IL RIFORMISTA di giovedì 23 giugno 2005 pubblica a pagina 11 la corretta cronaca di Anna Momigliano " Il tavolo della pace vacilla sul terrorismo. La buona volontà non basta a Sharon", che riportiamo.Mahmoud Abbas è «furioso». Ieri mattina Radio Israele ha riportato una dichiarazione in cui il presidente palestinese, meglio noto come Abu Mazen, esprime la rabbia e il disappunto per i risultati (o meglio, per i risultati mancati) del summit a porte chiuse con Ariel Sharon. Era il secondo incontro ufficiale tra i due capi di governo dopo il vertice di Sharm el Sheik: allora fu il disgelo. Non l’ottimismo (dai toni retorici, come oggi ammette anche la sinistra israeliana) dei tempi di Oslo, ma piccoli risultati concreti dopo anni di immobilismo: dalla parte palestinese, un cessate il fuoco tra Fatah e Tsahal e una tregua rispettata di fatto anche da Hamas e Jihad islamica; e dalla parte israeliana la consegna di cinque città della Cisgiordania all’amministrazione dell’Anp. Negli ultimi tempi la tregua de facto era stata infranta dalla Jihad islamica, gli attentati sono ripresi ed è stata catturata un’aspirante terrorista che voleva farsi saltare in aria.
Forse è per questo che il vertice di martedì, invece, «non ha portato i risultati sperati», come ha già spiegato il premier Abu Ala. Anche se qualche risultato, a essere precisi, in realtà c’è stato: Sharon ha promesso la restituzione di Betlemme e Qalqilyah ai palestinesi entro due settimane e ha alzato la quota di lavoratori palestinesi ammessi in territorio israeliano (ottima notizia, per un popolo la cui piaga peggiore è la disoccupazione, prima ancora che la guerra). Molte di più sono state le richieste palestinesi che Sharon ha rifiutato: a cominciare dal rilascio di detenuti politici «ad alto profilo» dalla prigione di Gerico, e dal controllo di alcune zone della Sammaria, da cui i coloni sono stati evacuati ma che Israele non vuole vedere gestita dall’Anp.
Eppure non sono stati unicamente i risultati pratici ad avere scatenato la «furia» di Abu Mazen. Il fatto è che Ariel Sharon, agli occhi del leader dell’Anp, ha cercato di trasformare il vertice, della durata di due ore, in una filippica sul terrorismo palestinese: «Il terrore è la chiave...e che ci sia un dialogo diplomatico o meno, è vostro dovere fermarlo», ha detto senza mezzi termini a Mahmoud Abbas. Come a dire: la formula «territori in cambio di pace» (Olso docet) va bene, ma fino a un certo punto. Fermare Hamas e Jihad è vostro dovere indipendentemente da ciò che facciamo noi. Ariel Sharon, vecchio generale di Tsahal, non è conosciuto per la sua oratoria da diplomatico. E, casomai il concetto non fosse abbastanza chiaro, Sharon rincara la dose. Precisando che se l’Anp non raggiungerà gli obiettivi contro il terrorismo, Israele sarà costretto a «passare all’azione». Ovvero prendere di petto il problema Hamas, Hezbollah e Jihad islamica. «Non avremmo altra scelta», spiega Sharon, incarnando una buona fetta del pubblico israeliano, esasperato da una nuova ondata di terrore. «Ogni pallottola che sparano contro di voi, è come se la sparassero contro di me», assicura Abu Mazen, consapevole della sua relativa impotenza contro gli islamisti (e soprattutto Hamas), forti di un radicato consenso popolare, e di mezzi non propriamente politici con cui disfarsi degli avversari interni. Poco dopo il summit, il premier Abu Ala (rivale e collaboratore di Abu Mazen) subiva un attentato, una bomba a orologeria nel campo profughi di Balata. Il premier è rimasto illeso e nessuno ha rivendicato il tentato omicidio, ma è assai probabile che porti la firma di Hamas, o di uno dei gruppi sciiti.
Abu Mazen ha sempre condannato gli attentati contro Israele. Certo, anche Arafat condannava i kamikaze davanti ai microfoni dei media occidentali, e poi ne faceva l’elogio alla tv palestinese. E, soprattutto, li foraggiava generosamente. Ma la situazione con Abu Mazen è diversa. Persino Ariel Sharon non dubita della sua buona fede: ogni pallottola sparata, ogni bomba costruita dagli estremisti è rivolta anche contro la leadership, già traballante, di Abu Mazen. Questo Sharon non lo nega, e le concessioni su Betlemme e Qalqilya, nonostante l’ondata di terrore, ne sono una prova: mai un leader israeliano -almeno dopo il 1994 - sarebbe stato tanto "comprensivo" con Arafat. Abu Mazen, per usare un’espressione cara agli analisti israeliani, ha le mani legate dai nemici interni. E non ha molti mezzi per contrastare Hamas. Ciononostante, Sharon non cede di un millimetro: mani legate o meno, compito di Abbas è tenere a freno i terroristi. Israele non può aspettare.
L'articolo di Jacopo Tondelli "L'ultimo tabù israeliano è a rischio a Gaza. L'esercito potrebbe sparare ai resistenti" affronta il tema dei rischi del disimpegno da Gaza.
Ecco il testo:Archiviato un vertice interlocutorio tra Sharon e Abu Mazen, Israele continua a contare i giorni. Mancano meno di due mesi alla data del disengagement da Gaza. Dal tramonto della festività di Tisha Be-av, che cade quest’anno il 14 di agosto e celebra la distruzione del Primo e del Secondo Tempio, ogni momento potrebbe essere quello buono. «Non mi sento di dire se sarà il 15, il 16 o il 17» ha dichiarato tempo fa Ariel Sharon. Le operazioni toccheranno ovviamente solo quanti, entro quella data, non avranno lasciato le proprie abitazioni spontaneamente, e cioè i più agguerriti e motivati tra i coloni: quelli che di una compensazione economica non vogliono neanche sentire parlare, perché la Striscia di Gaza è casa loro, e i territori occupati semplicemente una parte di Israele. Per ieri era prevista l’ennesima, clamorosa azione di protesta, consistente in un blocco stradale sulle principali arterie di scorrimento veloce del paese. Un grave incidente ferroviario avvenuto martedì tra Beer Sheva e Tel Aviv, con 8 morti e quasi 200 feriti, ha portato a rinviare di una settimana.
La tensione cresce costantemente, e anche l’esercito si prepara ad affrontare il peggio. Il nervo scoperto più doloroso è stato per la prima volta toccato una decina di giorni fa, quando i cronisti israeliani hanno chiesto al nuovo capo di Stato Maggiore, il generale Dan Halutz, cosa faranno i soldati israeliani qualora i coloni non si limitassero alla resistenza passiva. «Non permetterò certo che i soldati dell’Idf siano come anatre sotto una pioggia di proiettili», ha risposto il generale, traducendo con il pragmatismo dell’uomo d’armi l’immagine di un’eventuale resistenza "attiva" messa in campo dai coloni. In altre parole, se i coloni sparano per primi, i soldati avranno mandato per rispondere fuoco al fuoco. Il nervo scoperto era proprio questo, ed anche Amos Harel, su Haaretz del 15 giugno, non ha mancato di notare che per la prima volta si risponde alla domanda più scabrosa, dopo che è passato un anno dalla completa approvazione del piano, e del ritiro da Gaza si parla ormai dal dicembre 2003. Mentre i sondaggi danno in preoccupante calo di popolarità il piano di ritiro.
Il tabù è infranto, la possibilità che le forze armate aprano il fuoco su altri israeliani ammessa. In passato qualche colpo è stato sparato contro attivisti della sinistra antisionista. Fino a quando, un anno e mezzo fa, dopo il ferimento di un militante israeliano che partecipava a una manifestazione contro la costruzione della barriera difensiva, una modifica delle regole di ingaggio ha interdetto la possibilità di fare fuoco su oppositori israeliani. In ogni caso, nemmeno negli anni infuocati dal Kach, il gruppo estremista fondato dal rabbino Kahana, mai, fino ad oggi, gli estremisti di destra erano stati attaccati militarmente dall’esercito.
Le parole caute ma determinate pronunciate da Dan Haluz fanno pensare che potrebbe esserci, a metà agosto, una prima volta. «Non ci sarà uso delle armi, a meno che - dio non voglia - uno degli oppositori al ritiro non commetta quell’errore. Perché ci sono estremisti pronti a tutto - ha proseguito il generale - e in un modo o nell’altro abbiamo il dovere di isolarli». Ma Dan Haluz s’è spinto oltre, affermando che i rabbinati vicini al movimento nazional-religioso e i leader dei coloni devono «farsi carico, assieme a noi, di evitare l’esplosione di una guerra civile». La guerra civile, già, la grande paura che molti condividono in Israele, e sul cui focolare potenziale - non a caso - i vertici dei partiti politici che hanno promosso e sostenuto il piano gettano continuamente acqua. Ma è solo una risposta a chi, di là dal muro che divide al suo interno la società israeliana, sta da mesi versando benzina e cercando di conquistare consenso. Con un margine di popolarità che decresce vistosamente, la riuscita pacifica del piano dipenderà da molti fattori: dalla capacità dell’Idf di difendersi e solo successivamente attaccare, di rischiare qualche perdita tra i militari evitandole accuratamente tra i coloni. Non a caso più di un colono, cinicamente, non nasconde che, se dovessero esserci vittime, "la differenza la farà l’identità del primo morto". Questioni strategico-militari, dunque, pronte a rimestare nel profondo le sensibilità politiche e sociali del paese. Tutti ne sono coscienti, a partire da Ariel Sharon. Nel recente vertice con Abu Mazen, tra tanti contrasti e dissapori, Arik non ha taciuto le difficoltà di fronte a un’opposizione interna sempre più solida, raccogliendo perfino l’esplicita solidarietà di Abbas. Chi meglio di lui, del resto, conosce la fatica di combattere.
Infine "L'Egitto riabilita gli odiati cugini. Anche se per fiction", un articolo su una serie televisiva egiziana che presenterebbe un'immagine di Israele lontana dalla abituali demonizzazioni tipiche dei media arabi.
Ecco il testo:Gli israeliani non sono «nemici sionisti». O per lo meno, non tutti. Questo è il messaggio di una fiction televisiva egiziana che sarà trasmessa durante il Ramadan. Gran parte della serie, una spy-story ambientata negli anni Sessanta, si svolge proprio in Israele. La trama è abbastanza complessa: in seguito alla morte del giovane Musa (Mosè, in arabo), egiziano di fede israelita, un agente dei servizi segreti locali riesce a impossessarsi dei suoi documenti. Musa avrebbe dovuto visitare a breve una zia in Israele, che non vedeva da quando era bambino. Dato che i parenti israeliani non conoscono bene il volto del ragazzo, è facile per l’agente egiziano infiltrarsi al suo posto nella famiglia. Una volta in Israele, il giovane fa la conoscenza di coetanei israeliani che amano la pace e il divertimento, inclusa un’affascinante studentessa che lo aiuta a comprendere la vita politica dello "stato sionista".
La fiction non è ancora stata completata, ma sta già facendo parlare di sé in tutto il Medio Oriente. La notizia ha attirato l’attenzione della stampa araba ma anche israeliana, affascinata soprattutto dal doppio registro della fiction, che ripercorre insieme le vicende personali dell’Agente 1001 (figura liberamente ispirata alla vicenda del generale Abd al-Ghafur e che dà il titolo alla serie) e l’evoluzione della nazione egiziana tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Periodo breve ma fitto di cambiamenti, rivoluzioni culturali, sociali e diplomatiche (dalla fine del «sogno nasseriano» al nuovo Egitto di Sadat e della «pace fredda» con Israele). L’obiettivo è quello di una fiction sofisticata (per gli standard egiziani) e appassionante, un punto di rottura con i melodrammi sdolcinati che hanno reso celebre in tutto il mondo arabo il genere della serie tv egiziana. Una fiction nazional-popolare, che eviti accuratamente i cliché più comuni dell’immaginario collettivo egiziano («porci sionisti» inclusi) ma anche i toni didascalici tipici delle serie più impegnate (come E il Nilo Scorre e Nun Sha’nuna), evocando i momenti storici che hanno formato l’identità del paese fianco a fianco della narrazione di una spy-story. La sceneggiatura si apre con il discorso in cui Nasser annuncia le sue dimissioni, dopo l’umiliante sconfitta della guerra dei Sei giorni, e si conclude con l’omicidio di Sadat.
L’autore, del resto, è Nabil Farouk, scrittore poliedrico e molto amato dal grande pubblico egiziano: ha pubblicato centinaia tra romanzi e racconti - con buona pace di chi sostiene che la prosa è genere in crisi nei paesi di lingua araba - che spaziano dalla fantascienza (Farouk ha esordito negli anni Ottanta come seguace di Asimov) al romanzo storico. Di recente aveva pubblicato anche una spy-story (intitolata L’Uomo che ce l’ha fatta, non è chiaro se in polemica implicita alle performance dei servizi segreti egiziani), cui è seguita la decisione di scrivere una sceneggiatura televisiva sullo stesso genere. Sarà la prima serie di spionaggio made in Egypt.
Per il Medio Oriente, il Cairo è una piccola Hollywood (o, meglio, una piccola Bollywood, data la recitazione istrionica e i toni melodrammatici che vanno per la maggiore). Le fiction egiziane, una volta testate in patria, sono trasmesse in tutto il mondo di lingua araba: Agente 1001 sarà presto visto da milioni di musulmani. Se il messaggio sarà raccolto dal pubblico, controbilanciando in parte la campagna d’odio antisemita di molte emittenti arabe, o meno è difficile a dirsi.
L’Egitto, nella sua storia recente, ha riposto fiducia nella funzione "educativa" della televisione. Il caso più citato da antropologi e sociologi è quello di E il Nilo Scorre (Wa ma zala aneel yagree), breve serie girata negli anni Novanta che racconta la vita di una donna medico in un piccolo villaggio, che lotta contro i pregiudizi spiegando ai contadini come funzionano gli anticoncezionali e, soprattutto, gli effetti nocivi delle gravidanze nelle bambine. Uno studio del 1993 dimostra che molte donne egiziane hanno cominciato a pensare alla contraccezione dopo avere visto la serie.
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