IL FOGLIO di venerdì 17 marzo 2005 pubblica in prima pagina l'articolo "E' una Bagdad nuova e rivoluzionaria fin dal suo primo atto costituente", che riportiamo:Baghdad. La formula del giuramento pronunciata ieri mattina a Baghdad dai parlamentari eletti, in apertura della Costituente, rappresenta una novità assoluta in tutta la regione (Turchia compresa). Davanti a Dio, infatti, essi hanno giurato su una formula considerata a dir poco eversiva dal centralismo statale asiatico e soprattutto turco-arabo: "Giuro davanti a Dio di mantenere l’indipendenza e la sovranità dell’Iraq e di sostenere gli interessi del suo popolo; di avere a cuore il suo territorio, cieli, acque, risorse e il suo sistema democratico e federale; di mantenere le libertà generali e private del popolo e l’indipendenza della magistratura".
Il riferimento esplicito alla fedeltà al sistema federale, quindi alla multietnicità e alla non "arabicità" della nazione, caratterizza ora uno Stato radicalmente diverso, nella sua stessa struttura, rispetto a tutti quelli dell’area. Un federalismo politico e amministrativo che è anche – come lo è stato già nell’interregno di due anni dalla caduta di Saddam Hussein – un federalismo economico, basato sulla devolution. Già oggi infatti, per accordo tra l’Amministrazione americana e le forze politiche irachene, le risorse petrolifere sono non centralizzate, ma ripartite in tre diverse aree geografiche con parametri concordati. Un federalismo tanto effettivo da costituire oggi proprio il motivo centrale delle lungaggini – un po’ "all’italiana" – della trattativa tra la lista degli sciiti (Aui) appoggiata dall’ayatollah Ali al Sistani (140 seggi su 275) e la lista unitaria dei curdi (75 seggi) per la formazione dei vertici del nuovo Stato.
L’accordo politico già siglato prevede la presidenza della Repubblica per il curdo del Puk Jalal Talabani e la guida del governo per lo sciita del Dawa Ibrahim Jaafari. Il problema della partecipazione dei sunniti è avviato a soluzione con la probabile nomina dell’ex capo dello Stato, Ghazi al Yawar (5 seggi), alla presidenza della Costituente e di un numero di ministri sunniti proporzionale ai potenziali elettori e non ai voti effettivamente da loro espressi. Resta però aperto il problema del ruolo dell’attuale premier sciita Iyyad Allawi (40 seggi). Il vero terreno di discussione programmatica non riguarda ora il ruolo della sharia, che non sarà affatto "alla base della Costituzione", per uno specifico veto dei partiti curdi e per l’esigua rappresentanza parlamentare di deputati confessionali, anche tra gli eletti nella lista sciita, che conta una maggioranza di laici.
I problemi ancora da risolvere, che hanno fatto slittare la proclamazione dell’accordo a dopo il Nowruz, il capodanno curdo (il 21 marzo), riguardano invece sempre Kirkuk e la destinazione delle milizie di partito, soprattutto curde. Kirkuk vuol dire petrolio, vuol dire quote di devoluzione contata in milioni di barili di petrolio al giorno, vuol dire anche un simbolo d’identità etnica diviso tra curdi (che la vorrebbero capitale dello Stato federale del nord), arabi e turcomanni.
Si è compreso che i problemi sono tanto intricati che – nella bozza di accordo tra sciiti e curdi – sono stati demandati all’assemblea, ma ora si registrano difficoltà, per la prima volta, in campo curdo. Mentre Jalal Talabani si accontenta di un vago accordo quadro, Massoud Barzani, leader del Pdk, che dovrebbe presiedere la regione a maggioranza curda, pretende già oggi forti garanzie su Kirkuk curda. Barzani rappresenta tutte le contraddizioni del movimento curdo, passato col Pdk, fondato da suo padre Mulla Mustafa Barzani, per sessant’anni attraverso tutte le alleanze possibili e immaginabili (con l’Urss, la Cia, Reza Pahlevi, Saddam Hussein, di nuovo gli Stati Uniti), che ogni volta si tramutavano in guerre con gli stessi alleati (inclusa una guerra civile con il movimento di Talabani). Per questa ragione, anche la destinazione degli 80 mila peshmerga curdi armati non è secondaria per le altre forze politiche irachene. Si lavora quindi a un loro scorporo, con la richiesta sciita di destinarne quantomeno la metà alle Forze di sicurezza nazionali, in modo da diluirne la compattezza, per non avere un’armata curda a presidio delle regioni settentrionali. Elemento questo che allarma molto anche Ankara, che teme riflessi destabilizzanti nel suo Kurdistan, sicuramente molto attratto dallo statuto federale dei connazionali curdi iracheni, e che viene considerato con preoccupazione forte soprattutto dalla Siria e dall’Iran, che hanno risolto la loro questione irachena con l’occupazione militare e con crudeli guerre locali.
Da pagina 3 riportiamo l'editoriale "Wolfowitz mondiale", che spiega il significato politico dell'arrivo di Paul Wolfowitz alla Banca Mondiale:La seconda gamba della strategia di politica estera della Casa Bianca passa attraverso la decisione di inviare Paul Wolfowitz alla presidenza della Banca Mondiale, l’istituzione internazionale che ha come obiettivo la riduzione della povertà. Wolfowitz lascia il Pentagono perché lavorare con Donald Rumsfeld non è certo uno dei lavori più facili di Washington. Ma non si tratta di un semplice avvicendamento di un vice ministro. Wolfowitz è l’architetto dell’intervento liberatore in Iraq e della teoria del contagio democratico in medio oriente, non uno qualsiasi. Non si è mai occupato direttamente né di economia né di affari. Che cosa ci va a fare, dunque, alla Banca Mondiale? I bushiani hanno in mente di riformare radicalmente la World Bank, trasformandola da istituto finanziario, qual è oggi, in super ente donatore che conceda "grants" e non "loans", sovvenzioni a fondo perduto invece che prestiti, i cui interessi poi impediscono ai paesi debitori di camminare con i propri piedi. C’è anche l’idea di vincolare l’assistenza e gli aiuti internazionali alle riforme democratiche, sul modello del Millennium Challenge Account, la legge di aiuti internazionali approvata da Bush nel primo mandato. L’arma pacifica degli aiuti economici è la più potente, come ha dimostrato il recente caso egiziano. Quando Condi Rice ha minacciato di non versare i consueti 2 miliardi di dollari annui, il dittatore Hosni Mubarak ha subito concesso le elezioni multipartitiche e liberato il suo oppositore democratico.
Da pagina 2, "Lucia conosce l'America, ma non vuol darlo a vedere", recensione di Christian Rocca all'ultimo libro di Lucia Annunziata (La sinistra, l'America e la guerra, Mondadori):Lucia Annunziata ha sfiorato il capolavoro con "La sinistra, l’America, la guerra" (Mondadori). Se solo fosse letterariamente più accattivante, se solo contenesse meno errori, se solo proponesse tesi più originali e se fosse ancora più breve di quello che è, bè, l’agile libretto potrebbe essere un buon editoriale. Lucia Annunziata ci scuserà per il brusco giudizio, sa quanto le vogliamo bene, ma l’ex presidente della Rai non è una giornalista qualsiasi, è una delle più celebrate analiste di politica estera del nostro paese, al punto da essere stata appena scelta da Claudio Velardi, con il patrocinio della Farnesina finiana, per guidare un "comitato scientifico" di addestramento professionale a venti giornalisti iracheni. L’opera di Lucia Annunziata non va liquidata con un incenso preventivo né con un applauso di garanzia, merita piuttosto una lettura critica del suo libro. Lucy, per intenderci, è come Alex Del Piero, categoria dei fuoriclasse. Dai fenomeni ci si attende sempre il colpo di genio, il pallonetto a giro che si insacca proprio dove incrociano i legni o, quantomeno, un saggio sul mondo post 11 settembre in cui il World Trade Center non sia chiamato, per due volte, "Trade World Center". Gli editor mondadoriani non le hanno reso un gran servizio: nella seconda di copertina hanno scritto di "un voto iracheno del febbraio 2005" quando, come è noto, si è tenuto il 30 gennaio. A proposito della vittoria elettorale di George Bush, le note di copertina dicono che l’autrice "giunge a una risposta personale e controcorrente: a vincere non sono stati i Valori, come vorrebbero i pensatori neocon, ma la Guerra". Ora, tutti sanno che i neocon sostengono proprio che sia stata la guerra, e non i valori, a far vincere Bush e in realtà lo sa anche la Annunziata, infatti basta leggere il suo saggio per averne conferma: Lucy imputa l’abbaglio sui "valori" non ai neocon, come le fanno dire alla Mondadori, ma ai liberal, alla sinistra che continua a non capire che cosa sia successo l’11 settembre. Da qui a dire che la risposta di Annunziata sia "personale" e soprattutto "controcorrente" ce ne corre: saranno usciti quei trecento articoli esattamente su questo punto mentre, a urne americane ancora aperte, un piccolo giornale d’opinione titolò così: "Netta affermazione del presidente che taglia le tasse e fa la guerra". La tesi interessante del libro di Annunziata è quella contenuta nel paragrafo "Il complotto", ove la giornalista svela i pregiudizi antiamericani di chi vede cospirazioni ovunque e accusa gli "esigui strumenti intellettuali della sinistra" che sostituisce sempre di più "le proprie speranze con la realtà". Qualche errorino c’è anche in questo paragrafo. Scrive Annunziata che Bush ama ripetere "metafore di rinascita religiosa" (verissimo) ma "i ripetuti riferimenti alla Città sulla Collina" non sono affatto
di Bush. Quella è una delle frasi rese famose da Ronald Reagan, peraltro presa in prestito da un avo di John Kerry: John Winthrop, il primo governatore del Massachusetts. Quanto all’altra citazione religiosa attribuita a Bush, "Mille luci", qui al Foglio non l’abbiamo mai sentita ed è probabile che ci sia sfuggita, ma così, a orecchio, ci pare più il titolo in italiano di un libro di Jay McInerney che un riferimento mistico. Non convince nemmeno il giudizio su Bush, il quale "forse da Richard Nixon in poi" sarebbe "il presidente più odiato". Secondo Annunziata, "raramente qualche altro politico ha attratto tanta irrisione e tante denunce". Bè, per Bill Clinton non sono state rose e fiori. Ancora: è verissimo che la campagna elettorale presidenziale sia stata "formidabile" quanto a costi, un po’ meno
vero è che siano stati investiti "ben 3 milioni di dollari", a meno che non si riferisse alla quota di spesa giornaliera. L’analisi di Annunziata della campagna elettorale di John Kerry è intelligente, un po’ meno precise le pezze d’appoggio: Kerry non ha scelto "di aprire" la sua convention con il saluto militare, il saluto militare è arrivato all’inizio del discorso finale della convention, quindi in chiusura del congresso (nel corso del libro Annunziata rettificherà). In generale è un po’ tirata per i capelli l’idea di leggere le elezioni americane con le categorie politiche della sinistra nostrana. Funziona come saggio sull’Italia, un po’ meno come analisi dell’America. A volte le cose non tornano. A un certo punto, Annunziata scrive che "la classe operaia non è mai definita tale negli Stati Uniti" (ma "working class", allora che è?), così seziona la società americana per "generi", bianchi, neri, ispanici ma continuando a chiamarli "classe lavoratrice". Non è carino definire "repubblicano" l’editorialista liberal del New York Times, "Nicholas Kristoff", specie se gli viene aggiunta una effe di troppo. Non è vero che Ted Kennedy abbia votato "a favore" della nomina di Condi Rice al Dipartimento di Stato (è stato uno degli 11 senatori ad aver votato contro). Rumsfeld non è un "neocon", mentre Condi Rice non si è esibita al pianoforte "poco prima delle elezioni", ma nel 2002. Ma è una delle frasi finali del libro a convincere di meno. Questa: "Non si può dire che il concetto stesso di libertà sia condiviso nel mondo arabo o musulmano". Gli ultimi eventi pare dimostrino il contrario: ricordarselo quando arriveranno i giornalisti iracheni da addestrare.
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