Dalla prima pagina del RIFORMISTA di oggi, 08-11-04, riproduciamo un interessante articolo di Peppino Caldarola nel quale, mentre si dà atto al premier israeliano della svolta politica attuata con il piano di ritiro da Gaza, si chiede ai leader di sinistra il coraggio di andare oltre i propri pregiudizi e di appoggiare Sharon.
Ecco l'articolo:Questi giorni di agonia e di morte per Arafat creano anche per Israele problemi nuovi. Il vecchio leader palestinese è stato il grande nemico dello Stato ebraico (non l'unico), ma anche il personaggio che aveva creato l'illusione che la pace fosse a portata di mano. L'ostilità aperta e senza tregua del gruppo dirigente israeliano verso Arafat nasce dopo il fallimento del generoso tentativo di Barak e di Clinton. Spesso l'opinione pubblica occidentale e la sinistra filo-palestinese non ragionano con serenità attorno al contraccolpo che sulla società israeliana, e anche sulla sinistra israeliana, ha avuto il voltafaccia del capo dell'Autorità palestinese. Sharon, la leadership di Sharon, è figlia anche, ma non solo, di quella tremenda disillusione. Molti pensano che la leadership israeliana non abbia interesse a una nuova guida palestinese in grado di portare quel popolo fuori dal ricatto delle formazioni terroriste. Io penso il contrario. Credo che vi sia nella società politica israeliana, in quella legata più direttamente a formazioni religiose e ai coloni, uno spirito di rivincita difficilmente addomesticabile. Ma si sbaglia gravemente a sottovalutare il difficile percorso che una grande parte del gruppo dirigente israeliano, e fra questi lo stesso Sharon, ha deciso di intraprendere scegliendo la parziale smobilitazione delle colonie. La sottovalutazione ci impedisce di guardare con attenzione a ciò che ribolle nello stato ebraico.
Mi è capitato altre volte di scrivere che in questo pregiudizio, molto forte a sinistra, c'è la prosecuzione dello schema della guerra fredda: di qui l'Occidente, di là i popoli oppressi. A Israele sono stati assegnati il ruolo e l'immagine del gendarme per conto dell'Occidente.
Si buttano via così pezzi di storia e di riflessione ebraica, oltre che il grande contributo moderno del sionismo. La novità rivoluzionaria della creazione dello stato ebraico viene in questo modo cancellata. Scrivo «rivoluzionaria» perché penso che di questo si tratti quando si parla della creazione dello Stato ebraico. Così si capisce anche lo speciale rapporto fra Israele e gli Usa. Condivido molto l'analisi che Shmuel N. Eisenstadt fa nel suo volume dedicato alla «Civiltà ebraica» laddove stabilisce un parallelo fra la nascita dello stato ebraico e la rivoluzione americana entrambe portatrici di un modello nazionale legato al sorgere di un nuovo processo storico-politico di spessore mondiale. Eisenstadt dice che «il sionismo è stato quasi l'unico, fra i movimenti nazionali, a tentare di operare una rivoluzione sociopolitica» e così ha fatto la rivoluzione americana. Il legame fra Usa e Israele è cosa antica. Lasciamo stare la pericolosa citazione sul ruolo delle cosiddette lobby ebraiche (attenti alle parole, compagni della sinistra) per capire il rapporto fra israeliani e americani. Vorrei solo ricordare che fu G. Washington, in una memorabile lettera del 1790 alla congregazione ebraica di Newport nel Rhode Island, a sancire il diritto alla parità «dei figli della stirpe di Abramo», nello stesso tempo in cui la rivoluzione francese riconosceva tutto agli ebrei come singoli e nulla agli ebrei come popolo.
La densità di questa storia millenaria, l'approdo allo Stato dopo la Shoa, l'assedio totale del mondo arabo-musulmano a Israele, che realizza la più grande concentrazione di antisemitismo esistente nel mondo moderno dopo la Germania nazista, hanno creato un clima di perenne insicurezza nella gente di Israele. E l'Europa è stata a guardare. Per tutti i paesi vale il peso della storia del proprio popolo per capirne ambizioni e paure, questo non vale per Israele. Per di più la nascita dello stato ha creato l'illusione che fosse stata risolta la «questione ebraica». Si sente dire: che cosa vogliono di più questi ebrei, allora? E' un ragionamento privo di lungimiranza.
Certo, parti delle classi dirigenti israeliane hanno commesso errori gravi. Sharon ha incarnato il mito della Grande Israele. Ma non è stata questa né la posizione di Begin, uomo di destra e guerriero di Israele che fece l'accordo con l'Egitto che costò poi la vita a Sadat per mano degli uomini di Al Zawairi, né è stata questa la posizione di Rabin che attorno alla pacificazione fra ebrei e palestinesi giocò forse la più importante partita della seconda metà del secolo scorso e che pagò con la vita, ucciso da un ultra religioso, il suo tentativo.
Oggi Israele si incammina sulla strada dell'abbandono dei territori. E' troppo poco, dicono in tanti. Lo dice anche l'Europa. Ma può una sinistra moderna stare con il ditino alzato a misurare la lunghezza del passo compiuto senza guardare la profondità e i costi del percorso intrapreso? Il recente voto della Knesset è stato un evento senza precedenti. La sinistra deve tendere una mano a chi si è messo in movimento. Accadono cose singolari. Dirigenti della sinistra spesso affollano gli aeroporti di Tripoli e di Teheran per cogliere spiragli nuovi (nessuno di questi ha riguardato tuttavia la libertà di quei popoli). Sono andati in pellegrinaggio dagli ayatollah «riformisti» come fossero la reincarnazione di Otto Bauer. Non c'è nessuno, leader o mezzo leader, che vola a Gerusalemme e dice, rischiando l'impopolarità in patria: «Bene Sharon, se vai avanti siamo con te, se hai bisogno d'aiuto ti aiutiamo». Che cosa impedisce questo gesto semplice, impegnativo, scandaloso?
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