LA REPUBBLICA di giovedì 23 giugno 2005 pubblica a pagina 22 un articolo di Alberto Stabile, intitolato "Israele, tornano gli omicidi mirati".
Stabile scrive: "Sembra che il vertice israeliano abbia perso fiducia nell´uomo su cui aveva puntato le sue carte, quell´Abu Mazen, voluto, se non imposto, con l´aiuto degli americani, prima come "premier riformista", poi come alternativa ad Arafat". Occorre invece ricordare che Abu Mazen è stato eletto dai palestinesi, non imposto da Israele.
Stabile ricorda poi che "il 76 per cento della popolazione dei Territori sostiene ancora, nonostante minacce, tensioni e violazioni che hanno scandito i quattro mesi trascorsi dalle intese di Sharm, il mantenimento della tregua": minacce, tensioni e violazioni vengono dai gruppi terroristici, non, come si potrebbe pensare leggendo questa frase, da Israele.
Poche righe dopo Stabile nega che si sia raggiunto un accordo per il coordinamento tra Israele e Anp per il ritiro da Gaza, sulla base delle dichiarazioni del consigliere di Sharon per la sicurezza Eival Giladi e del ministro degli Esteri Shalom. Il primo " non si è limitato a ribadire che Israele agirà in «maniera molto risoluta per prevenire attacchi durante la realizzazione del disimpegno». Ha aggiunto che «se le risposte mirate si dimostreranno insufficienti, potremmo dover usare armi che causano rilevanti danni collaterali, inclusi elicotteri e aerei con crescente danno per la popolazione»".
Il secondo "ha aggiunto che, anche dopo il ritiro, se necessario «le truppe israeliane potrebbero rientrare a Gaza per fermare il terrorismo»". Il commento di Stabile è: "Altro che coordinamento".
In realtà, che Israele annunci che ha l'intenzione di difendersi nel caso venisse attaccata durante o dopo il ritiro da Gaza è del tutto logico, del tutto in accordo con il diritto internazionale e ha, tra l'altro, una evidente funzione dissuasiva. Non è, comunque, nulla di incompatibile con un accordo con l'Anp per il coordinamento del ritiro.
(a cura della redazione di Informazione Corretta)
Ecco l'articolo:GERUSALEMME - Per il secondo giorno di fila, l´aviazione israeliana ha preso ieri di mira alcuni militanti della Jihad islamica mentre si preparavano a lanciare missili Kassam dal nord della striscia di Gaza. Nessuno miliziano è stato ucciso o ferito. Ma, almeno per quanto riguarda i jihadisti palestinesi l´«autocontrollo» con cui l´esercito dello Stato ebraico aveva risposto alla tregua decisa dalle fazioni palestinesi, non vale più. «D´ora in avanti - ha annunciato il ministro della Sicurezza pubblica, Gideon Ezra - qualsiasi mezzo per neutralizzare la Jihad potrà essere adoperato». Inclusi gli omicidi mirati, ha aggiunto una fonte dei Servizi di sicurezza all´agenzia Reuters. Una prima frattura si è aperta, dunque, nel fragile edificio del cessate il fuoco deciso i primi di febbraio a Sharm el Sheikh.
Fedele a una strategia che non prevede sconti, l´esercito israeliano ha deciso di rispondere alle provocazioni dei jihadisti nella maniera più ferma. La replica è arrivata a stretto giro di posta: «Israele sopporterà terribili conseguenze - ha commentato Khaled al Batsha a nome del gruppo islamista - la calma finirà». In realtà, anche se aveva formalmente aderito al cessate il fuoco concordato dal Presidente dell´Autorità palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen ) con tutte le fazioni, la Jihad ha continuato a mettere in dubbio l´opportunità della tregua e di fatto non ha mai rinunciato né al terrorismo contro i civili israeliani (attentato alla discoteca di Tel Aviv del 25 febbraio, 5 morti) né gli agguati contro i soldati.
Dovesse la Jihad formalmente annunciare di non ritenersi più vincolata dagli obblighi contratti con gli altri gruppi, poco cambierebbe sul terreno. Ma il danno sarebbe rilevante sul piano politico e ricadrebbe tutto sulle spalle di Abu Mazen. Il leader palestinese apparirebbe due volte colpevole: agli occhi degli israeliani, di non saper rispondere alla domanda di sicurezza che gli pone incessantemente Sharon, e, agli occhi dell´opinione pubblica palestinese, di non riuscire a garantire la "calma". E qui va ricordato che, secondo un recentissimo sondaggio, il 76 per cento della popolazione dei Territori sostiene ancora, nonostante minacce, tensioni e violazioni che hanno scandito i quattro mesi trascorsi dalle intese di Sharm, il mantenimento della tregua. Mentre la politica suicida della Jihad non raccoglie che il 3 per cento dei consensi. Jihad a parte, che il clima di distensione, per quanto precario, si sia fortemente deteriorato, appare sotto agli occhi di tutti.
Impegnati a ricostruire il fallito vertice di martedì, i giornali israeliani si concentrano sulla "debolezza" di Abu Mazen, rappresentato con i tratti caricaturali di un vecchio «appassito, incanutito, le spalle cadenti, i baffi ingrigiti». «E questo è l´uomo - si chiede, impietoso, Maariv - che dovrebbe combattere il terrorismo palestinese?». Di contro, ecco uno Sharon, baldanzoso, duro, determinato che non esita a battere il pugno sul tavolo e spiega al suo interlocutore il da farsi, "come un generale che parla ad un giovane ufficiale al termine di una manovra fallita".
Sembra che il vertice israeliano abbia perso fiducia nell´uomo su cui aveva puntato le sue carte, quell´Abu Mazen, voluto, se non imposto, con l´aiuto degli americani, prima come "premier riformista", poi come alternativa ad Arafat. E con un leader dimostratesi non altezza delle aspettative non resta che rispolverare il linguaggio della forza. Come quello adoperato ieri, con perfetto gioco di squadra, prima dal principale consigliere di Sharon per la Sicurezza, il generale Eival Giladi e poi dal ministro degli Esteri, Silvan Shalom.
Entrambi si riferivano al ritiro da Gaza previsto per agosto. Ritiro, i vista del quale, israeliani e palestinesi, con l´apporto decisivo dell´Amministrazione americana, avrebbero raggiunto un intesa per coordinare le mosse. Ebbene, Gilad non si è limitato a ribadire che Israele agirà in «maniera molto risoluta per prevenire attacchi durante la realizzazione del disimpegno». Ha aggiunto che «se le risposte mirate si dimostreranno insufficienti, potremmo dover usare armi che causano rilevanti danni collaterali, inclusi elicotteri e aerei con crescente danno per la popolazione».
Shalom ha aggiunto che, anche dopo il ritiro, se necessario «le truppe israeliane potrebbero rientrare a Gaza per fermare il terrorismo». Altro che coordinamento.
L'UNITA' pubblica a pagina 13 un'intervista di Umberto de Giovannangeli al capo negoziatore dell'Anp Saeb Erekat.
Il quale accusa Israele del fallimento del vertice e ribadisce che l'anp combatte il terrorismo.
Forse u.d.g avrebbe potuto ricordargli che, per fare un esempio, che sul fallito attentato suicida a Beersheva le autorità israeliane avevano ricevuto informazioni, passate all'Anp, senza che questa ne facesse alcun uso.
L'unico modo per fermare l'attentatrice suicida è poi stato uno di quei check point che Erekat chide di smantellare.
Se invece u.d.g. trova Erekat troppo simpatico per polemizzarci (come suggerirebbe la frequenza delle interviste che gli chiede) una modalità alternativa per fornire un'informazione equilibrata sarebbe stata quella di intervistare, sul fallimento del vertice, anche un esponente del governo israeliano. L'intervista a Erekat è invece affiancata da quella (interessante) alla scrittrice iraniana esule negli Stati Uniti Azar Nafisi. Su tutt'altri argomenti, ovviamente
Ecco il testo dell'intervista di u.d.g.,"Sharon ha perso un' occasione per rilanciare la pace":«Al primo ministro israeliano avevamo avanzato una serie di richieste che avrebbero rafforzato la fiducia e la cooperazione tra le parti. Purtroppo queste richieste sono cadute nel vuoto. È inutile nasconderlo: il vertice non è servito a rilanciare il processo di pace. Il dialogo proseguirà ma le prospettive restano incerte. Sì, questo vertice è stata un'occasione perduta». A parlare è Saeb Erekat, capo negoziatore dell'Anp, uno dei protagonisti del vertice di Gerusalemme. «A Sharon abbiamo ribadito - sottolinea Erekat - che per quanto ci riguarda il ritiro da Gaza deve essere inquadrato nell'ambito di una attuazione piena della Road Map», il Tracciato di pace delineato dal Quartetto (Usa, Ue, Onu, Russia). Per quanto riguarda i rapporti con Hamas, Erekat è perentorio: «Stiamo operando perché Hamas sia pienamente inserito nella dialettica politica palestinese..Una guerra civile nei Territori non solo affosserebbe la leadership di Abu Mazen ma alimenterebbe il caos e l'anarchia dando un colpo mortale alle residue possibilità di rilanciare il processo di pace».
Come valutare a freddo l'esito del vertice di Gerusalemme tra Ariel Sharon e Abu Mazen?
«Come un'occasione perduta per imprimere una svolta nel dialogo israelo-palestinese. Vi saranno altre occasioni per riprendere il filo della trattativa, ma a Gerusalemme non sono stati fatti passi in avanti sostanziali. Avevamo preparato a lungo questo vertice, poi negli ultimi giorni c’è stata una recrudescenza di violenze e quella nera nuvola incombeva su tutti noi».
È un «de profundis» per le speranze di pace?
«No, perché il dialogo non ha alternativa. Ma perché questo processo si rafforzi ha bisogno di una precondizione ancora più importante di una intesa sui singoli contenziosi».
Quale sarebbe questa precondizione?
«Il pieno rispetto della controparte, evitando atteggiamenti "professorali" di chi non intende prestare ascolto alle ragioni dell'altro ma intende impartire lezioni. Questo atteggiamento è riemerso nel vertice di Gerusalemme e di certo non ha contribuito a rasserenare gli animi».
A Sharon , la delegazione palestinese aveva presentato un pacchetto di richieste. Quali sono stati i rifiuti più gravi dal vostro punto di vista?
«Al premier israeliano avevamo chiesto un segnale concreto per ciò che concerne la liberazione dei detenuti palestinesi. Questo segnale non è venuto. Lo stesso si può dire per la nostra richiesta di ridurre i posti di blocco militari israeliani nei Territori. Avevamo inoltre sollecitato Sharon ad aprire un confronto sullo status futuro delle aree evacuate da Israele nel nord della Cisgiordania: anche su questo punto non vi è stata risposta. Sono silenzi gravi ma l’importante è adesso guardare al futuro e alla cooperazione».
Israele accusa l'Anp di scarso impegno nel contrastare la violenza e nell'avviare il disarmo delle milizie dell'intifada.
«Le autorità israeliane sanno bene che le cose stanno diversamente: i nostri servizi di sicurezza hanno contribuito a sventare negli ultimi tempi diversi attacchi suicidi; il presidente Abbas è impegnato a rafforzare la tregua. Ma questi sforzi rischiano di essere vanificati dalle chiusure politiche di Israele».
Nel vertice si è anche affrontato il tema del ritiro israeliano da Gaza. Con quali esiti?
«Diciamo esiti interlocutori. Le riunioni di coordinamento andranno avanti, a Sharon abbiamo ribadito alcune richieste che liberino Gaza da un soffocante isolamento. La discussione è aperta, gli obiettivi tutti da raggiungere».
Da raggiungere è anche lo stop al terrorismo.
«La nostra condanna degli attacchi suicidi come del lancio di razzi contro città e insediamenti israeliani è netto, totale. Si tratta di azioni che ledono gravemente la causa palestinese. Quei colpi di mortaio sono indirizzati anche contro la leadership palestinese e i suoi sforzi di pace. C’è chi punta al caos e a imporre con la forza il loro punto di vista. Non ci piegheremo ai loro ricatti armati. Il punto è come isolare e sconfiggere i gruppi estremisti. L'azione repressiva da sola non basta. Occorre una risposta politica che non può essere data solo dalla dirigenza dell'Anp».
Israele teme che dopo il suo ritiro da Gaza, la Striscia diventi una sorta di «Hamasland».
«Siamo pronti ad assumerci l'impegno di garantire la sicurezza nella Striscia. Almeno cinquemila agenti saranno impiegati a questo fine. Faremo la nostra parte. Israele si impegni da parte sua a non fare di Gaza una prigione a cielo aperto».
IL MANIFESTO pubblica un articolo di Michele Giorgio: "Sharon soffia sul fuoco della delusione palestinese".
La cronaca si apre con il tentativo di "assassinio", da parte israeliana di un "militante" della Jihad islamica. Giorgio, nell'indignarsi per un "pratica che viola pesantemente la legalità internazionale" dimentica di informare i suoi lettri che in questo caso il "militante" si stava preparando "a lanciare missili Kassam dal nord della striscia di Gaza", come scrive Alberto Stabile su LA REPUBBLICA. Di per sè le esecuzioni mirate sono assimilabili ad atti di guerra, pienamente in accordo con la legittimità internazionale. Anche dubitando di questa tesi, però, resta certo che per uno stato uccidere qualcuno direttamente impegnato a lanciare contro suoi cittadini razzi esplosivi é del tutto legittimo.
L'articolo si conclude riportando una denuncia di Human Rghts Watch circa il "basso numero di inchieste avviate per accertare le circostanze nelle quali sono stati uccisi numerosi civili palestinesi dall'inizio della seconda Intifada", il modo in cui le stesse inchieste sono state condotte, il basso numero di incriminazioni e di condanne e l'eccessiva indulgenza delle stesse.
Un'informazione equlibrata sulla questione richiderebbe che i comandi militari potessero a loro volta spiegare ai lettori del MANIFESTO perchè non hanno avviato certe inchieste e che perchè alcune non hanno portato a incriminazioni (forse non c'erano le basi). E che i giudici potessero spiegare perchè non hanno condannato alcuni soldati (forse li ritenevano innocenti) e perchè le condanne sono state miti (forse non c'era l'intenzione di uccidere innocenti, forse i soldati operavano in situazioni confuse e ad alto rischio)
Ecco l'articolo:I palestinesi giurano che Ariel Sharon non ha fatto alcun accenno alla ripresa delle «esecuzioni mirate» di attivisti dell'intifada durante il vertice dell'altroieri con Abu Mazen a Gerusalemme. Eppure questa pratica, che viola pesantemente la legalità internazionale, è di nuovo una realtà. Il ministro per la sicurezza interna, Gideon Ezra, ha detto ieri a Galei Tazhal, la radio militare, che l'aviazione militare martedì pomeriggio ha effettivamente cercato di assassinare un militante del Jihad Islami. «C'è stato un tentativo a Gaza di intercettare un attivista, ma non è riuscito», ha ammesso Ezra. «Si era presentata l'occasione. Ogni mezzo deve essere usato per neutralizzare quella organizzazione», ovvero il Jihad, responsabile degli ultimi attacchi armati contro obiettivi israeliani. Fonti della sicurezza hanno detto al quotidiano Ha'aretz che Israele intende continuare le esecuzioni mirate. C'e' chi sospetta che in realtà Sharon abbia informato Abu Mazen della ripresa di questi assassini e ciò spiegherebbe l'ira del presidente palestinese tornato a Ramallah con nulla in tasca. A ciò si aggiungono le dichiarazioni del ministro degli esteri, Silvan Shalom, secondo il quale, «se sarà necessario, Israele tornerà a Gaza anche dopo il ritiro (previsto a metà agosto) per mettere fine al terrorismo». Un monito che segue di poche ore le dichiarazioni di un consigliere del primo ministro, Eival Ghiladi, secondo cui «Israele opererà con mezzi drastici durante il ritiro...anche palestinesi innocenti potrebbero essere colpiti, se l'Anp non dovesse compiere attività di prevenzione».
Quello che due giorni fa era era stato descritto come un vertice deludente, ieri si è rivelato disastroso per il leader palestinese. Sharon «ha battuto il pugno sul tavolo. Ha redarguito. Ha pontificato davanti ad Abu Mazen come un generale quando spiega ad un giovane ufficiale le ragioni dell'insuccesso di una manovra. Nell'aria c'era un forte odore di fallimento, di un'occasione perduta». Così il quotidiano Maariv ha descritto l'atmosfera dell'incontro. Le «concessioni» che Israele avrebbe fatto: il passaggio all'Anp di Betlemme e Qalqilya, la disponibilità ad accettare il rientro di combattenti dell'Intifada espulsi tre anni fa in Europa e di esaminare la liberazione di altri 20 detenuti politici, è condizionato al comportamento dell'Anp. Non sorprende perciò che il presidente palestinese martedì sia rientrato «incollerito e deluso» dal vertice di Gerusalemme e che abbia trascorso le ore successive in colloqui telefonici con il segretario di stato Usa Condoleeza Rice, re Abdallah di Giordania, il presidente egiziano Mubarak e il principe ereditario saudita Abdallah.
Il premier Abu Ala invece ieri ha dovuto guardarsi dalla pallottole sparate da Mahmud Khatib, un giovane militante delle Brigate dei martiri di al Aqsa, durante la sua visita nel campo profughi di Balata, alle porte di Nablus, la roccaforte dell'intifada in Cisgiordania. Khatib ha prima sparato per aria e poi contro un centro sportivo, all'interno del quale il premier stava discutendo con una delegazione di abitanti di Balata. Intendeva protestare contro l'Anp, rea di non aver sostenuto materialmente suo padre dopo che quest'ultimo era stato liberato dal carcere israeliano dove è rimasto per 21 anni.
«Cercano di imporci quello che vogliono, ma noi non ci piegheremo» ha commentato, visibilmente irritato, Abu Ala che nei giorni scorsi aveva minacciato di dimettersi assieme al governo se non verrà posto termine allo stato di caos che regna nei Territori occupati. E ieri è arrivata anche l'ennesima denuncia di un centro per i diritti umani contro l'esercito israeliano: Human rights Watch ha criticato in un rapporto reso pubblico ieri i comandi militari dello Stato ebraico per il basso numero di inchieste avviate per accertare le circostanze nelle quali sono stati uccisi numerosi civili palestinesi dall'inizio della seconda Intifada.
Secondo Hrw le autorità israeliane hanno disposto accertamenti solo nel 5% dei casi di uccisioni di civili. «La maggior parte delle indagini svolte da Israele sono state una vergogna», ha accusato la direttrice di Hrw per il Medio Oriente, Sarah Leah Whitson. «Il fallimento del governo (Sharon) nell'investigare sulle morti di civili innocenti ha creato un clima che incoraggia i soldati a pensare che possono uccidere impunemente» ha aggiunto. L'esercito israeliano ha avviato 198 inchieste sulla morte di civili palestinesi, che hanno portato finora a 19 incriminazioni e a 6 condanne, la più pesante delle quali a soli 20 mesi di detenzione.
IL MATTINO pubblica a pagina 9 un altro articolo di Michele Giorgio "Dopo il vertice nuovi scogli per Abu Mazen".
Scrivendo per i lettori del quotidiano napoletano Giorgio riferisce che i terroristi della Jihad attaccati dai militari israeliani "secondo il portavoce militare, stavano per sparare colpi di mortaio contro le colonie ebraiche".
Ma esistono, diffuse dai media israeliani, fotografie dei resti dei razzi raccolti da uomini dell'Anp dopo l'attacco. Non c'è dunque motivo di sospettare che il portavoce militare abbia mentito.
Ecco l'articolo:Gerusalemme. Mancano meno di due mesi al ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza e la cooperazione invocata dal segretario di stato Usa Condoleeza Rice appena qualche giorno fa, sembra essere l’ultima cosa che israeliani e palestinesi hanno in programma. Il vertice di martedì a Gerusalemme tra il premier Ariel Sharon e il presidente palestinese Abu Mazen descritto come deludente, si è rivelato ieri addirittura un «disastro». Almeno a sentire i palestinesi. I giornali dei Territori hanno titolato sul leader palestinese rientrato a Ramallah «incollerito e deluso». Radio Voce della Palestina ha riferito che Abu Mazen ha trascorso le ore successive al summit mettendosi in contatto con Condoleeza Rice e vari leader arabi. La delegazione palestinese ha riferito che Sharon ha dedicato venti minuti dell'incontro a un monologo in cui ha denunciato l’assenza di lotta da parte dell'Anp contro i gruppi armati. Circostanza confermata anche dal quotidiano Maariv di Tel Aviv secondo il quale il premier «ha battuto il pugno sul tavolo. Ha redarguito. Ha pontificato davanti ad Abu Mazen come un generale quando spiega ad un giovane ufficiale le ragioni dell'insuccesso di una manovra». Il clima ieri era molto teso. Sharon pare anche deciso ad adottare la linea del pugno di ferro contro gli avversari interni e esterni. Ieri un ministro, Gideon Ezra, ha confermato l’intenzione di riprendere le esecuzioni mirate di militanti dell’Intifada, in particolare di quelli della Jihad islamica, responsabile degli ultimi attacchi armati contro obiettivi israeliani. L’organizzazione integralista da parte sua ha annunciato di non sentirsi più legata al cessate il fuoco proclamato da tutte le fazioni palestinesi lo scorso marzo al Cairo. E ieri, sempre a Gaza, un aereo israeliano ha sganciato due razzi contro uomini della Jihad che, secondo il portavoce militare, stavano per sparare colpi di mortaio contro le colonie ebraiche. Ma il rischio è che gli attacchi israeliani contro la Jihad spingano le altre fazioni palestinesi a riprendere la lotta armata. L’Autorità Nazionale di Abu Mazen nel frattempo vacilla, sotto le pressioni israeliane e le minacce interne. Ieri un attivista dell’Intifada ha sparato colpi di avvertimento contro un edificio del campo profughi di Balata (Nablus) in cui si trovava in visita il premier Abu Ala. Un gesto di sfida compiuto per protestare contro il «disinteresse» delle autorità di governo verso la condizione degli ex prigionieri politici. Intanto Human Rights Watch ha criticato ieri l'esercito israeliano per il basso numero di inchieste avviate per accertare le circostanze nelle quali sono stati uccisi i civili palestinesi dall'inizio della seconda Intifada, nel 2000. Secondo Hrw le autorità militari hanno disposto accertamenti solo nel 5% dei casi di morte di civili. L'esercito israeliano ha avviato in cinque anni 198 inchieste di questo tipo, che hanno portato finora a 19 incriminazioni e a 6 condanne, la più pesante delle quali a soli 20 mesi di detenzione.
Osserviamo come tutti i quotidiani presi in esame dedichino pochissimo spazio agli spari contro Abu Ala: la violenza interna alla politica palestinese viene regolarmente minimizzata, quella, spesso ipotetica, degli estremisti israeliani viene invece regolarmente enfatizzata.
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