Irshad Manji e Mahmoud Mamdani : voci a confronto dall'Islam, pro o contro la libertà
sul Venerdì di Repubblica e Il Foglio
Testata:
Data: 24/06/2005
Pagina: 51
Autore: la redazione
Titolo: rshad Manji e Mahmoud Mamdani : voci di musulmani a confronto, pro o contro la libertà
Il terrorismo islamista non ha nulla a che vedere con l'islam. E piuttosto un prodotto della guerra fredda, del reaganismo e degli Stati Uniti.
Oggi, invece, i neocon hanno scatenato una campagna islamofoba che più di ogni altra cosa ricorda "l'antisemitsmo pre Seconda guerra mondiale".
Sono le tesi di Mahmoud Mamdani, antropologo della Columbia University e autore del libro "Musulmani buoni e musulmani cattivi".
Lo intervista sul VENERDI DI REPUBBLICA del 24 giugno Riccardo Staglianò, che palesemente concorda con lui.
L'intervista si presenta come la confutazione di un'imputazione a tutti i musulmani dei crimini del terrorismo.
Non è questo il punto però. Piuttosto si tratta riconoscere che il terrorismo è giustificato dall'islam fondamentalista e di sostenere le forze antifondamentaliste all'interno del mondo islamico.

Ecco il testo:

Una sistematica inversione dell’onere della prova. E’ il danno collaterale più gigantesco e sottaciuto dell’11 settembre, quello che ha fatto sì, di colpo, che i musulmani del mondo abbiano dovuto cominciare a giustificarsi. Perché il solo fatto di venire da paesi islamici o avere un nome arabo li metteva nella lista dei sospetti. Di quelli che se te li trovi accanto in aereo cominci a sudare freddo. Eppure nessuno ha mai dato la colpa al cristianesimo agli attentati dell’Ira, dell’Eta o delle Brigate Rosse. Una disparità di trattamento denunciata dall’antropologo della Columbia University Mahmood Mamdani nel libro "Musulmani buoni e cattivi" (Laterza pp 315, euro 16) Ma Mamdani se la prende anche con altre amnesie storiche

Provando a semplificare lei dice che gli atti terroristici commessi dai musulmani non hanno a che fare con la religione ma con questioni politiche
Se lei mi schiaffeggia e io lo spiego come espressione della sua cultura e religione è una spiegazione consolatoria. Ma per capire davvero perché lo schiaffo è partito occorre mettere al centro la relazione tra noi. Da qui il bisogno di passare dalla cultura alla politica per interpretare i conflitti.

Che cosa sarebbe quello che lei chiama "pseudodiscorso culturale" sull’Islam
L’assunto che le politiche di certi popoli possono essere spiegate dalla loro cultura. Così loro, la contrario di noi, sono premoderni. E a differenza di noi, che sappiamo tenere il cattivo da una parte e costruire il buono sono prigionieri della loro cultura e devono essere salvati, o messi in quarantena.

Perché dopo gli attentati alle Torri i musulmani hanno dovuto convincer il resto del mondo di non essere cattivi?
Non è la prima volta che gli Usa hanno adoperato i media per presentare un intero popolo come nemico. Successe con i Nativi d’america, con gli afro-americani, con i nippo-americani. Ann Norton, che ha appena scritto un libro sui neocon assomiglino più di tutte all’antisemitismo pre- seconda guerra mondiale.

Nel suo libro lei distingue tra Jihad maggiore, la lotta contro le debolezze personali, e minore , l’autodifesa che può diventare guerra.
Jihad significa sforzo. Fu declinata per la prima volta in modo militare associandola al wahabbismo che servì alla famiglia Saud per edificare l’Arabia Saudita nel XIX secolo. Più tardi, in Pakistan, questa stessa nozione fu usata da Abu ala Mawdudi e influenzo pesantemente il pensatore egiziano Said Qutb, ideologo dei fratelli musulmani. Ma anche allora il concetto era solistico, spirituale e sociale e giustificava la violenza solo per difesa. La nozione militare di jihad nacque durante la guerra afgana. Fu formulata come ideologia nelle scuole islamiche tradizionali, le madrasse . i loro piani di studio, però, erano messi a punto da istituzioni che avevano a che fare con gli Usa per precisi scopi militari.

Negli anni 80 Reagan decise di usare un a versione estrema di Islam politico per "dare ai sovietici il loro Vietnam". M qualcosa è andato storto.
Reagan introdusse un vocabolario religioso nella politica. Caratterizzò l’Unione Sovietica come l’Impero del male. Una definizione che ha conseguenze precise, perché non si può coesistere col male e anzi ci si può alleare con tutti pur di batterlo. La prima alleanza fu con il Sudafrica delll’apartheid, la chiamarono "impegno costruttivo". In Afghanistan, invece, arruolarono gli islamisti più estremi contro il comunismo, come in una lotta contro il male. Da qui nacque l’alleanza con Al Qaeda

Nel libro lei scrive che gli Usa costruirono, nei fatti, l’embrione dell’infrastruttura del terrore che oggi li perseguita.
Dopo la sconfitta in Vietnam gli Usa dovettero affrontare un potente movimento antibellico in patria. Quando si resero conto di non poter più intervenire all’estero cercarono dei "procuratori". Il tentativo di Kissinger di allearsi con il Sudafrica in Angola non andò bene. Reagan arrivò al potere dopo due importanti rivoluzioni, in Nicaragua e in Iran. E decise di tentare una nuova "guerra per procura", quella dell’islam politico contro l’Urss.

Fornire addestramento e finanziamenti a Bin Laden, responsabile di un progetto sponsorizzato dalla Cia per costruire un tunnel a Khost, fu una strategia miope o una mossa cinica?
Fu liquidato come "collateral damage", giustificabile dal fatto che l’Urss andava sconfitta. E al Qaeda divenne un "fantoccio" degli Usa.

Lei nota che in Afghanistan e Pakistan, prima che gli Usa organizzassero la Jihad afgana, non esisteva una produzione locale di eroina.
Le guerre "coperte" non possono essere fatte con fondi pubblici, da qui un’alleanza con i signori della droga, in cui l’intelligence forni loro protezione in cambio di finanziamenti. E successo tante volte durante la guerra fredda, dal Laos al Centramerica, fino all’Afghanistan

Cita anche San Bernardo, durante le Crociate, secondo cui "l’uccisione di un infedele era malicidio, non omicidio". Ma quest’idea violenta di religione viene ora associata solo all’Islam.
Una parte del fascino di Reagan è una fascinazione nei confronti della violenza. Fece l’elogio del suo uso contro i civili da parte dei suoi "procuratori" come mezzo per diffondere la democrazia. Disse anche in tv, dal prato della Casa Bianca, che i contras e i mujahidin erano "equivalenti morali dei padri fondatori dell’America". I neocon, oggi, hanno raccolto quell’eredità, ma non gli alleati.
Come eloquente risposta alle tesi di Mamdani e Staglianò si possono scegliere le parole di Irshad Manji, dissidente musulmana cui è dedicato l'articolo di Guglielmo Verdirame "Antiorientalismo", pubblicato dal FOGLIO di di giovedì 23 giugno 2005.

Ecco il testo:

Londra. "Possono le nostre società restare aperte e pluraliste senza cadere nel relativismo?". Secondo Irshad Manji, giornalista canadese e autrice del libro "The trouble with Islam" ("Quando abbiamo smesso di pensare?", Guanda), questa è una delle grandi sfide del nostro tempo. Manji, che qualche settimana fa ha concluso una serie di incontri in Gran Bretagna, avrebbe dovuto parlare anche a Leicester. La sua conferenza, però, è stata cancellata su consiglio della polizia. "Se avessi proposto di proseguire con l’evento, alla luce del parere della sezione speciale della polizia – dice Manji al Foglio – il direttore amministrativo dell’Università avrebbe insistito per la cancellazione", le ha scritto uno degli organizzatori. Il caso di Leicester è da aggiugere a quello di Birmingham, dove qualche mese prima una rappresentazione teatrale fu sospesa per le proteste di un gruppo di Sikh. Un tempo, i liberali britannici sarebbero insorti di fronte alla possibilità che una minoranza organizzata possa far tacere voci di dissenso, ma anche loro – sostiene Manji – sono vittime della confusione tra liberalismo e relativismo, che impedisce "di prendere posizione, e di distinguere tra cultura e tortura".
Perché Manji suscita opposizione anche negli ambienti che dovrebbero esserle politicamente vicini? Per capirlo, è opportuno soffermarsi sulla formazione culturale dell’intellettuale occidentale dei nostri giorni sull’impatto del libro "Orientalismo" di Edward Said, morto nel 2003, mantra indiscusso dell’intellighenzia liberal europea e americana da oltre due decenni. Per Said, la cultura occidentale sarebbe colpevole di avere costruito nei secoli un’immagine dell’altro, arabo e musulmano, volta a giustificare antagonismi, imperialismo e progetti egemonici. Questa semplificazione dei rapporti tra occidente e oriente – anche se a tratti raffinata e colta – è diventata la summa
degli intellettuali contemporanei, antropologi e orientalisti in particolare.
Manji invece parla, da musulmana, dei rapporti tra occidente e islam con presupposti antitetici a quelli dei numerosi seguaci di Said. Non si sottomette all’autorità né dell’establishment islamico né di quello del mondo accademico progressista, ed è pertanto vista e trattata come un’eretica. "Nel vittimismo collettivo, molti miei correligionari hanno smarrito – dice Manji – il senso
di agenzia individuale. Noi musulmani non abbiamo mai avuto bisogno dell’occidente per opprimerci: l’oppressione l’abbiamo saputa fare meglio da soli". La giornalista canadese continua, sottolineando la denuncia selettiva dell’imperialismo. "Quello arabo ha fatto molti più danni per l’islam dell’occidente. Soltanto il 20 per cento dei musulmani è arabo – dice Manji – eppure controlla la nostra cultura e la nostra religione. Noi musulmani siamo stregati dal deserto". Il ritorno alle origini L’"islam del deserto" è, per Manji, l’islam oscurantista seguito dalla maggioranza dei musulmani. La sua riforma è un "ritorno alle origini, al periodo d’oro della storia musulmana",
quando, nel campo della matematica, della scienza e anche della filosofia, il mondo islamico era all’avanguardia, quando – aggiunge Manji con malinconia – nella sola città di Cordova si contavano 70 biblioteche". Il concetto centrale di questa riforma è l’ijtihad (termine giuridico per definire l’interpretazione indipendente delle fonti legali), basata sul riconoscimento dell’individualità e rimpiazzata dal formalismo letterale dell’"islam del deserto". "Ogni religione
– aggiunge – ha i suoi fondamentalisti, ma chi, nel cristianesimo o nell’ebraismo, dissente non mette a repentaglio la propria vita. Solo nell’islam non è possibile obiettare senza timore di rappresaglie". Manji racconta al Foglio di alcuni giovani musulmani in America, e in medio oriente,
che condividono le sue proposte, ma hanno paura di mettere in discussione l’establishment islamico. "Quando chiedo cosa intendano per paura, mi rispondono paura di violenza fisica". I nemici e i detrattori di Manji, sempre più numerosi, l’accusano di essere al soldo della CIA e del Mossad, "mi dicono di non essere musulmana, ma ebrea". Il suo libro però continua ad avere successo. La traduzione in arabo può essere scaricata gratuitamente dal suo sito. "La riforma dell’islam non partirà dal medio oriente, ma dai musulmani americani – dice Manji – In Arizona stanno preparando una traduzione riformista del Corano. I musulmani della mia generazione in Nord America sono consapevoli della fortuna di vivere in queste società e della necessità di proteggere la libertà". A New York, su iniziativa di Manji, sta per aprire la Fondazione Ijtihad. Lo scopo sarà la formazione di giovani musulmani desiderosi di riconciliare libertà e islam.
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