ossia in pieno mandato inglese, ad accettare immediatamente la prima proposta di partizione della Palestina.
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