Abu Mazen deve combattere il terrore, Israele lo aiuterà con il ritiro da Gaza
forum con l'ambasciatore d' Israele in Italia
Testata:
Data: 20/01/2005
Pagina: 12
Autore: la redazione - Umberto De Giovannangeli - Ehud Gol
Titolo: Abu Mazen dimostri coraggio e fermi l'odio contro Israele
L'UNITA' di giovedì 20 gennaio 2005 pubblica un'intervista della redazione, a cura di Umberto De Giovannangeli, a Ehud Gol, ambasciatore d'Israele in Italia.
Osserviamo, nota marginale del nostro giudizio su un'iniziativa giornalistica certamente lodevole, l'insistente tentativo di far condannare da Gol la guerra in Iraq, che ha spinto il diplomatico israeliano a ricordare a i suoi interlocutori quello che già avrebbero dovuto sapere: che lui non è l'ambasciatore americano, cui sarebbe stato molto più appropriato rivolgere domande sul conflitto iracheno.
Ecco il testo:

«Abu Mazen dovrebbe trarre insegnamento dalla grande lezione di Ben Gurion: nel 1948, il fondatore dello Stato d’Israele ebbe il coraggio e trovò la forza per imporre un governo, un esercito, uno Stato. Ora al nuovo presidente palestinese noi chiediamo di avere il coraggio di imporre la propria autorità e di lanciare l’unico segnale che Israele attende per rilanciare il negoziato di pace: disarmare le milizie palestinesi, porre fine al terrorismo e all’incitamento all’odio contro Israele e il popolo ebraico». È un concetto su cui Ehud Gol, ambasciatore d’Israele a Roma, ritorna più volte nel corso del forum con l’Unità, introdotto dal direttore Furio Colombo.
Ringraziamo l’ambasciatore Gol per aver accettato il nostro invito e gli chiederei di iniziare inquadrando il momento cruciale delle vicende mediorientali.
«Quella che si è aperta è una fase ricca di possibilità ma che presenta anche molti problemi. Questa fase si è aperta con le elezioni palestinesi e la vittoria di Abu Mazen. Per la prima volta nel mondo arabo si svolgono elezioni con un carattere democratico. C’è da chiedersi perché sia potuto accadere che siano stati proprio i palestinesi a praticare un processo democratico estraneo al resto del mondo arabo...».
E qual è la sua risposta?
«La mia risposta è molto semplice: forse è la vicinanza con lo Stato di Israele, e cioè con l’unica democrazia esistente nella regione mediorientale. In questo caso direi che c’è stata una "contaminazione" positiva. A ciò si aggiunga che Abu Mazen ha ottenuto una vittoria con il 62% dei consensi, il che gli dà la legittimità necessaria per intraprendere azioni».
Qual è l’idea che Israele ha del nuovo presidente palestinese?
«Abu Mazen non è una persona nuova nel gioco politico: è da quarant’anni in Al-Fatah e ha iniziato la sua presidenza praticamente già un giorno dopo la morte di Arafat. Arafat è stato per quarant’anni il leader dell’Olp, il capo dei palestinesi. Sono stati quarant’anni di dispotismo, di sangue e di terrore, di guerra contro Israele, interrotti solo dalla breve parentesi degli accordi di Oslo-Washington (1993, ndr.). Gli ultimi quattro anni della leadership di Arafat, gli anni della seconda Intifada, sono stati anni orribili per noi israeliani ma anche per il popolo palestinese».

Lei ha più volte insistito sulle sofferenze subite dal popolo palestinese per le scelte di Arafat.
«È così. Se dovessimo chiedere ai palestinesi se la loro condizione di vita sia migliorata o peggiorata quattro anni dopo l’inizio dell’Intifada dei kamikaze, il 99% risponderebbe che la vita è peggiorata e di molto. Che la situazione del popolo palestinese è oggi orribile per la politica irresponsabile condotta da Arafat. Senza Arafat si apre una grande opportunità».
Su cosa fonda questo suo ottimismo?
«Sulla scomparsa di una figura totalmente negativa come era quella di Arafat ma anche su altre considerazioni che riguardano direttamente Israele: mi riferisco in particolare alla coraggiosa decisione assunta dal premier Sharon di procedere, entro il 2005, al disimpegno da Gaza. Sharon ha deciso di procedere su questa strada anche pagando il prezzo di una crisi di governo e di una spaccatura nel suo partito, il Likud. Sharon aveva i numeri in Parlamento per governare con "comodità" ma lui non ha voluto piegarsi all’immobilismo, non si è accontentato di mantenere lo status quo. La formazione del nuovo governo di unione nazionale è l’espressione della volontà di due veterani della politica israeliana, Ariel Sharon e Shimon Peres, di anteporre agli interessi dei loro partiti quelli del Paese, e gli interessi di Israele portano oggi alla dolorosa decisione di evacuare i coloni da Gaza. Su questa assoluta priorità è nato il governo Sharon-Peres, perché non è possibile rimanere con 8mila coloni a Gaza, occupare il 30% della Striscia quando nella stessa Striscia di Gaza vivono 1,5 milioni di palestinesi.Questo ritiro è per noi necessario anche se comporta gravi rischi, come dimostrano i continui lanci di razzi Qassam non solo contro insediamenti ma anche contro città, come Sderot, che sono in territorio israeliano. a soli seicento metri dal confine con la Striscia di Gaza. Questi rischi sono evidenti anche dagli attacchi suicidi di questi giorni, ma nonostante tutto questo la determinazione di Sharon a attuare il ritiro entro il novembre 2005 non verrà meno, con o senza il contributo della nuova leadership palestinese».
Israele ha già avuto modo di confrontarsi con Abu Mazen quando era alla guida del governo dell’Anp.
«Allora, due anni fa, Abu Mazen concluse molto poco, ma allora ha dovuto fare i conti con l’influenza negativa di Arafat. Oggi Arafat non c’è più. C’è solo Abu Mazen, e c’è il 62% dei palestinesi che hanno scommesso su di lui e sulla sua dichiarata volontà di porre fine al caos armato nei Territori e alla pratica terroristica...».
Questa è la volontà, ma ne avrà la forza?
«La forza sul campo è rappresentata da 30mila poliziotti palestinesi in armi. Sia chiaro: Israele non ha interesse a che si scateni una guerra civile tra la polizia palestinese e la galassia dei gruppi terroristi. Tra la guerra civile e un immobilismo imbelle se non connivente, esistono altre opzioni su cui Abu Mazen deve lavorare. Agire contro i violenti non è un favore che Abu Mazen fa a Israele, ma è l’unica strada per alleviare la sofferenza del popolo palestinese».
Resta la determinazione di Israele ad agire anche unilateralmente per porre fine alla propria sofferenza.
«Nei quattro anni di Intifada, Israele ha pagato un prezzo altissimo nel combattere una guerra che non ha mai voluto ma che è stata imposta dai terroristi. In quattro anni, più di 1025 israeliani, in grande maggioranza civili inermi, sono stati uccisi dai terroristi. Una cifra enorme per un Paese piccolo come il nostro. La barriera di sicurezza nasce dalla volontà di difendere i nostri cittadini. E i risultati ci danno ragione: la costruzione della barriera ha contribuito in misura notevole a contrastare l’azione dei terroristi e a diminuire sensibilmente il numero delle vittime. Per questo proseguiremo la costruzione della barriera, pronti a ritornare sulla nostra decisione se e quando i palestinesi daranno prova di volere combattere davvero terrore e violenza».
In che modo Abu Mazen può disarmare Hamas e la Jihad ?
«Attivando 30mila poliziotti armati, con determinazione, perché le parole non sono sufficienti. Ciò che chiediamo sono azioni».
Non c’è il rischio di scatenare una guerra civile?
«Questo rischio non può divenire un alibi per continuare a far vivere un contropotere armato nei Territori. Quando ci sono i terroristi è necessario combattere contro di loro. La soluzione non è parlare e lasciarli continuare, perché la tragedia non è solo per noi israeliani: la continuazione del terrorismo è una grande tragedia per il popolo palestinese».
Cosa può fare, invece, Israele per aiutare Abu Mazen?
«Prima di tutto ritirarsi da Gaza, migliorare la situazione economica, fare concessioni, permettere ai prigionieri palestinesi che non hanno le mani insanguinate, di poter uscire in un futuro non lontano. Israele ha fatto e farà molto, ma l’idea che sempre Israele deve fare e dare e che i palestinesi, in quanto "deboli", debbano solo ricevere non solo è una idea ingiusta ma è anche una idea che non aiuta a raggiungere la pace. Ed è una idea, peraltro, che contrasta con la storia. Nel 2000, il primo ministro israeliano, uomo di sinistra, Ehud Barak aveva avanzato una proposta di straordinaria apertura: la realizzazione di uno Stato palestinese sul 97% dei Territori, con un sacrificio che riguardava la stessa Gerusalemme. Ebbene, Yasser Arafat invece di accettare questo compromesso, scatenò il terrorismo, con l’illusione che la combinazione di negoziato e violenza potesse costringere Israele ad ulteriori aperture. La verità è che la vecchia dirigenza palestinese ha sempre inteso ogni apertura di Israele come una prova di debolezza».
Non avverte il rischio che anche con Abu Mazen si ripeta un tragico copione già sperimentato in passato: ad una apertura corrisponde un attacco terroristico a cui fa seguito una chiusura di Israele.
«No, non è così. Nei giorni scorsi sette cittadini israeliani sono stati uccisi in due attacchi terroristici; nei giorni scorsi la città di Sderot è stata ripetutamente colpita da razzi e colpi di mortaio e una ragazza di 17 anni ha perso la vita. Con Arafat, la reazione militare israeliana sarebbe stata molto più massiccia e pervasiva. Questo è il messaggio per Abu Mazen: l’esercito israeliano non è, come pure sarebbe stato lecito, dentro Gaza per colpire tutti i membri di Hamas con i loro razzi Qassam. Abbiamo dato tempo ad Abu Mazen, decidendo anche di riallacciare i rapporti con l’Anp, ma questo tempo non è, non può essere, infinito. Per noi non è possibile accettare più il terrorismo».
Spesso si parla di «dolorosi sacrifici» che Israele sarebbe pronto a fare pur di raggiungere una pace nella sicurezza. Cosa significa questo in termini concreti?
«Vede, sino a quattro anni non sarebbe stato possibile per un ambasciatore israeliano partecipare a un forum con l’Unità e dire di essere a favore di uno Stato palestinese. Fino a 5,6,7 anni fa era impossibile solo pensarlo. La differenza fra noi e i palestinesi è che noi israeliani negli ultimi anni abbiamo perso molti tabù, e uno di questi è l’idea di uno Stato palestinese non al posto di Israele, ma a fianco di Israele. Un altro tabù da noi superato è quello su Gerusalemme. Non credo sia utile entrare nei dettagli che riguardano l’idea di Israele per il futuro. Il futuro va negoziato con i palestinesi e il negoziato deve riguardare tutte le questioni aperte...».
Ciò vale anche per il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi?
«Il diritto al ritorno non era contemplato negli accordi di Oslo-Washington. Questa questione è stata usata strumentalmente da Arafat a Camp David, nel 2000, per sabotare ogni possibilità di pace. È logica e accettabile l’idea di uno Stato palestinese indipendente, ciò che non è accettabile è la pretesa di fare del diritto al ritorno una sorta di "bomba demografica" mille volte più potente dei terroristi kamikaze: una bomba da usare per distruggere Israele, minandone la sua essenza di fondo: l’essere uno Stato per gli Ebrei. Nessuno può chiedere a Israele di firmare il proprio suicidio nazionale».
ll ritiro da Gaza è da ritenere come la fine di un percorso, ovvero, come sostengono i laburisti oggi al governo, un «Nuovo inizio»?
«Non serve a nessuno fare il processo alle intenzioni o lanciarci in dispute terminologiche. Possiamo sederci al tavolo negoziale, noi con il nostro punto di vista e i palestinesi con il loro. La tragedia è che quattro anni fa, invece di accettare la proposta di Barak, sostenuta dall’allora presidente Usa Bill Clinton, Arafat scelse la strada del terrorismo. La tragedia è che questa scelta sciagurata ha impedito che oggi fossimo a parlare del quinto anno dello Stato palestinese indipendente».
Ci può aiutare a capire meglio la questione dei coloni e la portata dell’opposizione annunciata dal movimento dei coloni al ritiro da Gaza?
«Tutti noi israeliani comprendiamo il dolore di quei cittadini che in passato sono stati chiamati da diversi governi, sia a guida Likud che laburista, a insediarsi nei Territori. Per loro l’evacuazione rappresenta una tragedia. Ma Israele è una democrazia, e la maggioranza del Parlamento e dell’opinione pubblica ritengono che questo sacrificio vada compiuto per la sicurezza del Paese e per ridare una chance alla pace. Questa volontà sarà applicata, anche se ciò significherà esercitare, se necessario, l’uso della forza. Si tratta di un atto di coraggio che dovrebbe servire da insegnamento anche ai palestinesi e al loro nuovo presidente, al quale consiglierei di far propria la lezione di Ben Gurion...».
Di quale lezione si tratta?
«Nel 1948, Ben Gurion, con la nascita dello Stato di Israele, sancì che doveva esistere un solo Stato di Israele, solo un esercito, solo un governo, non due, non tre, non dieci. E per questo combattè contro il Palmach. Arafat non ha avuto un’unghia del coraggio di Ben Gurion. Per Abu Mazen questa è la grande sfida: un governo, un esercito, una sola Autorità, e non 15 gruppi terroristici che si sostengono a vicenda e chi deve pagare è sempre e solo Israele. Ad Abu Mazen chiediamo di avere lo stesso coraggio e la stessa determinazione che nel 1982 ebbe Ariel Sharon quando, nell’ambito deltrattato di pace con l’Egitto, ordinò l’evacuazione forzata dell’insediamento di Yamit, nel deserto del Neghev. Non fu una decisione facile da prendere. Ma era un prezzo da pagare alla pace. E Israele accettò di farlo. I palestinesi devono capire che non si negozia la pace sotto il ricatto terroristico. Né ora né mai. Questo è il momento per il mondo occidentale di dire: "Basta!", ma non solo, anche: "Basta ad Hamas!". È gravissimo che, dopo 18 mesi dalla decisione dell’Unione Europea di includere Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche, non un governo europeo, non il Parlamento europeo abbiano ratificato questa decisione. Ed è altrettanto grave che Hezbollah non è nella lista del terrore. Che cosa è necessario fare e quali altri massacri occorre attendere per convincere il mondo che è necessario combattere il terrorismo?».
Dopo gli attacchi terroristici dei giorni scorsi, Sharon ha irrigidito le relazioni con la nuova leadership palestinese. Non ritiene che ciò possa mettere in un angolo Abu Mazen, facendo di lui una sorta di «Arafat 2»?
«Questa prospettiva è irrealistica, in primo luogo perché Abu Mazen non è, per fortuna, Arafat. A differenza del suo predecessore, il nuovo presidente palestinese ha condannato apertamente la deriva terroristica dell’Intifada e ha impartito ordini chiari per fermare i continui attacchi contro Israele. Sono prese di posizioni incoraggianti ma che necessitano di essere seguite dai fatti. Le buone intenzioni da sole non bastano a fermare i Qassam o a bloccare i kamikaze. Non pretendiamo che Abu Mazen garantisca il 100% di successo contro il terrorismo; ciò che ci attendiamo da lui è di agire con il 100% dello sforzo. Arafat non ha fatto neanche un 1% di sforzo per bloccare i terroristi, al contrario li ha aiutati in tutti i modi».

Qual è oggi l’atmosfera che si vive in Israele?
«È un’atmosfera di ottimismo e di speranza. Un ottimismo che deriva prima di tutto dal fatto che negli ultimi mesi, grazie a Dio, il terrorismo è stato se non debellato certo circoscritto nella sua devastante potenzialità ed oggi, rispetto a un anno fa, è possibile vivere una vita normale, o quasi. Con la morte di Arafat, e con l’elezione di Abu Mazen, esiste una grande attesa in Israele, perché si ritiene possibile la prospettiva dividere in pace con i palestinesi, così come siamo riusciti a farlo con la Giordania pienamente e un po’ meno con l’Egitto, anche se è sempre meglio una pace fredda di una guerra calda».
Lei è da tre anni in Italia ed oggi partecipa ad un forum con un giornale di sinistra. Per quanto riguarda la sinistra italiana, l’intero arco della sinistra, come la vede in questo momento nei rapporti con Israele?
«Esistono molte varianti della sinistra italiana e sarebbe un grave errore abbandonarsi a generalizzazioni sommarie e sbagliate. Per me sarebbe molto ridicolo dire che la destra italiana è amica di Israele e la sinistra il contrario; nei tre anni e poco più che sono in Italia ho conosciuto tanti italiani di destra e di sinistra che sono grandi amici dello Stato di Israele e per me, come ambasciatore, è molto importante lavorare con questo governo ma anche con l’opposizione democratica di sinistra. Nella sinistra italiana ci sono molti, molti amici di Israele ed è pienamente legittimo criticare questa o quella scelta politica di Israele. Ma con una sottolineatura: è molto facile per noi - abbiamo 2000 anni di esperienza - capire quando una critica è una critica di un amico e quando invece è una critica di un meno amico, non vorrei dire nemico. La sinistra italiana ha una amicizia con Israele di 56 anni e l’inizio di questa amicizia è con il partito laburista Mapai negli anni Cinquanta dopo la nascita dello Stato di Israele, ed è ancora oggi una grande amicizia e per me è importante fare il massimo per rafforzarla».
Per quello che riguarda i rapporti tra Israele ed il complesso del mondo arabo, le cose negli ultimi quattro anni o negli ultimi due sono migliorate o peggiorate?
«Gli ultimi due anni sono una storia, quelli precedenti allo scoppio della seconda Intifada (settembre 2000, ndr.) sono un’altra, perché dopo gli accordi di Oslo-Washington è stato possibile per noi aprire un nuovo capitolo nelle nostre relazioni con il mondo arabo, estendendo relazioni formali anche ad alcuni Paesi del Maghreb, il Marocco e la Tunisia, alla Mauritania e a diversi Paesi del Golfo. Uno dei risultati negativi dell’Intifada è stato il rientro i patria degli ambasciatori di Egitto e Giordania. Dopo questi orribili 4 anni, le cose ricominciano a migliorare...».
Due anni sono quelli dall’inizio della guerra in Iraq. Questa guerra per alcuni avrebbe dovuto aprire nuove prospettive e migliorare la situazione nella tormentata, e nevralgica, area mediorientale. L’ha migliorata o l’ha, invece, peggiorata?
«Qualcosa si è mosso nella giusta direzione. In Afghanistan si sono tenute elezioni democratiche, cosa impensabile sino a 3-4 anni fa, e per la prima volta si sono svolte elezioni democratiche per l’Anp, ed ora anche se con grandi problemi e incognite si terranno elezioni in Iraq. Tutto ciò avviene gradualmente, non esiste una soluzione automatica. Una cosa però è certa: con l’affermarsi della democrazia nel mondo arabo sarà più facile risolvere il conflitto israelo-palestinese; senza democrazia è impossibile».
Lei ha detto delle cose molto interessanti sulla politica di Israele volta a interagire positivamente con i Paesi del mondo arabo. In questa ottica, non crede che la guerra in Iraq possa essere un problema per quel processo di pace che Israele auspica?
«Per noi è più che sufficiente il nostro problema del conflitto arabo-israeliano e non vorrei rubare il mestiere all'ambasciatore americano, ma credo - in generale - che il problema di fondo del mondo arabo è la mancanza di democrazia e per questo è molto facile per ogni regime arabo agitare il "Nemico Sionista" per legittimarsi internamente e per non dover rendere conto dei propri fallimenti. È molto facile dire: "La situazione a Gaza è terribile, solo due dollari al giorno per sopravvivere...", ma qual è la situazione nel resto del mondo arabo? In Egitto è forse migliore? E nei Paesi arabi ricchi, come l’Arabia Saudita, dove l’1% della popolazione detiene il 99% della ricchezza, la situazione è forse più esaltante? La verità è che negli ultimi 56 anni il mondo arabo non ha fatto niente per aiutare il popolo palestinese; solo parole, solo l’idea di alimentare questo conflitto perché ciò è una assicurazione sulla vita per questi regimi totalitari».
Lei pensa ad un piano internazionale di aiuti per Israele e i palestinesi?
«Prima di tutto è importante che la comunità internazionale aiuti il popolo palestinese, e questo è anche interesse di Israele, perché con un livello di vita più alto per loro, che supporti il processo di democratizzazione, sarà molto più facile per noi giungere ad una pace nella sicurezza che da sempre è la nostra unica ambizione».
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