IL RIFORMISTA di martedì 29 marzo 2005 dedica l'inserto "Diplomatique" al Medio Oriente e a Israele.
Introduce le due pagine di cronache, interviste e analisi un editoriale di Oscar Giannino, "Anna Frank vive oggi in Roya Hakakian. Ma per lei che facciamo?" denuncia della complicità morale con l'antisemitismo di stato, i crimini e il terrorismo del regime iraniano.
Ecco il testo:Nei servizi e nelle interviste a fianco diamo ampi ragguagli sulle scelte decisive che si stanno compiendo in Israele grazie alla lungimiranza di uno statista che l’Europa ha amato poco, come Ariel Sharon. Domani l’assemblea irachena dovrebbe finalmente riunirsi ma a Baghdad il compromesso tra sciiti e curdi ancora non è raggiunto, per il nuovo consiglio di presidenza e la guida del governo, tanto che dagli Usa ieri è stato espresso un primo formale ammonimento rivolto al leader sciita più laico, al Jaffari che è alla testa del partito Dawa, affinché nell’esecutivo provvisorio non siedano "i turbanti", espressione diretta del clero sciita. Ma a ben vedere c’è un punto di crisi che resta fuori dall’attenzione italiana ed europea, e che si collega invece al difficile compromesso iracheno con gli sciiti, e al travaglio che vive il Libano alle prese con le mezze finte ritirate siriane oggi, e con l’incubo degli hezbollah domani. Tutte le piste portano a Teheran, ed è l’Iran il fuoco sotto la cenere al quale l’Europa continua a guardare distrattamente, unicamente protesa allo sforzo di negoziato che Francia, Germania e Gran Bretagna hanno sin quo messo in opera senza successo, per bloccare i programmi nucleari iraniani.
Certo la storia riserva come al solito amari paradossi. Il programma nucleare iraniano infatti prese puntualmente le mosse nel 1976 sotto l’egida americana dell’amministrazione Ford, in cui sedeva personalmente anche l’attuale vicepresidente Dick Cheney come capo dello staff presidenziale in successione a Rumsfeld, e in cui Paul Wolfowitz ricopriva la responsabilità di responsabile dei programmi di non proliferazione nucleare all’Agenzia per il controllo degli armamenti e del disarmo. Henry Kissinger - tanto vituperato oggi - aveva riservatamente fatto presente il suo punto di vista contrario, visto che per una nazione petrolifera e ricca d riserve di gas come l’Iran dotarsi di capacità nucleare era un controsenso, a meno che pensasse di rivolgerlo a usi militari, il che era meglio per tutti evitare. Diciamo che il suo riservato realismo di allora - Kissinger comunque si allineò e autorizzò le procedure di cessione di tecnologie americana - ha dovuto aspettare qualche anno, prima di essere condiviso dai falchi repubblicani. Perché le politiche di Teheran cambiarono, ma le bombe restano e non è un bene. Richard Clarke sul New York Times si è giustamente chiesto se noi tutti non siamo vittime in questi mesi di un clamoroso abbaglio. Presi dal progresso del negoziato di pace in Israele, dal successo delle elezioni del 30 gennaio in Iraq, dalla protesta di piazza libanese, sottovalutiamo le clamorose affermazioni che al contempo sta registrando il regime degli ayatollah a Teheran. Con royalties petrolifere gonfiate da un prezzo del barile stabilmente superiore ormai ai 50 dollari, con programmi di aiuto allo sviluppo delle Nazioni Unite grazie ai quali in questi giorni abbiamo appreso che Teheran in realtà si procura centinaia di sistemi d’arma avanzati - con la scusa di usarli contro i trafficanti di droga e che in realtà finiscono ai terroristi di hezbollah e della jiahd in Libano, oltre che tra gli almeno 5 mila insorgenti appartenenti alla Guardia rivoluzionaria iraniana infiltrati in Iraq - è difficile credere che la risposta dissuasiva più adeguata possa venire dall’altalenante pressione diplomatica portata dai tre paesi europei. Sin qui, non è valsa a evitare alcun passo avanti nei progetti nucleari di Teheran.
E’ chiaro che in Italia e in Europa non si vuol sentir parlare di "diplomazia coattiva", dopo la guerra in Iraq. Ma è un errore. Ho un consiglio da dare al lettore. Prima di limitarsi a pronunciare no pregiudiziali e di circostanza, leggete fino in fondo un libro fenomenale. Si intitola Journey from The Land of NO: A Girlhood Caught in Revolutionary Iran (edizioni Crown, 23 dollari su Amazon). E’ lo straordinario racconto di un’iraniana che all’epoca della rivoluzione khomeinista aveva 12 anni, e apparteneva alla ricca comunità ebraica di Teheran (allora erano 100 mila, gli ebrei in Iran, era la seconda comunità in Medio Oriente dopo Israele). L’autrice si chiama Roya Hakakian, oggi naturalmente è esule ma sogna di tornare in un Iran nuovo e diverso. La cosa più straordinaria è leggere per capitoli la curiosità e le aspettative che agli occhi di una ragazzina non antipatizzante aveva all’origine la rivoluzione khomeinista, prima che a qualche anno dal suo affermarsi portasse per l’autrice al primo arresto, quando aveva solo 16 anni. Forse bisognerebbe che italiani ed europei facessero leggere nelle proprie scuole libri così. Anna Frank è il passato che non passa. Perché appunto non riguarda solo il passato. E per per le Roya Hakakian che cosa siamo disposti a fare? Solo a dire no?
Di seguito la cronaca di Anna Momigliano "Sharon vince i no del Likud, e i laici si sacrificano":Questa è la settimana più difficile per il premier israeliano Arik Sharon, da quando ha portato in parlamento la proposta di ritiro da Gaza. Come allora, il primo ministro è da solo, davanti a una Knesset agguerrita, con un governo debole e variegato su cui non può fare interamente affidamento, e con il suo stesso partito contro. Ad ottobre, il premier-generale dimostrò di poter sopravvivere a una delle più grandi sfide politiche nella storia di Israele: lo smantellamento degli insediamenti di Gaza, primo piano di ritiro israeliano dopo il Sinai, fu approvato con una maggioranza risicata (67 voti su 120), grazie al voto dei Laburisti e del Movimento laico, spaccando in due lo stesso Likud: da un lato i fedelissimi del premier, dall’altro l’ala più conservatrice, al seguito del giovane ex premier Bibi Netanyahu. Sharon fu abbandonato da metà del suo partito e, dopo lunghe trattative, diede inizio al governo di unità nazionale con Shimon Peres. La proposta di un referendum per il ritiro da Gaza, che quasi certamente avrebbe fatto cadere il governo, è stata respinto ieri dalla sessione plenaria della Knesset. Ora rimane la sfida più difficile, quella del budget 2005, che dovrà essere approvata entro giovedì, pena elezioni anticipate.
La sconfitta di Netanyahu
Votare per il referendum significava votare contro Sharon e viceversa: se un referendum ci fosse stato questo avrebbe avrebbe reso più complesso, se non impedito, il ritiro da Gaza. In primis perché avrebbe diviso in due un paese che di divisioni interne è già colmo; ma soprattutto perché, con ogni probabilità, sarebbe passato grazie al voto degli arabi cittadini d’Israele (il 20 per cento), il che avrebbe l’operazione delegittimato agli occhi degli ebrei. Ma prima ancora di essere una vittoria per Sharon, la bocciatura del referendum è stata infatti una sconfitta per l’ala destra del suo partito, che aveva disertato il premier da quando ci fu la votazione su Gaza. Allora, Sharon fu abbandonato da quasi la metà del Likud; ieri il referendum è stato bocciato grazie a un voto relativamente compatto della destra sionista (30 su 40 hanno sostenuto il premier). In altre parole, molti dei likudnik ribelli sono rientrati nei ranghi: a marzo il Comitato centrale del Likud si era espresso a favore del referendum e fino a ieri, gli analisti prevedevano una spaccatura totale del partito (da una parte i fedeli a Sharon, e dall’altra i ribelli al seguito dell’ex premier, nonché ministro delle Finanze, Netanyahu); ma ora è chiaro che la maggior parte della destra sta dalla parte di Sharon. Il giovane Netanyahu, che in caso di elezioni anticipate sarebbe stato il vero avversario del premier, si è messo l’anima in pace, e aspetta tranquillamente il suo turno alla leadership del Likud, quando il mandato di Sharon sarà terminato.
I paradossi del budget
Sharon ha superato la prima prova, ma rimane ancora il budget per il 2005. Già una volta la finanziaria per quest’anno era stata discussa in parlamento, e già una volta respinta. Furono i fondi per le associazioni ultra-ortodosse a bloccare la legge: Shinui, partito laico e terza forza politica del paese, votò contro la legge e si ritirò dal governo, lasciando Sharon con una netta minoranza, e costringendolo all’unità nazionale. Già una volta la finanziaria fu bocciata, quindi, e il governo rimase in piedi. Secondo la legge israeliana, però, il budget annuale deve essere approvato entro il 31 marzo: in caso contrario si dovrà andare a elezioni anticipate entro 90 giorni (cioè alla fine di giugno), il che sarebbe un disastro per il primo ministro. La preoccupazione principale di Sharon è portare avanti il ritiro e alcuni sostengono che potrebbe prima della scadenza, in caso di elezioni anticipate, ma sarà ancora più difficile smantellare le colonie per un governo delegittimato, che (in assenza di un piano finanziario) non potrebbe risarcire economicamente i coloni.
Questa finanziaria s’ha da fare, e probabilmente si farà. Ci sono però due paradossi: un piano economico squisitamente di destra, che prevede tagli a sanità ed educazione, passerà grazie ai voti di sinistra; ma il vero ago della bilancia sarà Shinui, il partito laico che già una volta bocciò la finanziaria.
Il welfare
La prima versione del budget, respinta a febbraio dalla Knesset, prevedeva dei tagli sostanziosi alla kupat-holim, la mutua israeliana. La commissione parlamentare per la sanità ha chiesto a Sharon di aumentarne il budget di 150 milioni di shekel (circa 40 milioni di euro), e il premier ha accettato. Date le ristrettezze delle casse dello Stato, e la ferma determinazione da parte del governo a portare avanti una politica di ridimensionamento del welfare, il problema è dove prendere questi soldi: cioè «tagliando qua e là - come ha fatto notare un analista sulle colonne di Haaretz - il budget degli altri 23 ministeri, rischiando di alienarsi i titolari membri del governo». Tra i ministri più agguerriti c’è da tempo quello per l’educazione, Limor Livnat, che deve già fronteggiare le proteste di studenti e insegnanti in piazza in questi giorni contro i tagli all’educazione, e non può permettersi di rivedere il suo budget ancor più ridimensionato. Limor Livnat (che tra l’altro è la sorella maggiore di uno dei leader del movimento giovanile dei coloni) ha però la sfortuna di essere già sulla lista nera di Sharon, che sa di non poter contare sul suo aiuto per Gaza.
Pur non condividendo le linee della finanziaria, che porta la firma di Netanyahu, il partito laburista ha tacciato di «cocciutaggine infantile» e «immoralità» chiunque ipotizzasse di opporsi al disegno di legge. Il Labour, infatti, è da sempre disposto a compromessi su tutte le altre questioni, dal welfare alla laicità dello Stato, in nome della questione palestinese (e, secondo alcuni analisti, questo è il motivo per cui ha perso tanti consensi negli ultimi anni). Ed è per questo che si è giunti a una situazione paradossale: i principali sostenitori di un programma di contenimento fiscale proposto da un ministro di destra sono i socialisti, mentre i conservatori sono divisi. Sharon a il Labour e gli ultra-ortodossi dalla sua parte, mentre parte del Likud (13 parlamentari su 40) voterà contro il budget. Anche sul budget molti likudnik ribelli rientreranno quindi nei ranghi: tra questi lo stesso Benyamin Netanyahu, punto di riferimento dell’ala destra Likud, che però è anche il ministro delle Finanze, e non certo bocciare può bocciare la sua stessa legge. Anche se, malignano alcuni, starebbe andando in giro a cercare di convincere gli altri a bocciarla. Netanyahu avrebbe infatti incontrato Rav Ovadia Yusef, leader spirituale del partito religioso Shas, nel tentativo di convincerlo a votare contro il budget, ma pare che non ci sia riuscito. Shinui, dunque, rimane ancora una volta l’ago della bilancia.
La nobile fine di Lapid
Punto centrale del budget è infatti la questione dei fondi agli ultra-ortodossi: 290 milioni di shekel che dovrebbero andare a associazioni più o meno direttamente collegate ai due principali partiti religiosi: Giudaismo unito e Shas. I fondi a queste organizzazioni non sono null’altro che il prezzo da pagare per avere i voti di Shas e Giudaismo unito dalla loro parte. E’ da notare che questi due partiti, seppure in teoria si oppongano al ritiro da Gaza, non abbiano mai messo il bastone tra le ruote a Sharon. A differenza dal terzo partito religioso, il Mafdal, dalla solida ideologia sionista, Shas e Giudaismo unito non si curano più di tanto dei coloni, e raccolgono il loro elettorato proprio grazie alle associazioni caritatevoli (soprattutto a Gerusalemme e nei sobborghi di Tel Aviv): finché si garantiscono loro i fondi monetari il loro sostegno è pressoché garantito. Il problema è che sono proprio questi fondi che hanno alienato Shinui. La scorsa settimana il leader di Shinui, Tommi Lapid, aveva fatto sapere che mai e poi mai avrebbe sostenuto Sharon, se i fondi per i religiosi non fossero stati ridimensionati, ma domenica è giunta la notizia di un accordo: il movimento laico appoggerà il budget in cambio di uno stanziamento di ulteriori 700 milioni di Shekel per le università.
Come altri partiti, Shinui ha accettato di votare per una legge che va contro i suoi interessi, in nome di un interesse più grande: il ritiro da Gaza. Per Lapid, si è trattato di un suicidio politico: uomo immagine del laicismo e della lotta contro lo strapotere dei religiosi, non è stato eletto promettendo il ritiro da Gaza, bensì uno Stato più laico. Solo la scorsa settimana, l’anziano leader cercava ancora di mantenere una posizione ferma con Sharon: o tagli le spese religiose, o dimenticati il nostro sostegno. Dato per perso Lapid, il premier aveva messo in atto una strategia di divide et impera, convincendo uno per uno quasi tutti i 14 parlamentari Shinui a tradire il loro leader. Era ormai chiaro che non c’era più possibilità di fare pressione sui fondi ai religiosi. A quel punto l’anziano Lapid si è trovato di fronte a una scelta molto difficile: scegliere di non sostenere il budget, rischiando di far cadere il governo (il che pure equivaleva a un suicidio, perché tutti gli avrebbero rinfacciato di essere l’uomo che avrebbe fermato il ritiro); oppure sostenere Sharon, tradendo di fatto la sua piattaforma elettorale. L’anziano leader di Shinui, insomma, ha dovuto scegliere di che morte morire. E a quanto sembra ha scelto nell’interesse del paese.
Jacopo Tondelli intervista Roman Bronfman e Naomi Chazan, del partito di estrema sinistra Yachad, che ha appoggiato il governo Sharon per permettere il ritiro da Gaza.
Ecco l'articolo: "Perchè noi, più a sinistra di Peres, votiamo per il premier".«Prima dovrebbe chiedermi che cosa significhi "sinistra" in Israele», risponde Naomi Chazan, quando le chiediamo dove va la sinistra israeliana, di fronte alla storica svolta compiuta da un leader di destra, Ariel Sharon. Naomi Chazan, nella passata legislatura parlamentare di Meretz (oggi Yachad) alla Knesset, studiosa di fama internazionale di questioni afroasiatiche, è una militante storica della sinistra israeliana, di quel pezzo di sinistra sionista che da sempre si pensa e si sente più vicino alla natura e alla storia delle socialdemocrazie europee o ai liberal americani, e forse per questo costituisce una minoranza "nobile", elitaria ma rispettata, permanentemente schiacciata tra il colosso storico del laburismo di Ben Gurion, e il radicalismo e l’antisionismo dei partiti binazionali (come i vetero-comunisti di Hadash) o arabi. E’ una premessa che va alla radice di una questione complicatissima, che la professoressa Chazan mette sul tavolo senza troppi riguardi, quasi che le nostre domande ne suscitino altre, di ben altra portata. A complicare ulteriormente la vita a questo segmento del progressismo israeliano ci ha pensato Tommy Lapid col suo Shinui, galoppando su uno dei cavalli di battaglia storici del Meretz, la laicità dello Stato.
Questa sinistra, raccoltasi dopo la fusione tra Meretz e la sinistra laburista di Beilin nel partito di Yachad, conta oggi sei parlamentari su 120. E se trovare spazio non è stato mai facile, certo oggi lo è ancor meno, mentre Arik Sharon forza la mano e rompe con la destra oltranzista sul ritiro da Gaza. Il Labour ha scelto di entrare nel governo svuotato di parte del Likud e della destra nazional-religiosa, la sinistra radicale di votare contro sempre e comunque. E i socialdemocratici di Yachad? «A febbraio -ci spiega Roman Bronfman - attuale portavoce di Yachad alla Knesset - quando c’è stato da votare il nuovo governo Sharon, pensavamo di astenerci. Ma quando abbiamo capito che il nostro voto era indispensabile alla nascita del governo, abbiamo deciso di votare a favore. Molte cose ci distanziano e ci distanzieranno da Sharon, e per questo non possiamo entrare in un governo guidato da lui. Ma il ritiro da Gaza è fondamentale: è l’inizio della fine della Guerra dei Sei Giorni che dura, in realtà, da trentott’anni». L’importanza simbolica del ritiro, dunque, va ben oltre la portata del provvedimento, che riguarda circa ottomila coloni. Anche Naomi Chazan è d’accordo, ma precisa: «Deve essere chiaro a tutti che noi non sosteniamo Sharon e la sue politiche, che sono quelle di un uomo di destra. Sosteniamo, e con convinzione, il suo piano di ritiro da Gaza, che è poca cosa rispetto alla vera partita, quella che si giocherà nel West Bank, dove i coloni sono centinaia di migliaia».
Ma la difficoltà politica che attraversa il partito e, più in generale, tutto il fronte della sinistra emerge chiara nelle parole di Bronfman: «Da un lato gli ultimi sondaggi ci danno in crescita, segno che i nostri elettori hanno compreso e apprezzato la nostra scelta. Dall’altro, il nostro ruolo in politica estera e rispetto al processo di pace, in questo momento storico, forse si esaurisce davvero nel supportare il piano di ritiro di Sharon. Nostro dovere, invece, è continuare a criticare le politiche economiche e sociali di questo governo, che sono molto lontane da quelle che auspichiamo».
Più battagliera sembra Naomi Chazan, quando dice che «il 34 per cento degli israeliani si dicono favorevoli a una ripresa immediata dei negoziati, e rifiutano l’unilateralismo metodologico di Sharon. Questo è il nostro elettorato, e sta a noi conquistarlo, tenendo fede alla storia del nostro partito e alle nostre idee».
Certo, a queste condizioni, le prossime elezioni fanno paura alla sinistra, anche perché l’unica alternativa credibile a Sharon pare essere Bibi Netanyahu, come se la partita per il premier di domani si giochi tutta, già oggi, all’interno del Likud. «Se, come è improbabile, Sharon dovesse cadere sul budget (in votazione in questa settimana) che prevede il finanziamento del ritiro, allora non vedo davvero possibilità per la sinistra. In questo caso, infatti, le elezioni si risolverebbero in un referendum sul disengagement», e Sharon risulterebbe attaccabile solo da destra, dal fronte del no. «Qualche possibilità in più, invece, -prosegue Chazan -potremo averla se si vota a fine mandato, dopo che il ritiro sarà già compiuto, e si dovrà parlare degli insediamenti nel West Bank, ma anche delle politiche economiche e sociali». «Inoltre abbiamo un problema enorme -dice Bronfman -che riguarda l’assenza di una leadership forte, riconosciuta, autorevole da contrapporre a Sharon, che secondo me sarà il candidato premier del Likud, e vincerà».
Chazan e Bronfman concordano sull’inopportunità di convocare un referendum sul piano di evacuazione di Gaza. «Siamo una democrazia parlamentare, e non c’è bisogno di questo strumento». (Ieri la Knesset ha votato contro l’ipotesi di referendum, con 62 no e 39 sì , Ndr). Anche alcuni autorevoli leader di partiti religiosi non vogliono il refrendum, perché temono che si crei un precedente imbarazzante, che potrebbe essere utilizzato in futuro per giustificare una consultazione popolare su un tema molto caro a Yachad, la laicità dello Stato. Una consultazione di questo tipo, nell’Israele odierno, vedrebbe probabilmente trionfare proprio il fronte "laico". «Forse siamo stati poco coraggiosi -spiega Bronfman -e non abbiamo pensato a questa eventualità. Ma il momento odierno è troppo importante, ed è necessario accelerare». «Se domani servirà un referendum sulla laicità d’Israele -secondo Chazan -non avremo paura a batterci per ottenerlo, anche senza avere un precedente».
Alle sinistre europee che diffidano di Sharon ed il cui sostegno sarebbe forse importante, cosa dite o chiedete? «Che Sharon non è certo il nostro leader di riferimento -ride Naomi Chazan -e che noi non sosteniamo il suo governo tout-court, come fanno i laburisti, ma il suo piano di evacuazione, che è un precedente storico, è un atto di grande coraggio e rilievo. E poi, scusate, ma con tutti i guai che ha la sinistra israeliana, dobbiamo occuparci anche di quella europea?»
L'intervista a Edoardo Recanati, italo-israeliano che vive nell'insediamanto di Tekoa liquida troppo frettolosamente la distinzione tra le "ruberie commesse dai coloni europei in Africa o in Asia" e il reinsediamento degli ebrei in Giudea.
Nel complesso, comunque, ha il merito di dare direttamante la parola a un esponente di una visione del futuro di Israele troppo spesso presentata dai media in modo distorto e stereotipato.
Ecco l'articolo, "L’America ci capisce ma voi no, e Sharon è un traditore":Le definizioni, a volte, sono importanti. A Edoardo Recanati, per esempio, non piace essere descritto per quel che è: un colono ebreo, che vive in un insediamento nel West Bank. Non gli piace la parola colono, non accetta il concetto di West Bank. «Sono un italiano cittadino d’Israele, che vive in un villaggio sorto in terra d’Israele, per la precisione in Giudea, la terra dei giudei, per l’appunto. Le colonie fanno pensare alle ruberie commesse dai coloni europei in Africa o in Asia. Noi, invece, siamo a casa nostra». Edoardo vive a Tekoa, tra le colline a pochi chilometri da Betlemme, all’inizio del deserto che degrada fino alla depressione del Mar Morto. Ci è giunto dopo un percorso tortuoso, iniziato a Livorno, dove è nato a metà degli anni Trenta. «Sono cresciuto in una famiglia di ebrei italiani molto laici, sostanzialmente indifferenti alle tradizioni, quasi senza conoscere le festività ebraiche». Rifugiato con la famiglia a Tunisi per sfuggire alle persecuzioni, dopo essere tornato in Italia si laurea in legge a Pisa, e intraprende con successo la carriera del consulente finanziario. Sono gli anni dell’impegno nell’estrema sinistra, della fede rivoluzionaria, prima di approdare a un nuovo credo politico, quello sionista. «Lungo i decenni, Israele è diventato per me un punto di riferimento. Ci andavo appena potevo, e mi sentivo a casa». E così nel 1978 decide di fare Alyià, e si trasferisce a Tel Aviv. «Ma quella città mi andava stretta, con la sua voglia di essere occidentale, americana, io che in America ci avevo lavorato e vissuto, e ne ero scappato, trovandola vuota e insulsa». Per questo, due anni più tardi, va a Gerusalemme. «Finalmente iniziavo a parlare e a leggere l’ebraico. Per la prima volta compresi e sentii miei i libri della Bibbia». Ma qualcosa mancava ancora. «In un paese in cui tutti avevano fatto qualcosa, combattuto una guerra o costruito un villaggio, io sentivo di non avere fatto ancora nulla». E’ stato uno dei tanti, Edoardo, che nella colonizzazione oltre la "linea verde" ha voluto vedere la nuova frontiera da varcare, sulle tracce dei pionieri sionisti che avevano attraversato il mare e arato il deserto tanti decenni prima, "inventando" Israele. Nel 1984 Recanati va a Tekoa, per non tornare più indietro. «In questa terra non ha mai voluto vivere nessuno. Solo noi ebrei. Ma vedi, da quando noi abbiamo cominciato a riprenderci ciò che era nostro, ecco che gli arabi, di colpo, si sono scoperti "palestinesi" e hanno gridato all’esproprio, già nel 1948, e ancora oggi, per quelli che voi chiamate territori occupati». Una differenza, a ben vedere, ci sarebbe e non pare di poco conto, visto che nel 1948 gli arabi rimasti divennero cittadini israeliani con diritto di voto, a differenza dei palestinesi che popolano i territori. «E’ un problema insolubile -taglia corto Edoardo -in questa terra non c’è posto per tutti e due i popoli. O noi, o loro. Solo che noi non abbiamo dove andare, visto che non possiamo certo tornare nell’Europa che ci ha sterminati, o nei paesi arabi che ci hanno scacciati. Loro invece hanno una ventina di paesi pronti ad accoglierli». Il pensiero corre ai tanti palestinesi accampati da decenni in Libano e Siria, e mai riconosciuti come cittadini dai paesi in cui sono profughi. «Ma alla fine -prosegue -noi rimarremo qui, perché è la nostra terra. Loro potranno farci male e farci soffrire, ma non riusciranno a cacciarci e dovranno andarsene loro, anche se io non mi sento di procedere alla loro espulsione armata ed integrale. E poi -echeggia Oriana Fallaci -hanno l’Europa, che ormai stanno colonizzando».
La politica israeliana, però, è a una svolta. Le parole di Recanati vanno in una direzione. Sharon e il suo governo dalla parte opposta. «E’ tutta gente che non ha memoria, che si è portata in Israele la mentalità rinunciataria del ghetto, che non ha imparato nulla dal fallimento di Oslo e ripercorre oggi i passi che lo produssero allora. La striscia di Gaza è roba nostra, e non passa giorno che anche noi, che viviamo altrove, non manifestiamo agli ebrei che vi abitano la nostra solidarietà, di fronte all’ingiustizia che stanno subendo. In questa lotta, fortunatamente, non siamo soli: ci sono gruppi di cristiani americani che ci sostengono, ed anch’io sono in contatto con alcuni di loro. Loro hanno capito che la forza di Israele è un bene per tutti, e che il compimento delle profezie bibliche e la ricostruzione del Tempio, a Gerusalemme, è un obiettivo comune, da perseguire insieme». La concreta realpolitik di Sharon sembra appartenere ad altri mondi. «Alle ultime elezioni io non ho votato. Nessuno ci rappresenta. A mia moglie, che alle ultime elezioni voleva votare Sharon, dissi che era un traditore e una sciagura per tutti noi. I fatti mi hanno dato ragione».
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