I cristiani sono nel mirino del terrorismo e delle tirannie islamiche
lo spiegano Michael Horowitz, Giulio Meotti e Carlo Panella
Testata:
Data: 21/07/2005
Pagina: 2
Autore: Giulio Meotti - Carlo Panella
Titolo: Sveglaiti Europa - Perché quelli di al Qaida sono attacchi "anticristiani"
A pagina 2 dell'insertoIL FOGLIO di giovedì 21 luglio 2005 pubblica un articolo di Giulio Meotti su Michael Horowitz, filosofo ebreo americano impegnato nella difesa dei cristiani perseguitati.

Ecco il testo:

Nel 1997 un magazine battista incluse Michael
Horowitz fra i dieci più importanti
cristiani al mondo, assieme a Madre Teresa
e Bill Graham. Solo che Horowitz è
ebreo. Però aveva mosso oltre 10.000 chiese
americane nel denunciare le condizioni dei
cristiani nel blocco comunista e nei regimi
arabi. Ha criticato il Dipartimento di Stato
che considera eroi soltanto i giovani davanti
ai tank in piazza Tienammen, dimenticando
i montagnard e i cattolici clandestini di
Pechino. E’ stato il collante fra l’Anti-Defamation
League e la National Association of
Evangelicals, un ponte verso il mondo di
Jim Dobson a Colorado Springs. Ha fatto
pressioni per la svolta di Bush sul Sudan. Di
lui Charles Colson, collaboratore di Nixon
e tra i più influenti "rinati alla fede", ha
detto: "Dio ha mandato questo ebreo nel
mondo per i gentili".
La mattina dell’11 settembre, Horowitz
era nell’ufficio di Sam Brownback per i fondi
agli oppositori di Kim Il Sung. Nel 1998,
insieme con Eliott Abrams, ha fatto pressioni
su Bill Clinton per l’International Religious
Freedom Act. Da quando nel 1995 sul
Wall Street Journal ha denunciato le persecuzioni
islamiche, Horowitz sta ricevendo
continue minacce dai musulmani.
Veterano dell’Amministrazione Reagan,
è poi diventato direttore dell’Hudson Institute,
uno dei più influenti think tank fondato
da Norman Podhoretz. Al Foglio, Horowitz
spiega che è in corso "una battaglia
contro l’anima dell’islam fascista. Quando
guidavo il movimento americano sulle persecuzioni
dei cristiani nel mondo islamico,
le maggiori figure della comunità musulmana
mi avvertirono che la mia vita era in
pericolo. Dobbiamo continuare la guerra
senza quartiere ai radicali, ai terroristi e ai
fondamentalisti, al fascismo islamico schierato
contro la nostra democrazia e modernità.
Ma non sarei qui a parlare con lei se
qualche musulmano non mi avesse informato
delle minacce che mi venivano rivolte.
Forse non esiste un islam ‘moderato’ come
lo intendiamo noi. Chiamiamola decenza,
di cui l’Indonesia è un esempio, calpestata
dai regimi fascisti che dobbiamo riformare
o abbattere. Bush, che è stato più
grande di Reagan, lo sa molto bene". Al
Wall Street Journal ha detto che era un bene
che la politica estera americana subisse
un’impronta "evangelica", è salutare alla
politica un po’ di messianismo laico. Ha individuato
45 autocrazie da riformare entro
il 2025. "Per un ebreo il silenzio non è
un’opzione".
Secondo Horowitz diventerà centrale,
prima dell’Iran, la questione saudita: "E’ la
fonte del dominio islamico fascista, finanzia
il terrore, sforna terroristi e attira il fanatismo
rivendicativo dei musulmani totalitari".
Sull’Europa non si fa illusioni: "E’ appesantita
sulla guerra al terrorismo, ha dialogato
con chi non doveva e ha sostenuto i fascisti
islamici. Non ha rispetto per i suoi valori,
è come se vivesse negli eterni anni Sessanta,
radicalismo anticattolico, pacifismo
negligente e mancanza di visioni politiche
che possano riformare il medio oriente. E’
impotente e le manca ogni virtù della propria
cultura e tratta l’islam con patronale
indifferenza. In Europa il sangue dell’11 settembre,
se mai è stato fresco per un solo minuto,
ormai è stato del tutto lavato. Sarà in
grado di chiamare guerra la sua risposta a
chi ha fatto 200 morti a Madrid e distrutto
decine di altre vite a Londra?".
"Dobbiamo rilanciare i dissidenti come Ganji"
Pim Fortuyn, Theo van Gogh, King’s
Cross, il multiculturalismo è fallito, serve
una nuova moralità nel confronto con l’islam:
"Mio padre è nato in Polonia, io stesso
avevo pochissimi amici da piccolo, nessun
italiano o irlandese. Aveva un’insegnante
che parlava un inglese senza accento.
Ha avuto grandi difficoltà nell’adottare
i principi e i valori americani. Ma ce l’ha
fatta e le cose fra ebrei e cristiani da allora
sono cambiate. Del multiculturalismo
europeo resta soltanto il ghetto francese,
dove ha presa la parola obliqua e ambigua
di Tariq Ramadan".
La risposta al terrorismo deve essere militare,
etica e culturale. "L’occidente deve
smetterla di chiedere scusa al mondo islamico,
deve essere orgoglioso di quello che è
e deve essere pronto a difenderlo. La democrazia
non si tutela da sola. E’ vero però che
quella militare non può essere la strategia
permanente. Reagan è stato grande in questo,
come Blair e Aznar. La guerra al terrorismo
può essere vinta soltanto se ogni cristiano
si sente ebreo e se ogni ebreo si sente
cristiano. Siamo noi gli obiettivi dell’odio
islamico fascista. Per questo ero preoccupato
che l’Amministrazione Bush fosse guidata
dai realisti". La vittoria sul terrorismo
passa dal nodo gordiano dei cristiani: "Sono
come gli ebrei negli anni Trenta. Come
Hitler riuscì a perseguitare milioni di ebrei
soggiogando anche tutti gli altri, così nei regimi
arabi fascisti i cristiani sono vittime al
fianco dei musulmani che non possono affacciarsi
alla democrazia con la pistola alla
testa dei terroristi fanatici. Dobbiamo rilanciare
i dissidenti, come l’iraniano Ganji a
cui Bush ha dato grande risalto".
Le comunità cristiane sono una fonte di
democrazia e modernità all’interno del
mondo islamico, una sorta di anticorpo. "La
speranza di milioni di musulmani in Pakistan,
Indonesia, Egitto, Sudan, Iran e Iraq, e
di altri milioni di cristiani in Cina, Corea
del Nord e Laos dipende solo dagli Stati
Uniti". Ha gioito quando Bush ha incluso
Pyongyang nell’"asse del male". Perché
mancano all’appello più di 300.000 cristiani.
Giulio Meotti
Carlo Panella, sempre a pagina 2 dell'inserto, spiega "Perché quelli di al Qaida sono attacchi "anticristiani" ":
Da anni, da prima dell’11/9, tutte le tv del
mondo mandano in onda uno "spot" di
al Qaida che dimostra la vocazione anticristiana
del terrorismo islamico. E’ un servizio
sull’addestramento dei mujaheddin
identico nella sua struttura a quelli delle
forze di polizia. Si vedono mujaheddin incappucciati
che marciano, che combattono
a mani nude, che pendono da sbarre ginniche.
Si vede anche il classico artefatto di
tutti gli spot di tutte le polizie del mondo:
l’irruzione armata in una casa. L’incappucciato
calcia il portone mentre i due suoi colleghi
si appiattiscono a fianco degli stipiti,
le identiche movenze, gli stessi gesti sincopati
per entrare poi in una stanza dalla porta
chiusa, infine gli spari. La differenza con
gli altri filmati – mille volte abbiamo visto
questa scena a illustrare azioni antimafia –
è l’obiettivo finale contro cui gli incappucciati
sparano. Non è un qualsiasi bersaglio:
è una croce, una riconoscibile croce latina,
una croce cristiana. I militanti di al Qaida si
allenano – e ci tengono a farlo sapere – sparando
a croci cristiane. Non è malignità sospettare
che il gesto blasfemo non sia stato
spiegato agli spettatori di tutto il mondo in
omaggio a una visione "politically correct".
Il vero problema, però, è che questo odio
per la croce, non è solo di al Qaida, non è legato
solo all’odio per i "crociati" di cui è infarcita
la fatwa del 1998 di Osama bin Laden
che lancia il Jihad. Il problema vero è
che l’odio per i cristiani, odio religioso, politico,
radicale, è uno dei tanti fondamentali
ponti teologici che collegano una parte
dell’islam cosiddetto moderato al terrorismo
islamico. Il problema vero è che questo
odio anticristiano – come quello antiebraico
– è uno dei tanti veicoli dell’ampio consenso
che il terrorismo islamico riscontra
nella umma musulmana.
La polemica sulla scomparsa della definizione
quale "anticristiani" degli attentati
di Londra, nelle due prime versioni del comunicato
del pontefice, è chiusa e vale quel
che la Santa Sede, in particolare il cardinale
Angelo Sodano, ha chiarito al riguardo.
Ma basta seguire il dibattito interno all’episcopato
che agisce nelle aree a egemonia
musulmana per rendersi conto che oggi la
Chiesa è cosciente che sta montando in una
parte non marginale del mondo dell’islam,
non fra i terroristi, ma nella normale predicazione
musulmana, soprattutto in Asia, un
atteggiamento anticristiano. Basta seguire
la cronaca – a proposito di scontro di civiltà
– per accorgersi che il 23 aprile scorso 40
cristiani pachistani – lavoratori immigrati,
donne e bambini – sono stati schiaffati in
prigione a Riad dopo un’irruzione della polizia
saudita nella sala in cui stavano celebrando
messa. Una notizia da prima pagina,
ignorata dalla stampa, che dà per scontato
il diritto dell’Arabia Saudita di incarcerare
chiunque osi celebrare messa, voglia indossare
un crocefisso al collo, preghi Cristo, anche
nel chiuso della sua abitazione (il culto
cristiano è tollerato in Arabia Saudita solo
nelle ambasciate e nei locali che godono di
extraterritorialità). Basta ricordarsi che nel
1984 gli avvocati musulmani del Pakistan
scioperarono per protestare contro la "blasphemy
law" emanata dal governo di Zia ul
Haq, in base alla quale può, ancora oggi, essere
arrestato chiunque affermi in pubblico
– fuori dal luogo di culto – che "Cristo è
figlio di Dio", per il reato di shirk, il più grave
dell’islam: il politeismo. Basta ricordarsi
– lo fa solo l’agenzia Fides – il suicidio con
un colpo di pistola in bocca del vescovo di
Faisalabad, Pakistan, John Joseph, avvenuto
il 7 maggio 1998 davanti al tribunale che
aveva condannato a morte il cristiano Ayub
Maish. Condanna emessa sulla base della
"blasphemy law", per chi "insulti, ridicolizzi
o dissacri prestigiose figure religiose". Il
cristiano condannato (in seguito allo scandalo
del suicidio del vescovo la pena è stata
commutata in ergastolo) aveva osato criticare
la fatwa di Khomeini che incitava a
uccidere Salman Rushdie. Basta leggere le
parole pronunciate in Vaticano, in apertura
del sinodo dei vescovi dell’Asia, il 28 aprile
1998, pochi giorni prima di questo suicidio,
da Joseph Coutts, vescovo pachistano di Hyderabad:
"Se da un lato occorre continuare
il dialogo con l’islam, in uno spirito d’amore
e comprensione cristiani, dall’altro non
dobbiamo aver paura di parlare apertamente
e di condannare la crescente marea
dell’islam intollerante, militante e oppressivo,
I mujaheddin di bin Laden, nel
loro filmato "promozionale", si
addestrano a sparare contro una
croce latina, una croce oppressivo,
che sta facendo soffrire le Chiese asiatiche.
L’atteggiamento predominante nei
paesi islamici è quello di considerare i cristiani
dei "dhimmi", dei soggiogati, dei traditori.
L’islam non può e non deve essere
messo nelle stessa categoria dell’induismo,
del buddismo, dello shintoismo. L’islam è
molto differente. E’ una forza politico-religiosa
con tendenze espansionistiche, che
hanno conseguenze gravi per la Chiesa cattolica
in Asia. C’è una crescente militanza e
intolleranza da parte dell’islam". Basta pensare
alle decine di cristiani uccisi e alle centinaia
di feriti negli attentati contro chiese e
scuole religiose in Pakistan dal 2001 a oggi a
Bahawalpur, Slanpinagor, Quetta, Islamabad,
Murree, Maxila, Karachi, Chuyyanwali.
Basta ricordare che decine di musulmani
che si sono convertiti al cristianesimo copto
stanno marcendo nelle prigioni del moderato
Egitto, accusati di apostasia, per aver infranto
il divieto coranico di lasciare l’islam.
Il terrorismo anticristiano di al Qaida,
dunque, s’innesca su un islam anticristiano
che si sta espandendo in molti paesi musulmani,
su piani diversi, non solo del terrore
armato, ma anche e soprattutto del terrore
civile, della persecuzione giudiziaria, dell’intimidazione,
del divieto a praticare la fede
cristiana. Non solo da parte di organizzazioni,
ma addirittura di Stati. Fenomeni legati
l’uno all’altro, tutti e due dipendenti
dalla medesima matrice teologica, che risale
al teologo del XIII° secolo Ibn Taymmyya
e alla sua influenza sul più vivace ed espansivo
islam sunnita contemporaneo, quello
wahabita – o salafita – dell’Arabia Saudita.
Chi cerca oggi – per ozioso vizio complottista
– un Grande vecchio del terrorismo
islamico, e del fondamentalismo che lo nutre,
deve solo accontentarsi di guardare a
questo filosofo di 700 anni fa, perché è lui il
principale ispiratore di Abd Al Wahab, nato
nel 1703 in un’oasi del Neged e morto nel
1792, fondatore della setta musulmana che
nel 1744 Muhammad Ibn Saud incrocia con
i destini della sua dinastia. Una setta dogmatica,
quella dei wahabiti – o meglio, salafiti
– priva di grande spessore culturale, senza
figure di rilievo teologico, ai margini del
dibattito religioso musulmano, su cui però,
per capriccio della storia, si riversa a partire
dal 1939 e poi a cascata dal 1973 la manna
dei miliardi dei petrodollari dell’oro nero
saudita. Il proselitismo saudita diventa parossistico
nella seconda metà del 900. Si parla
di 15 mila nuove moschee wahabite fondate
nel mondo, si verifica la penetrazione
del wahabismo in Pakistan, India, Afghanistan
(i Talebani sono wahabiti come Osama
bin Laden e al Zarqawi), Palestina, Sudan,
Somalia, Cecenia e in Europa. Non solo in
Albania e Bosnia, ma anche nel Londonistan
e in tutte le metropoli. Tra i tratti fondamentali
del wahabismo vi è anche l’iconoclastia,
l’odio per le immagini dei santi, del
Cristo e della Madonna, così come degli
imam sciiti, loro nemici mortali (da qui le
stragi di sciiti organizzate da Zarqawi in
Iraq e da al Qaida in Pakistan e Afghanistan).
Lo straordinario proselitismo wahabita
allarga a macchia d’olio la componente
anticristiana – e antiebraica – di tanta parte
dell’islam contemporaneo, rafforzata da un
dato storico: la proibizione di Omar, secondo
califfo succeduto a Maometto, di esercitare
altri culti nella penisola arabica. Interdizione
inizialmente limitata all’Hjaz – il regno
in cui si trovano la Mecca e la Medina –
e poi estesa dal 1932 da Abdulaziz ibn Saud
in tutto il nuovo regno: l’Arabia Saudita.
L’insegnamento di ibn Taymmiyya (ispiratore
non solo del wahabismo, ma anche di
tutto il fondamentalismo sunnita, inclusi i
Fratelli musulmani) ripropone la necessità
del ritorno a un’osservazione meccanica, fedele,
concreta della sharia, della legislazione
coranica quale è stata codificata dalla
scuola hanbalita, la più formale, dogmatica,
prescrittiva. Ibn Taymmiyya ritiene che sia

indispensabile alzare il livello di attenzione
della umma nei confronti della apostasia,
impedire che i nemici della fede, cristiani
ed ebrei, i dhimmi (costretti nella società
musulmana classica, fino al 1839, a pagare
una "tassa di sottomissione", la jiza), si possano
introdurre nella comunità dell’islam.
Ibn Taymmiyya dà concreta ed entusiasta
forma a questa indicazione e si impegna in
una campagna per ottenere la condanna a
morte di un cristiano accusato di apostasia.
Ma scrive le sue pagine più resistenti all’usura
del tempo là dove – sempre attraverso
la chiave di lettura dell’apostasia – tenta di
ricomporre la coscienza del musulmano nel
suo compito, nel suo alveo primario: il rifiuto
della società dominata dagli idoli che ha
mosso la coscienza di Maometto e l’ha fatta
degna della fiducia della voce di Dio. Il rifiuto
del governo idolatrico mascherato da finto
governo musulmano, la ricerca dell’apostasia
nella finta ortodossia musulmana
(l’ambasciatore egiziano sgozzato recentemente
in Iraq è definito "apostata" dai suoi
assassini, come Sadat, ucciso nel 1981), queste
sono le ossessioni di ibn Taymmiyya, che
in questo "peccato" cerca la spiegazione dell’inspiegabile
tramonto dell’egemonia araba,
definitivamente travolta nel 1258 dall’invasione
mongola. Ibn Taymmiyya diventa così
il teorico della rivolta del musulmano contro
il "finto governo musulmano", che in realtà
è il governo del "faraone", infestato dai cristiani
e dagli ebrei mosaici. Il suo violento
odio contro i dhimmi cristiani ed ebrei, la
sua contrarietà non solo alla costruzione, ma
addirittura alla manutenzione di chiese e sinagoghe
traspaiono già dai titoli di alcune
sue opere: "Il Libro della Risposta ai cristiani",
"Il problema delle Chiese", "La Vera Risposta
a colui che cambiò la religione del
Cristo", "La vergogna delle genti del Vangelo",
"Allontanarsi dai popoli della Geenna".
Le persecuzioni degli ultimi anni dei cristiani
in Pakistan, così come l’ideologia portante
di Osama bin Laden, di al Qaida e dei
Talebani (che abbatterono le statue di Budda
in omaggio all’iconoclastia wahabita) non
possono essere comprese se non si conosce
l’influenza che ha sulle madrasse pachistane,
sulla concezione dell’islam radicata negli
anni 80 e 90 in Pakistan e Afghanistan da
un altro seguace di ibn Taymmiyya – non
wahabita – Abu Ala al Mawdudi, che col suo
movimento Jamaa e Islami punta a una
esplicita, rivendicata, sottomissione dei cristiani
e degli ebrei ai musulmani, secondo il
modello della dhimma, della "cittadinanza
di seconda classe", che sempre il secondo
califfo, Omar, canonizzò a partire dal 640
d.C., otto anni dopo la morte di Maometto.
Youssef M. Choueiri, eccellente islamista,
così riassume la concezione dello Stato dell’ideologo
del Pakistan contemporaneo (il
dittatore Zia ul Haq riformò dall’alto dopo il
1978 il Pakistan, secondo le sue direttive integraliste;
una sorta di rivoluzione khomeinista
elitaria): "Secondo al Mawdudi il pluralismo
politico e l’uguaglianza di tutti i cittadini
davanti alla legge sono contrari all’essenza
stessa dell’islam. Lo Stato islamico è
innanzitutto un’entità ideologica; solo coloro
che aderiscono ai suoi principi dottrinali
possono essere considerati cittadini di prima
classe. A tutti gli altri, fintanto che restano
‘leali e obbedienti’, sono riconosciuti diritti
particolari di cittadini di seconda classe.
In uno Stato islamico vivono fianco a
fianco due categorie di cittadini: i musulmani
e i non musulmani (dhimmi). I posti chiave
dello Stato, siano essi legislativi, esecutivi
giudiziari o militari, sono appannaggio
esclusivo della prima categoria. (…) I non
musulmani godono della protezione dello
Stato purché paghino una speciale tassa detta
‘jiza’. Questa tassa è allo stesso tempo
espressione di lealtà politica e una forma di
monetizzazione per l’esenzione dal servizio
militare. Da un lato dunque le distinzioni di
razza, colore, nazionalità, territorio e lingua
sono giudicate barbare e pagane, dall’altro la
classificazione dei cittadini in due classi è
esaltata come ‘la soluzione più giusta per
consentire la coesistenza fra musulmani e
chi è estraneo alla religione di Allah’".
Nonostante decenni di dialogo interreligioso,
dunque, si afferma sempre più in una
parte non marginale della umma islamica,
una visione egemonica, dittatoriale, anche
nei confronti delle altre religioni del Libro,
un ritorno alla dhimma medioevale, alla
"sottomissione" delle religioni cristiana ed
ebraica, riconosciute, ma tollerate solo in
posizione di subordinazione. Un ritorno eccitato
dalla frustrazione di un mondo musulmano
che si crogiola nella autocommiserazione
e nell’invidia per il progresso materiale
e i successi politici degli odiati cristiani
occidentali e ancor più dei vittoriosi ebrei
israeliti. La dhimma si è imposta così di nuovo
dal 1979 in poi in Iran, dopo la rivoluzione
islamica, per via legislativa. Oltre alla
censura a cui sono sottoposti tutti i libri di
religione, che devono avere il "nulla osta"
del ministero della Cultura, sono sbarrate ai
non musulmani tutte le professioni che riguardano
in qualche modo, anche in senso
lato, l’assetto politico della pòlis musulmana
(insegnante universitario, magistrato, dirigente
dell’amministrazione pubblica, ufficiale).
I nuovi dhimmi, infatti, per percorrerle,
sono tenuti a superare un esame di teologia
islamica talmente rigoroso che nessuno
lo supera e che quindi funge per loro da diga
assoluta. A queste, si sommano poi infinite
discriminazioni amministrative nell’assegnazione
di case popolari, avanzamenti di
carriera e altro, con l’aggiunta di gravi discriminazioni
nel diritto penale. Un esempio:
l’omosessualità di un non musulmano
può essere punita con la morte, quella di un
musulmano può essere punita, al massimo,
con un consistente numero di frustate.
E’ noto il conflitto che ha prodotto in Sudan
due milioni di morti (secondo Amnesty;
secondo altre fonti 500 mila), da quando
nell’83 è stata introdotta la sharia anche
nel sud cristiano e animista che si è rivoltato.
Sono recenti gli scontri interreligiosi nei
13 Stati del nord della Nigeria che hanno
introdotto la sharia e che pretendono di imporla
anche ai dhimmi cristiani. Meno noto
è il peso crescente che ha sul fondamentalismo
islamico l’insegnamento di Sayyd
Qutb in campo sunnita e dell’ayatollah
Fadlallah, leader di Hezbollah libanese, in
campo sciita. Il primo arriva a ritenere necessario
reintrodurre una tassa di sottomissione,
naturalmente in forma moderna, e
che – come in Iran – debbano essere interdette
a cristiani ed ebrei (e zoroastriani) le
responsabilità giudiziarie e quelle politiche
di comando. Lo sheikh Mohammed
Hussein Fadlallah – leader spirituale del
potente Hezbollah libanese – è un po’ più
sofisticato di Qutb e punta sull’umiliazione
e sul "riconoscimento formale, espresso in
pubblico, da parte dei cristiani e degli
ebrei" della superiorità della religione musulmana.
Per l’uno come è per l’altro, i libri
che mettono in discussione i fondamenti
dell’islam vanno proibiti.
Il ruolo della Chiesa
Questa è la radice, il sostrato cultural-religioso
su cui si regge l’anticristianesimo – e
l’antiebraismo – delle organizzazioni terroristiche
musulmane. Sino a oggi le chiese
cristiane hanno subito questa iniziativa. La
scelta di Giovanni Paolo II, pur a fronte di
denunce precise, specifiche, forti, come
quelle avanzate nel sinodo dei vescovi asiatici
del ’98, di fronte al martirio di tanti cristiani
per mano musulmana – e non solo di
terroristi – di fronte allo scandalo del suicidio
di un suo vescovo per protestare contro
la persecuzione dei cristiani in Pakistan, di
fronte ai tanti morti cristiani della guerra
civile e religiosa in Sudan (in cui indubbiamente
erano presenti anche elementi diversi,
etnici), è stata quella di smorzare i toni.
La sua preoccupazione principale è stata di
evitare ogni sovrapposizione tra l’iniziativa
politica dell’occidente – incarnata prima
nella guerra di liberazione del Kuwait voluta
dall’Onu e poi in Iraqi Freedom voluta da
George W. Bush – con quella della Chiesa
cattolica. La volontà di Papa Wojtyla è stata
dunque quella di fare di tutto, anche pagando
costi alti, per impedire che l’ampia platea
– moderata – dei musulmani, potesse
pensare che la Chiesa si fa proteggere da
Stati visti come "cristiani", anche se tali
non sono più da secoli. Peggio ancora, dalle
armi americane. Scelta, probabilmente, lungimirante.
Ma, forse, il condizionale è d’obbligo
– così come il più totale rispetto per
una scelta difficile – dietro il piccolo giallo
della definizione del comunicato della Santa
Sede degli attentati di Londra come "anticristiani",
poi ritirata e modificata, si cela
il tormento di un drammatico ripensamento
della strategia ecclesiale.
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