L'UNITA' di giovedì 1 settembre 2005 pubblica in prima pagina un editoriale di Luigi Bonante sulla strage in Iraq.
Premessa: a determinare l'ultima strage del terrorismo iracheno è stata la mancanza di accettazione da parte dei sunniti della Costituzione.
Premessa falsa, perché i sunniti stanno trattando con metodi democratici, e perché le loro istanze sono solo strumentalizzate dai macellai di Al Zarqawi edel Baath, che infatti non esitano a minacciare e massacrare anche i sunniti che accettano di partecipare al gioco democratico.
Inoltre, premessa pericolosa, perché identifica un'intera comunità religiosa irachena con un esercito di spietati assassini.
Premessa da guerra civile, se malauguratamente assunta in Iraq da qualcuno di un po' più influente del fortunatamente irrilevante (in quel paese) professor Bonanante.
Conclusione (non conseguente): ritiriamoci immediatamente dall'Iraq e il massacro finirà. Come se l'ennesima strage ancora non avesse reso evidente che l'"insurrezione" irachena non si oppone primaramante agli stranieri e alla loro "occupazione", ma ad altri iracheni. Alla loro libertà ritrovata dopo la caduta della tirannia di Saddam, al loro progetto di convivenza democratica, persino alla loro fede religiosa "eretica" e alla loro etnia non araba.
Come se non fosse, oggi, il governo iracheno democraticamente eletto a chiedere alla coalizione di restare, di combattere insieme ad esso la guerra al terrorismo finché non saprà far da solo. Una guerra a un terrorismo che, ricordiamolo, minaccia noi quanto gli iracheni e continuerebbe a minacciarci, magari dopo una "hudna", una tregua della jihad, anche se abbandonassimo quel paese al suo destino. Quale sarebbe il destino di quel paese se cadesse in mano alle forze jihadiste e baathiste è facilmente immaginabile guardando ai metodi con cui esse cercano di conquistare il potere, poichè tali metodi riflettono la loro ideologia dell'odio e prefigurano le modalità con le quali ESERCITEREBBERO il potere:trasformando l'Iraq in un immenso mattatoio.
E in una base per colpire al cuore l'Occidente, con la stessa ferocia e determinazione dimostrata in Iraq.
Per questo non occorrono, contrariamente a quanto pensa Bonanate, un particolare altruismo e una particolare apertura mentale per dichiarare che "siamo tutti iracheni".
Lo siamo, e lo dicono i fatti, non i moti del cuore. Conducendo altresì ad una conclusione ovvia, che in troppi si ostinano a rifiutare: che la guerra dell'Iraq democratico per la propria sopravvivenza è anche la nostra guerra, volenti o nolenti.
Ecco il testo:Le dimensioni di questa tragedia, nella sua stessa involontarietà, hanno una portata simbolica perentoria: dicono che questa storia infelice, iniziata ormai il 17 marzo 2003, non può continuare così, a meno di arrivare alla consunzione estrema di una popolazione che sta subendo patimenti di portata davvero biblica
Che si possa morire di paura come è successo ieri, cercando di sfuggire a un attentato (se tale era davvero) è la tragica conclusione di una vicenda della quale oggi dire che sia stata tutta un fallimento appare persino cinico. L’evento è andato al di là di ogni più diabolica aspettativa degli attentatori: se sono sunniti intendevano segnare chiaramente il fosso che separa non soltanto essi stessi ma l’intera società irachena dall’avere una vera Costituzione. L’opposizione sunnita al contenuto federalistico della Costituzione progettata è stata totalmente trascurata dalle componenti sciita e kurda nonché dall’Amministrazione americana che ha finto che l’opinione sunnita fosse irrilevante e ha sfacciatamente annunciato nuove elezioni per questo inverno. Ora, nessuno perdonerà mai (se ci sono) gli attentatori che hanno scatenato questa allucinante reazione a catena che ha gettato mille persone in un precipizio, ma questo stesso eccesso ci dà il senso dell’inaccettabilità, del bisogno di riuscire a scardinare questo meccanismo diabolico che ogni giorno chiede il suo tributo di vittime.
È stata offesa l’idea che sta alla base di ogni Costituzione, che consiste nel patto che forze politiche sociali culturali diverse tra loro decidono consapevolmente di stringere per il benessere comune: nulla a che vedere con il progetto che conosciamo. La percezione che sale dentro ogni iracheno ma anche dentro ciascuno di noi (a proposito: non abbiamo ancora sentito nessuno dire «io sono iracheno») è che al peggio non ci sia mai fine e il degrado sia giunto a soglie estreme. L’Iraq è in una condizione di vera e propria anarchia: nessuno comanda, nessuno dirige, nessuno sa che cosa sarebbe bene fare. Dopo la cacciata di Saddam, che data ormai da due anni e mezzo, sono morte circa trentamila persone (non distinguiamo neppure iracheni e americani: almeno i morti sono tutti uguali); Baghdad è un cumulo di macerie, come tutte le altre più importanti città del Paese; i beni culturali e archeologici sono stati devastati; la vita economica non esiste più se non per il commercio di beni di prima necessità e non di rado soltanto al mercato nero; la produzione di petrolio è bassissima e gli utili comunque nessun iracheno li ha visti. Partiti politici non ne sono nati, ma soltanto fazioni a base religiosa, mentre solamente la separazione tra politica e religione consentirà a entrambe di rappresentare pacificamente le loro ragioni e le loro argomentazioni.
Più nessuno va d’accordo con nessuno, non soltanto in Iraq ma neppure nel mondo occidentale: la zizzania corre e gli americani hanno litigato ormai quasi con tutti per un motivo o per l’altro, prima durante e dopo la guerra. Persino l’affezionatissima Italia è sull’orlo di una crisi di nervi... Ma poi, cerchiamo di ricordare: quali erano i fini dell’attacco all’Iraq di Saddam? Certo, una volta liquidato il dittatore, doveva esservi impiantata la democrazia. Ma chi saprebbe darci una buona definizione di questa parola, oggi, in quel Paese? E si badi: non è arroganza chiederlo, perché vorremmo saperlo anche dagli occupanti, non soltanto dagli occupati.
È difficile che qualcuno sia ancora convinto che la guerra sia stata una buona idea; del resto sbagliare è lecito. Ma quando si vedono i risultati dei propri sbagli, specialmente se il prezzo è pagato da altri, allora insistere e anzi andare sempre più a fondo è davvero insopportabile. E anche ingiusto: ma si sono mai chiesti gli americani quanto costerà loro, in termini di immagine, di buoni rapporti con il mondo islamico, questa loro testarda deformazione degli ideali democratici? Per quanti decenni i figli dei figli iracheni continueranno a maledire il nome di chi ha loro ucciso padri, madri, nonni, fratelli e sorelle? Verrebbe da dire che di fronte a tragedie tanto immani anche la politica dovrebbe ritrarsi, con un po’ di vergogna, e cercare di ritrovare una parvenza di quel pudore che ha perduto: ma ora che ci siamo sporcate le mani, non potremo lavarcele se non con l’aiuto degli iracheni stessi.
Seppure in buona fede (non lo vogliamo neppure mettere in discussione, almeno oggi), abbiamo portato loro più male che bene, più morte e dolore che vita e gioia. Conterà pure qualcosa per noi la gente che vive in Iraq, è per loro che abbiamo impiantato questa immensa tragedia: bene, chi di noi pensa di trasferirsi in Iraq? Sarebbe troppo semplicistico, acconsentendo al mio argomento, dire che semmai dovremmo mandarci Bush, Condoleezza Rice e Rumsfeld: non vogliamo capri espiatori (chi voterà chi in futuro negli Stati Uniti, è una questione di democrazia che risolveranno gli americani), ma risposte politiche, capacità di pacificazione, separazione tra le parti (che è l’unica pre-condizione di ogni trattativa), fiducia negli iracheni e ritiro di tutte le armi e di tutti gli armati: l’Iraq riprenderebbe a respirare in pochi istanti e si leverebbe un impressionante silenzio. Non quello dei cimiteri, ma quello delle armi che finalmente non tuonano più.
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