Riportiamo un articolo di Sergio Bianchi, arabista e analista dell’Osservatorio Parlamentare, pubblicato (in una versione ridotta) dal SECOLO D'ITALIA di venerdì 4 marzo 2005.
Ecco il testo:
La dottrina Bush sembra aver portato un vento nuovo nel Vicino e Medio Oriente. E’ oramai riconosciuto anche dall’antiamericanismo di professione che, a seguito della guerra in Iraq, sono in atto profondi cambiamenti in quell’area che va dal Caucaso all’Atlante. Non è più il Grande Gioco della vecchia diplomazia coloniale : è un fatto nuovo, un vero, profondo processo culturale, paragonabile a quello che ha smosso il cuore tenebroso dell’Europa all’indomani del 1945, aprendo la nuova stagione dell’Occidente. Per citare Pareto, dovremmo dire che è la storia che si muove, seguendo modelli variabili complessi di carattere ciclico.
La profondità e qualità del processo è misurabile con un paragone : il terrorismo islamico, oltre che l’Occidente, ha colpito anche l’area russa; anche qui, come e più che in Iraq, si spara e si muore ed anche qui la causa nazionale s’intreccia con quella religiosa. Ma vi è una differenza fra i due scenari : in Iraq l’alleanza occidentale ha messo in campo una proposta politica, che offre una speranza, mentre la Russia persegue un progetto militare non accompagnato da processi di riforma incardinati in sistemi internazionali, cosa che le rende sterili e anzi pericolosi in scenari internazionali asimmetrici ma globali.
La Dottrina Strategica di Bush
A differenza dei russi e anche degli europei e prima ancora dei missili, gli americani hanno prodotto un’arma molto difficile da combattere per il terrorismo internazionale : una dottrina strategica. In ogni passaggio epocale la amministrazioni americane hanno saputo esprimere una propria dottrina strategica, fatta di teoria e prassi, sulle cui linee apparentemente semplici hanno intercettato il consenso dell’America profonda, quella cosciente della relazione fra libertà e Patria. Se non si capisce questo non si capisce la logica stessa della politica americana e dei suoi processi di consenso ed identificazione. La burocrazia italiana, specialmente quella ministeriale, ancora molto risorgimentale e machiavellica nel proprio incedere a naso alto, spesso non capisce che la congiunzione fra idee e prassi, fra cultura e politica, è ciò che va al cuore della democrazia : i nodi culturali vanno sciolti, se si vuole il consenso; le bandiere vanno alzate, questo dovrebbe sapere la Destra italiana, riscoprendo la funzione della politica. E’ infatti attraverso una dottrina strategica che un’amministrazione esprime la propria capacità di leadership e la propria responsabilità di fronte al mondo. La dottrina Bush è dunque una chiara assunzione di responsabilità ( segno di leadership ) in uno scenario geostrategico dove la qualità di rischio accettata da una coalizione inserita in un contesto di alleanze internazionali viene condivisa da tutti. Quattro sono i suoi capisaldi, di cui 3 evidenti ed uno sottinteso : l’ammissibilità della guerra preventiva, come estrema ratio per la difesa di interessi strategici e quale risposta all’11/9, che fa dello strumento militare uno degli indicatori essenziali della credibilità ed affidabilità del sistema-Paese nell'ambito delle relazioni internazionali. Ciò ha ovvie implicazioni politiche e spiega, per esempio, la differenza in investimenti militari fra Usa ed Europa; la ‘logica dell’aggancio’, come teorizzata da Natan Sharansky e dai neocon all’epoca di Reagan, secondo cui ‘la più piccola scintilla di libertà appicca l' incendio all' intero sistema repressivo’. Dietro questa dottrina di esportazione della democrazia, che unisce i neocon alla tradizionale politica interventista dei paleo conservatori americani ed inglesi, s’intravede tutta la fede americana nella persona, quale portatore di libertà, così come si registra la fiducia nel lavorio silenzioso del libero mercato. In questo la Vecchia Europa, poco amata da Rumsfeld, ha certo esperienze che invitano alla cautela, perché sa per propria esperienza diretta che non sempre l’emersione del Volk è stata accompagnata da pace e prosperità; infine, l’idea del Grande Medio Oriente, cioè di un’entità politica che ancora non corrisponde né a soggetti geografici e né a entità statali. Qui sta il punto. In questa carta geografica ancora chiusa dove i confini nazionali si perdono nell’indistinto di un’entità sopranazionale ancora da venire. Questa è probabilmente la grande criticità e nel contempo la grande opportunità della dottrina USA.
L’Italia deve capire che presto tutti saremo chiamati a scegliere; è inevitabile, perché quella di Bush è una dottrina dichiaratamente e programmaticamente multilaterale, anzi la multilateralità può essere considerata il suo 4° pilastro : l’aver individuato un nemico asimmettrico ed internazionale pone gli USA naturalmente nella condizione di offrire una risposta internazionale. Ciò che molti paesi non paiono capire nella diatriba futile sull’unilateralismo è che la tutela della sicurezza nazionale assume oggi un'accezione più ampia che include, oltre alla difesa della sovranità nazionale, il concorso alla stabilità ed alla sicurezza internazionale, la legittima salvaguardia e tutela dei nostri interessi nonché la prevenzione dei rischi vecchi e nuovi, ed il contrasto alle violazioni del diritto e della pace. Naturalmente, tale concetto si incardina sempre più nell'azione delle grandi organizzazioni internazionali, che hanno la massa critica corrispondente alla dimensione sopranazionale dell’attacco e la natura trasversale adeguata all’asimmetricità dell’iniziativa avversaria, in particolare l'Unione Europea, l'Alleanza Atlantica e le Nazioni Unite. La domanda non è se gli USA abbiano una dottrina unilaterale, bensì : Hanno queste organizzazioni sopranazionali una risposta all’altezza della sfida ?
All’orizzonte di quest’Europa molto nordica, molto ideologica, molto presa dagli equilibri interni e da processi decisionali macchinosi, con una diplomazia abituata ai passi felpati ed alle allusioni al punto tale da essere scambiati per vecchi e noiosi, l’assunzione di una dottrina è chiaramente un rischio. Decidere, scegliere una visione, è pericoloso. Ma sarà inevitabile nei prossimi mesi ed anni, per tutti, anche per quelle organizzazioni autoreferenziali che si sono adagiate sul fund raising e sono divenute conservatrici rispetto ad una realtà che in molte regioni del mondo richiede cambiamenti.
La Situazione del Grande Medio Oriente
Non occorre essere profeti per capire che tutto questo subirà accelerazioni nei prossime mesi ed anni. Nel mondo arabo, in quello caucasico ed indo-iraniano sono in atto processi culturali nuovi, la cui portata non è recepita nel giudizio politico corrente. La ‘nahdah’, il Risorgimento arabo, è nato all’ombra della frammentazione della Sublime Porta turca e dalla riapertura della cosiddetta ‘bab al igtihad’, la porta dello sforzo interpretativo, con cui i movimenti modernisti hanno cercato di svincolarsi dalle interpretazioni religiose rigide, provando a coniugare fede e sviluppo umano oltre i dogmatismi. E’ l’epoca del grande arabismo italiano, dei Nallino, dei Guidi, di cui un giorno bisognerà ricordarsi, quando scriveremo la prima dottrina strategica europea...
Da allora sono emersi due grandi poli alternati sullo scenario regionale : la fase del panarabismo, la ‘urubiyyah, che ha prodotto i fallimenti delle grandi aggregazioni politiche (Siria-Egitto, Iraq-Siria, etc. ), prima, e le politiche annessionistiche poi, come il ‘Bilad ash-sham’, la grande Siria che fagocita il piccolo Libano; è contemporaneamente la fase panislamica, che dal wahhabitismo attraverso agli Ikhwan musulmani conduce direttamente alle follie di al-qa’idah ed ai sogni di restaurazione califfale. L’epoca dell’onore perduto. Per dirla in termini semplici, i popoli della regione, che pure hanno loro storie, identità e radici differenti le une dalle altre, non hanno mai saputo elevarsi a nazioni e si sono identificati ora con la matrice araba ora con quella islamica. Anche laddove sono riemerse antiche entità nazionali, come nell’Iran o in Afghanistan, queste hanno cercato la loro legittimità in fattori sopranazionali e sono poi state soffocate dal processo storico. Uniche eccezioni a questo quadro sono la Turchia, che ha saputo dividere Stato e Religione e riscoprire la propria dimensione di Patria dal crollo dell’Impero, ed Israele, il popolo della diaspora, che invece dall’identità ebraica è risalito in su ed ha avuto la forza di ritrovare la nazione e la Patria. Due storie esemplari, in un certo senso. Di certo oggi due alleati dell’Occidente.
Il secondo elemento da registrare è che dietro queste ideologie astratte che mitizzano la ‘urubiyyah o la khilafah, si sono fatte avanti piccole minoranze che si sono impossessate del potere : la storia araba del ‘900 è caratterizzata dall’ascesa di organizzazioni militari che presto si strutturano in caste politiche ( come in Egitto, Libia, Iraq, Pakistan, ecc.); che in qualche caso si intrecciano o con piccoli gruppi dalla forte identità religiosa, come gli alawy in Siria, o con clan famigliari e territoriali ristretti, come i tikriti in Iraq o le monarchie ashemite altrove. In altri casi (Iran, Sudan o Arabia Saudita) sono invece i processi religiosi a veicolare il consolidamento del potere delle élites ed il fattore identitario; in tutti i casi però ciò che caratterizza la storia moderna del mondo arabo moderno, e ciò che la differenzia radicalmente dall’Occidente, è che non si è mai realizzato uno sviluppo nè una libertà economica tali da portare alla formazione di una classe borghese, motore di sviluppo dell’identità nazionale e fattore di crescita culturale, soprattutto fattore di rielaborazione religiosa e spirituale su cui fondare la Patria.
La ragione principale della crisi araba è questo scollamento fra ideologie e realtà, fra potere e popolo, questa levantina prassi di celare realtà opprimenti da parte di elites attraverso manipolazioni ideologiche irrealistiche. Con al-qa’idah il corto circuito si è rotto, perché la propaganda del califfato e della crociata, diffusa in funzione egemonica, è stata fatta propria da gruppi spregiudicati e fanatici e si è trasformata in terrorismo internazionale.
L’Europa e Le Incognite
Se ripensiamo alla storia europea delle nazioni, al travaglio che dalla metà dell’800 ha portato agli Stati nazionali, prima, ed al loro riallineamento dopo la caduta degli imperi con il dramma delle due guerre fino all’attuale stato nell’UE, ci rendiamo conto di quanti e quali rischi siano sottesi agli avvenimenti del Grande Medio Oriente che scorrono nella stampa quotidiana. Sarà meglio prendere sul serio Bush quando sostiene che ‘sarà una cosa lunga’.
Visto da dentro, in quest’ottica larga, il processo innestato nella regione è solo l’inizio di una fase molto travagliata che richiederà all’Europa comunque un’assunzione di responsabilità ben diversa dall’odierno zigzagante tatticismo diplomatico.
A ben guardare, in Iraq il processo di stabilizzazione passa attraverso quelle che nel resto del mondo arabo sono minoranze : i curdi e gli sciti, il nord ed il sud. In Libano è la riscoperta dell’alleanza druso – cristiana, due minoranze, che apre le porte alla nazione, come ai tempi dell’emiro Fakhr ad-Din; in Afghanistan è il delicato equilibrio tribale che regge il potere di Kharzai. Minoranze, ancora, come all’indomani dello sbarco dei mille nel regno dei Borboni.
Il fatto vero è che le masse arabe, il cuore oscuro e profondo di quella regione, ancora non sono emerse, non si sono fatte vedere, restano silenziose in attesa del loro momento.
Siamo realisti, come sanno essere gli europei. Forse quando queste masse tireranno fuori la testa per la prima volta, il volto del popolo arabo, fondamento della democrazia e del travaglio nazionale del Grande Medio Oriente, non sarà quello che ci aspettavamo di vedere, né più e né meno come Robespierre non pensava di aprire la strada a Napoleone ed all’Impero. La storia, come la provvidenza, ha le sue vie.
Pensiamo alla Palestina, area dove le minoranze etniche e religiose sono minime e dove non vi sono armi occidentali a proteggere la delicata pianticella della democrazia : i primi assaggi delle elezioni palestinesi, dove ha votato meno del 50% della popolazione, non sono incoraggianti, soprattutto alla luce di ciò che sta emergendo dalle elezioni municipali, dove la forza di Hamas, come contenitore di protesta, appare maggioritaria in una base molto provata dall’Intifadah, dalle parole d’ordine del vecchio regime di ‘Arafat e dal discredito in cui è caduta al-Fatah. Certo, non sarà facile per Hamas governare, gestire, mantenere le promesse, confrontarsi con la realtà del medio periodo, ma noi nel frattempo siamo pronti a supportare un processo di pace in cui a breve la maggior parte dei Governatorati palestinesi potrebbe essere retta amministrativamente da coalizioni che hanno il loro cuore in movimenti politici blacklistati dalla Ue e dagli USA ? L’Occidente si troverà spesso di fronte a questa domanda nel futuro, che è già un dilemma nel Libano dove Amal e Hizb al-Lah sono in Parlamento. Siamo pronti ad appoggiare governi d’ispirazione religiosa, che praticano la discriminazione civile, come in Arabia Saudita o dittature atomiche, come in Pakistan, ‘solo’ perché funzionali alla nostra tattica contingente ? E cosa siamo pronti a fare, a spingerci fin dove, quando Stati cresciuti nelle vecchie logiche del panarabismo e del panislamismo tenteranno di fermare la nascita di nazioni arabe autonome appoggiando il terrorismo, come fa l’Iran con Hamas ? E se questo Grande Medio Oriente si polverizzasse in piccoli Kurdistan o Druzistan ? In fondo non è la prima volta che le migliori intenzioni finiscono in ghigliottina e le lotte di liberazione in occupazioni.
Questa Europa, certo, fa una grande fatica a darsi una propria dottrina strategica. Realisticamente, ancora per molti anni non sarà un fattore militare determinante nella regione, ma già da ora può aiutare il mondo arabo ad affrontare le sfide culturali che lo attendono nel processo di formazione delle nazioni e può aiutare gli USA nel lavoro di stabilizzazione.
Se avremo coraggio questa potrà essere la fase della prima dottrina strategica mediterranea dell’Europa, di chi cioè ha alle spalle un processo di allargamento nell’Est Europeo dove milioni di uomini, molti popoli, molte nazioni, stanno uscendo dall’oppressione comunista e si stanno affacciando alla libertà, al libero mercato, alla democrazia, a nuove relazioni fra storia e modernità, fra religione e stato, fra organismi nazionali ed organismi sovranazionali.
Le future nazioni arabe, iraniane e caucasiche che nasceranno dal travaglio nazionale del Grande Medio Oriente, fra sangue, lacrime e gioia, avranno bisogno di capire come coniugare radici e presente, laicità e religione, modelli di Stato con nazioni, patrie con organismi sopranazionali, libertà economica con solidarietà e coesione sociale. Sono temi che si agitano oltre l’Adriatico, ma anche nodi che hanno fatto parte della nostra memoria recente, dall’800 in poi. Di genesi nazionali Italia, Germania e Francia certo se ne intendono e questa esperienza, questo modello, è una delle fonti a cui attingere nel definire un nuova dottrina europea incardinata nella strategia occidentale.
Se l’Italia ed il Ministro Fini vogliono cooperare alla costruzione di una dottrina mediterranea sul Grande Medio Oriente, questo è oggi probabilmente il terreno a noi più congeniale dove agire, trasferendo a sud modelli ed esperienze fatti ad est, ripensando ai fattori strategici della nostra storia, ai modelli della nostra crescita economica, ai nostri conflitti. E’ qui, nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, più che in Cina o in India, che l’Italia e l’Europa giocano una parte importante del loro futuro.
L’articolo uno della nuova dottrina strategica dunque reciterà così : "L’Europa, pilastro dell’Occidente, ha il proprio destino fra il Mediterraneo ed il Mar Nero".
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