La barriera difensiva serve a salvare vite umane, non ad assetare i palestinesi
contrariamente a quanto scrive una nuova rivista
Testata:
Data: 20/01/2005
Pagina: 42
Autore: Marco Crespi
Titolo: Palestina, il muro della sete
Il primo numero (novembre 2004) della rivista TESEO pubblica un articolo sulla barriera difensiva israeliana, presentata come un mezzo per rubare l'acqua ai palestinesi. Come se il terrorismo e gli attentati suicidi non fossero mai esistiti e non bastassero a spiegare la necessità della barriera per Israele.
Un passo falso iniziale per una rivista che ci auguriamo scelga in futuro la strada di un' informazione corretta ed equilibrata.

Ecco l'articolo:

La storia è piena di muri. Quello che più è rimasto impresso nella memoria contemporanea è sicuramente il muro di Berlino che ha accompagnato tutta la guerra fredda, fino a diventarne il simbolo. Da un lato l’occidente con il suo capitalismo schiacciante, dall’altra lo spettro di un comunismo arroccato, in sempre maggiori difficoltà.
Crollato quel muro, oggi ne sorge un altro in Palestina, non lontano dall’Europa riunificata. –non è facile stabilire se è uno strumento di divisione o di difesa, come dichiarano i suoi costruttori.
Sembra più corretto chiamarlo di segregazione,
Non è facile stabilire se il muro è "uno strumento di divisione o di difesa ", sembra più "corretto"chiamarlo di "segregazione" ! Com’è possibile arrivare a questa conclusione se nemmeno si sono prese in considerazione le ragioni di chi sostiene che il muro sia uno strumento di difesa? E’ poi facile stabilire che il "muro" israeliano (che solo per il 3% circa della sua estensione è in muratura e dovrebbe dunque essere più correttamente chiamato barriera difensiva) ha una finalità difensiva,dato che ha ridotto del 90% il numero degli attentati suicidi in Israele.
Inoltre gli israeliani hanno dichiarato più volte che il muro non è un confine. Serve dunque,certamente anche a dividere, ma lungo linee provvisorie

perché è un progetto unilaterale,
uno strumento, (l’ennesimo) che il governo del premier israeliano Ariel Sharon sta usando per rinchiudere in uno spazio limitato un intero popolo che chiede un suo stato.
Costruire una gabbia non è semplice, ma si può fare.
La frase è a effetto, ma totalmente falsa: la barriera di separazione non è una gabbia: nessuno costruisce gabbie con tre lati liberi !

Purtroppo, il muro sarà anche peggio di una gabbia, per la Palestina. Così come è stato progettato, controllerà e influenzerò la vita di un popolo attraverso la risorsa che è considerata, a livello internazionale, la più importante per la vita di un uomo:l’acqua.


Una costruzione illegale

Lo scorso nove luglio la Corte di giustizia internazionale dell’Aia, emanazione giudiziaria dell’Onu, ha emesso una sentenza, con solo valore di indirizzo, dal titolo "Conseguenze legali della costruzione di un muro in Palestina". La richiesta dell’opinione della Corte viene direttamente dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, perché, nel caso della costruzione del muro, il Consiglio di sicurezza non è stato in grado di adottare risoluzioni a causa del voto negativo di un membro permanente.
La Corte di giustizia ha dichiarato che il muro costruito da Israele è illegale.
"Il muro, insieme con il percorso scelto – si legge nella sentenza –viola in modo grave una serie di diritti dei palestinesi che vivono nei Territori Occupati dagli israeliani. Violazioni che non possono essere giustificate da esigenze militari o richieste per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico".

Questa prima citazione della sentenza dell’Aia è anche quella più importante: come mai vi si legge che il "muro"in quanto tale "insieme"con il suo percorso viola i diritti dei palestinesi? Perché la sentenza dell’Aia in realtà prescinde nel suo impianto da questioni di confine: afferma, semplicemente che come "potenza occupante" Israele è responsabile del benessere dei palestinesi dei territori. Poiché il muro compromette questo benessere è illegale. Israele ha il diritto è il dovere,prosegue la sentenza di difendere i suoi cittadini dagli attacchi terroristici,ma non può farlo nel modo in cui uno stato si difende da un attacco proveniente da un altro stato. Gli attacchi sono invece una questione "di ordine pubblico", e la sentenza contiene addirittura un richiamo a Israele circa le sue responsabilità rispetto a crimini che avvengono in un territorio da essa controllato.
Di fatto però,gli attacchi terroristici si sono prodotti a partir da un territorio nel quale era insediato l’embrione di uno stato,l’Anp, e non erano crimini comuni,ma atti di guerra terroristica contro Israele. Quando Israele ha proceduto contro i capi terroristici come contro criminali comuni come nel caso di Marwan Barghouti, il diritto internazionale è stato invocato per dichiarare illegittimo l’arresto e la detenzione di politici stranieri.
La sentenza dell’Aia, in altri termini, fa parte di un complesso di interpretazioni del diritto internazionale che,semplicemente, negano a Israele il diritto di difendersi da un’offensiva terroristica senza precedenti nella storia, mirante alla sua distruzione. E’, come ha scritto Carlo Panella sul Foglio, una fatwa a favore del terrorismo e verrà prima o poi ricordata come una pagina di vergogna nella storia del diritto internazionale.

Il documento si conclude parlando di "violazioni da parte di Israele di diversi obblighi di applicazione delle leggi umanitarie e dei diritti umani". A questa sentenza è seguita, il 20 luglio, una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La risoluzione è stata approvata con il voto favorevole di centocinquanta stati, sei voti contrari (tra cui Israele e gli Statti Uniti) e dieci astenuti.
Israele, sottolineando ancora la pericolosità del terrorismo, non cambia rotta. Dopo la risoluzione, il diplomatico vicino a Sharon Ranan Gissin ha affermato: "La costruzione del "muro" andrà avanti. Israele non cesserà di realizzarlo né rinuncerà al proprio inalienabile diritto all’autodifesa".
Ma la conclusione dell’Onu è netta: la "barriera difensiva" tra Israele e Cisgiordania deve essere smantellata: le altre nazioni sono invitate a non riconoscere la situazione illegale che deriva dal muro stesso, evitando di fornire aiuti e assistenza.
Analizzando le leggi internazionali la corte di giustizia ha definito applicabile, nei Territori Occupati, la convenzione di Ginevra del 1949 per la protezione dei civili in tempo di guerra. In particolare, in quei territori palestinesi che, prima del 1967, stavano a est della linea di demarcazione nata dall’armistizio del 1949 (la Linea verde) e che, in quello stesso conflitto, sono stati occupati dagli israeliani.
La Corte ha accertato che la costruzione del muro ha violato la Convenzione analizzando, in primo luogo il percorso stabilito da Israele. Da questo studio si evidenzia che almeno l’80% degli insediamenti di coloni nei Territori Occupati è posizionato tra il muro e la Linea verde e vi si trovano in violazione delle leggi internazionali.
E’ uno dei primi nodi della questione: attraverso la costruzione del muro, Israele sta cercando di assumere il controllo di zone dove aveva già insediato le sue colonie.
Inoltre la sentenza sottolinea che "la costruzione del muro impedisce l’esercizio all’autodeterminazione del popolo palestinese,
Israele non sta cercando di assumere il controllo di nulla, perché il "muro" non è un confine politico ed’è provvisorio. Perché mai poi dovrebbe essere un ostacolo all’"autodeterminazione dei palestinesi?
impedisce il diritto al lavoro, alla salute, all’educazione, a un adeguato livello di vita come richiesto dalle carte internazionali sui diritti umani".

La proibizione della costruzione della barriera toglierebbe irrimediabilmente agli israeliani il diritto a non essere assassinati e alla legittima difesa.
Al lavoro, alla salute e all’adeguato livello di vita dei palestinesi potranno,se vorranno, provvedere i loro molti amici,dai paesi arabi ai "pacifisti" europei.
Nessuno invece, può riportare in vita le vittime di una strage terrorista.

Infatti il muro taglia in due diversi villaggi palestinesi, divide popolazione e servizi, popolazione e campi coltivati, villaggi e pozzi, pozzi e campi.
Nella barriera difensiva esistono passaggi che permettono ai contadini di raggiungere il loro campi e loro pozzi.
Già solo il problema dei pozzi è fondamentale per capire la linea del governo israeliano. I pozzi significano acqua e l’acqua significa agricoltura, salute, sviluppo.
Il progetto di costruzione del muro nasce nel 2000 con l’ex primo ministro Ehud Barak (laburista)
A metà del 2002 inizia, da Jenin, la confisca delle terre e lo sradicamento degli alberi sul tracciato definito per il muro. Escono le prime mappe del tracciato pubblicate dall’esercito israeliano.
La "storia"della barriera qui presentata salta a piè pari l’offensiva terrorista che ha insanguinato Israele fra il 2000 e il 2002, con lo scopo di far apparire un atto di difesa una strategia di dominio

Tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003 i lavori procedono e il governo israeliano annuncia alcune variazioni di percorso, richieste principalmente dal Consiglio dei coloni e finalizzate a includere nello Stato di Israele alcuni insediamenti in territorio palestinese.
Altre variazioni di percorso sono state decise dopo ricorsi di abitanti di villaggi arabi per tenere conto dei loro interessi. La Corte suprema di Israele ha stabilito che il percorso della barriera difensiva deve essere modificato tenendo conto delle esigenze umanitarie dei palestinesi,il governo ha accettato la sentenza, come la legge, per altro, lo obbligava a fare
Sempre nel marzo 2003 Sharon annuncia l’espansione del muro alla Valle del Giordano.
Zona ricca d’acqua diventa questa una un punto fondamentale nella politica di isolamento verso questo popolo.
La barriera difensiva riguarda solo quella parte di Valle del giordano che separa la Cisgiordania dal Nord di Israele: la sua finalità è anche in questa zona dunque di sicurezza, non di accaparramento delle risorse idriche

Nel luglio dell’anno scorso viene completata quella che è definita la "prima fase" del muro Un tracciato di 145 chilometri che si snoda da Jenin a Qalqilia, nella parte Nord occidentale del paese. Durante questa prima fase, oltre a distruggere villaggi

La costruzione della barriera non ha comportato la distruzione di villaggi



o separarli dalle terre coltivate, Israele ha confiscato diversi pozzi d’acqua per la costruzione del muro e della zona cuscinetto (tra il muro e la linea verde).
Non è chiarita la differenza tra una confisca temporanea e risarcita e un esproprio permanete. Israele ha effettuato solo confische,e solo nei casi di stretta necessità


L’intero percorso, lungo in tutto 730 chilometri e che non segue i confini esistenti sino a prima del 1967, crea notevoli difficoltà. Alcune valutazioni del Pengon (palestinian environmental NGO’s Network) mostrano come il 16% dei palestinesi saranno costretti a vivere al di fuori del muro in quelle aree, come sottolineato dalla Corte dell’Aia, de facto annessa a Israele. L’esistenza di quella zona che viene chiamata cuscinetto, si traduce per i palestinesi nell’obbligo di ottenere un permesso per poter rimanere nelle loro case, coltivare le loro terre, utilizzare i propri pozzi.

L’impatto sulle risorse idriche

Quindi, il tracciato del muro non è casuale. Solo analizzando la mappa della prima fase di costruzione del muro ci si può rendere conto di quale sia il reale impatto.
Tutto pare finalizzato ad assicurare allo Stato di Israele il controllo delle risorse idriche e delle terre . l’importanza dei bacini d’acqua e delle falde acquifere nella progettazione di questa "barriera difensiva" viene evidenziato da uno studio del Gruppo Idrogeologico Palestinese (PHG).
La falda acquifera occidentale è la più rilevante risorsa idrica in quella che viene definita la Palestina storica. Oltre al fiume Giordano, è la principale risorsa per la vita e per le attività agricole della regione e si posiziona sotto Jenin, Tulkarem e Qalqilia. Anche per Israele le risorse idriche principali sono rappresentate da questa falda nei Territori Occupati e da quella costiera nello Stato di Israele. Quella costiera è però così bassa da essere irrimediabilmente contaminata dall’acqua salata del Mediterraneo. Questa falda è quindi composta di acqua imbevibile e inutile per l’irrigazione. L’attenzione quindi è maggiore per la falda acquifera di montagna (chiamata falda di montagna). Il secondo giorno dopo l’occupazione del 1967 della Cisgiordania, i militari israeliani vietarono qualsiasi sviluppo dell’apparato di sfruttamento delle risorse idriche, qualsiasi nuova trivellazione e infrastruttura in quella zona a meno di ottenere un permesso speciale all’ufficio per l’acqua gestito dai militari. Dai dati presentati dal PHG nessun permesso è mai stato rilasciato.
Questo comportamento ha un significato ben preciso. I villaggi palestinesi in Cisgiordania si trovano nella parte alta delle falda acquifera mentre quelli israeliani nella parte bassa. Vietare ai palestinesi l’utilizzo di questa falda significa assicurarsi una maggiore quantità e qualità d’acqua in quella bassa Da una posizione favorevole i palestinesi si sono trovati in una posizione di difficoltà e sudditanza".
Le trivellazioni avvengono in realtà dal versante israeliano della linea verde, che è la zona posta più in basso, nemmeno i coloni possono farne. Ciò perché Israele, che fornisce l’acqua anche ai territori, anche alle città che non pagano il servizio, effettua le trivellazioni nei punti più convenienti, proibendo nuove trivellazioni che diminuirebbero la disponibilità d’acqua complessiva e avrebbero una scarsa resa.
La gestione delle fonti idriche da parte degli israeliani segue attualmente le più avanzate nozioni idrogeologiche: una fonte non viene sfruttata troppo e troppo in fretta per non essere resa inutilizzabile. I palestinesi non seguono questi criteri, lo sfruttamento dei loro pozzi provoca fenomeni di salinizzazione. Va detto inoltre che con gli accordi di Oslo israeliani e palestinesi avevano raggiunto un accordo sull’estrazione dell’acqua, saltato con il fallimento del negoziato di Camp David. Da allora i palestinesi hanno sistematicamente estratto dai loro pozzi molta più acqua di quella prevista dagli accordi

Come ha scritto Ariel Sharon nella sua autobiografia "la gente considera il 5 giugno 1967 come la data d’inizio della guerra dei sei giorni, ma in realtà la guerra è iniziata due anni e mezzo prima. La data reale è rappresentata dal giorno in cui Israele decise di agire contro la variazione del corso del fiume Giordano. Mentre il conflitto sui confini tra noi e la Siria aveva un importante significato politico, il problema della deviazione del corso delle acque rappresentava seriamente una questione di vita o di morte.
Un dettaglio maggiore sui dati di consumo fa capire la portata del controllo delle acque Mentre la Palestina ha la maggior disponibilità e potenziale accesso alle riserve di acqua del paese, l’utilizzo reale è nettamente inferiore a quello di Israele. Il consumo pro capite di acqua è vicino ai 344 metri cubi all’anno per un israeliano quando in Palestina è di 93 metri cubi all’anno.
Per l’utilizzo domestico le stime sono di 98 metri cubi all’anno in Israele, di 56 metri cubi all’anno in Giordania ed i soli 34 nelle zone urbane della Palestina. In alcune zone rurali palestinesi questo valore non supera i 110 metri cubi all’anno. Questo porta a un utilizzo medio giornaliero di 270 litri per Israele, 153 litri per la Giordania e 93 litri per la Palestina anche se, denuncia il PHG, il consumo giornaliero attuale di una persona che abita in alcune zone urbane delle Palestina è di circa 50 litri.
Dato impressionante se si considera che è la metà della necessità basilare stabilita dall’organizzazione Mondiale per la Salute.


Questi dati provengono da un ong palestinese, politicamente orientata. I dati dell’ufficio centrale di statistica palestinese non sono accessibili al pubblico se non in minima parte e su temi specifici. Va poi ricordato che la percentuale di palestinesi impiegati nell’agricoltura è sensibilmente diminuita negli ultimi anni, anche per la nascita della burocrazia dell’Anp, mentre crescono le attività agricole negli insediamenti.


Nelle zone interessate dalla costruzione della prima fase del muro i pozzi, costruiti negli anni 60, sono i seguenti: Qalqiliya con 75 pozzi, 67 pozzi a Tulkaerm e 84 pozzi a Jenin. La costruzione del muro lascerà molti pozzi tra il muro stesso e la Linea Verde. In particolare, 37 pozzi tra Qalqiliya e Tulkarm sono a rischio di utilizzo.
75 + 67 + 84 = 226. Dei quali 37 a "rischio di utilizzo", il che significa, come abbiamo visto, al di là della barriera, ma raggiungibili dai contadini palestinesi.
Se l’obiettivo assegnato ai progettisti israeliani è quello del controllo delle risorse idriche palestinesi, Sharon dovrebbe licenziarli in blocco! Si deve poi tener conto del fatto che tra i pozzi palestinesi e i campi esistono delle condutture che passano sotto la barriera, l’acqua non viene trasportata dai muli!


Anche dove l’estrazione di acqua sia permessa, la barriera israeliana causa delle difficoltà di trasporto che possono portare a un aumento dei prezzi dell’ordine del 80%".


Possono, o, meglio, avrebbero potuto, perché, di fatto, ciò no è avvenuto


Inoltre, di questi 37 pozzi, 22 non sono accessibili alla popolazione trovandosi al di là del muro mentre 15, pur essendo accessibili, risultano difficilmente utilizzabili perché erano stati costruiti per irrigare terre che ora si trovano nella zona tra il muro e la Linea verde. I punti critici riassunti dal Gruppo Ideologico sono: isolamento dei pozzi dalle comunità; isolamento dalle terre coltivate; distruzione dei pozzi; distruzione delle condutture; inacessibilità ai pozzi sia da parte delle comunità che da parte dei camion per il trasporto dell’acqua; distruzione delle cisterne. Si stima che il 37% delle famiglie dipendenti da questi pozzi sia ora senza alcuna risorsa idrica e che il 50% delle terre irrigate sarà completamente isolato. Inoltre, circa il 5% di queste terre verrà distrutto per la costruzione del muro.

Una politica che viene da lontano

Diventa quasi esplicito, seguendo i dati, quali siano le reali motivazioni delle scelte sul tracciato del muro: il problema dei coloni da un lato; la guerra dell’acqua dall’altro. Con la creazione di Israele iniziarono i progetti nazionali per il controllo delle risorse idriche. I progetti finalizzati a portare in quest’area gli ebrei , sparsi in tutto il mondo per motivi tristemente noti, portarono alla crescita della popolazione. Ciò ha significato unitamente all’aumento dello standard di vita, un incremento di domanda di acqua da parte degli israeliani. E’ così che la gestione delle falde acquifere è diventato una priorità politica. L’interesse per la falda acquifera occidentale, ovvero l’area con maggior potenziale come risorsa di acqua freatica, ha da sempre rappresentato l’emblema della politica di sviluppo israeliana. Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso la Palestina ebbe un incremento della produzione agricola dovuto proprio alla disponibilità di acqua e alla possibilità di un suo utilizzo. Come già detto, la costruzione di nuovi pozzi fu vietata nel 1967. Di conseguenza, quelli esistenti risalgono a quegli anni. Questo ha portato ad un continuo degradarsi della situazione idrica di questo popolo a cui la costruzione del muro darebbe il colpo di grazia. L’opera non si accorda con i confini stabiliti dai trattati internazionali e sia la Corte dell’Aia sia l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo ribadiscono chiaramente. Includere dalla loro parte del muro tutte le zone idricamente più rilevanti significa ridurre drasticamente l’acqua a disposizione della Palestina, con drammatiche conseguenze sull’ambiente, sulle attività agricole e sulla salute del popolo. Proprio per questi motivi la corte Internazionale di Giustizia dell’Aia e, come conseguenza, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si sono schierate contro la costruzione del muro.
Come la sentenza del tribunale dell’Aia, anche la risoluzione dell’Assemblea non è vincolante. Rappresenta soltanto un invito, per Israele e per tutte le nazioni che si riconoscono in questo organismo internazionale, a considera quali azioni possono rendersi utili per porre fine alla situazione di illegalità risultante e al regime che ne deriva.
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