IL RIFORMISTA di lunedì 14 marzo 2005 pubblica un articolo di Stefano Cingolani sulla politica irachena.
Ecco il testo:Mercoledì si riunisce l’assemblea nazionale eletta dagli iracheni. Ma a sei settimane dal voto si cerca ancora l’accordo generale per sbloccare i veti che finora hanno impedito la scelta dei vertici che guideranno il paese in questa fase di transizione: il presidente, due vicepresidenti e soprattutto il primo ministro. In lizza ci sono l’attuale ministro delle finanze, Adel Abdul Mahadi membro dello SCIRI (Consiglio supremo della rivoluzione islamica in Iraq), il partito islamico fondato in Iran, guidato dall’ayatollah Abdul Aziz Hakim, e Ibrahim Jaafari del partito Dawa. Entrambi sciiti, entrambi ortodossi, entrambi impegnati a fare del Corano l’unica fonte della legislazione. Mahadi, 62 anni, aderì da giovane alla rivoluzione baathista, ma fin dall’inizio si oppose all’ala guidata da Saddam Hussein che prese poi il potere nel partito. Nel 1969 andò a studiare in Francia dove divenne marxista filo-maoista. Non tornò più in patria e ha vissuto gli ultimi 34 anni tra Lione, Beirut e Damasco. Oggi rappresenta il volto «laico» (le virgolette sono obbligatorie) dello SCIRI, vincitore delle elezioni.
Jaafari, nato nel 1947, educato a Mosul dove si laureò in medicina, antico oppositore di Saddam Hussein fuggito prima in Iran poi a Londra, in seguito alla sanguinosa repressione della rivolta sciita alla fine degli anni ’70, è l’uomo politico più popolare (escluso il grande ayatollah Sistani) e in un recente sondaggio viene prima di Moqtada al Sadr il quale, pur odiato da molti e ritenuto troppo radicale, è pur sempre considerato un capo valoroso. Ma non è affatto fuori gioco il primo ministro ad interim Yiad Allawi il quale si è piazzato al terzo posto nelle elezioni. Allawi, tra l’altro, è l’uomo che offre maggiori garanzie a Barzani e Talabani i capi dei due partiti curdi.
L’altra grande difficoltà che per ora ha impedito l’accordo è proprio la questione curda. L’alleanza del nord è arrivata seconda alle elezioni e adesso chiede garanzie. Teme apertamente che, una volta formato il governo, gli sciiti possano usare la loro maggioranza nell’assemblea nazionale, per forzare la mano e imporre una legislazione a loro favorevole, emarginando i curdi e i sunniti.
Sia Mahdi sia Jaafari si sono impegnati a governare cercando il consenso di tutte le componenti della società irachena, compresi i sunniti che hanno boicottato le elezioni. Ma i curdi chiedono un impegno scritto: se il governo si allontana dalla piattaforma concordata, la coalizione si scioglie e il governo automaticamente cade. Il secondo aspetto più controverso riguarda Kirkuk e il suo ampio bacino petrolifero che i curdi vogliono vedere collegato alle province montuose che essi ora controllano. Dietro le quinte resta l’aspirazione alla piena indipendenza, sopita tatticamente, ma che pende come spada di Damocle sull’assetto del nuovo Iraq.
L’accesso ai pozzi e l’autonomia nelle proprie province sono anche le due condizioni che stanno a cuore ai sunniti. E sono emerse con chiarezza nei contatti e nei colloqui con le autorità religiose e con i capi tribù che si sono autonominati portavoce della minoranza. Anche esponenti dei gruppi ribelli, pur non rinunciando alla guerriglia, hanno partecipato di fatto ai negoziati, come ha spiegato in un recente seminario della Brookings Institution, Peter Kahlil che ha lavorato nella autorità provvisoria irachena come direttore della sicurezza nazionale. Le trattative sono molto complicate, perché gli sciiti non vogliono discutere con nessun ex baathista e perché la maggior parte degli attuali combattenti è composta - spiega Kahlil - da membri del Mukhabarat, dei servizi segreti e delle truppe scelte di Saddam.
Gli attentati contro gli sciiti fanno parte di questo sanguinoso braccio di ferro. Tuttavia, dal recupero dei sunniti dipende il successo dell’intero processo costituzionale. Anche perché c’è il rischio che i loro interessi si saldino a quelli dei curdi con l’obiettivo comune di limitare il potere sciita e l’influenza iraniana. Infatti, inutile negarlo, il futuro dell’Iraq e dell’intera regione si lega strettamente al grande gioco persiano.
L’amministrazione Bush lo sa bene. E lo ha capito perfettamente Condi Rice la quale ha fatto nei giorni scorsi un gesto di grande intelligenza politica. Ha offerto all’Iran un deal all’insegna della realpolitik: aiuti economici in cambio della rinuncia al progetto nucleare. La segretario di Stato non si illude che possa venire accolto a braccia aperte a Teheran, ma offre un supporto e uno spazio di manovra al tentativo di mediazione della trojka europea (Francia, Germania e Gran Bretagna). Un segnale di buona volontà non un cambio di strategia che resta sempre ancorata al contenimento dell’Iran, tenendo nella manica la carta più ambiziosa: un regime change, sia pur in modi diversi da quello realizzato in Iraq.
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